Las últimas horas del "Che"

LA HIGUERA, 8 ottobre 1967.
Con una frase in codice che suona: “papà cansado” (papà è stanco), è trasmessa via radio a La Paz, la notizia che Guevara è stato catturato. Per il “Che” comincia il conto alla rovescia ed il suo dramma si compie in diciotto ore.
Sono passati molti anni da quel giorno e diversi testimoni sono morti, scomparsi o dispersi. Romano Scovolini, regista di questo straordinario film, ha trovato personaggi fondamentali per ricostruire l’intera vicenda.
Il generale Federico Arana Serrudo, che al tempo della guerriglia era il capo dei servizi segreti boliviani, ed il generale Jaime Niño de Guzman, che parlò a lungo con il “Che” poco prima che venisse assassinato a sangue freddo, e ne trasportò il cadavere da La Higuera a Vallegrande.
Di grande interesse, infine, la ricostruzione che lo storico cubano Froilan Gonzalez fa, con grande lucidità, dell’intera esperienza di guerriglia del “Che” in Bolivia.
Ricorda Susana Osinaga, una delle infermiere che presero in consegna il corpo di Guevara: "Gli occhi del “Che”, bianchi e spalancati, sembrava che mi guardassero dritto nel cuore. Sembrava Gesù Cristo!".















La voce narrante è di Franco Nero. Il documentario è distribuito dall’Istituto Luce.

El pensamiento del "Che"



Il Che è l’emblema stesso, con Fidel Castro, della rivoluzione cubana e più in generale della lotta degli oppressi in tutto il mondo. Il suo spirito di sacrificio e il suo rigore ed onestà intellettuale sono una fonte d’ispirazione per tutti noi.
Non è un caso se la sua figura e le sue opere ritornino periodicamente al centro del dibattito.
Alcuni mesi fa abbiamo assistito in Italia ad una discussione piuttosto vivace che, partendo dalla questione dei diritti delle opere del rivoluzionario argentino, è passata ad affrontare l’evoluzione del suo pensiero politico, soprattutto negli ultimi anni di vita.
Ad agosto 2005 scoppia il caso: i diritti di pubblicazione di 19 manoscritti del Che sono stati venduti a Mondadori per la cifra di un milione e mezzo di dollari da una casa editrice australiana, la Ocean press. Aleida March, vedova di Guevara, e i quattro figli hanno deciso già alcuni anni orsono di affidare a questa impresa commerciale il compito di far circolare gli scritti del Che.
Sullo specifico non abbiamo dubbi. Ogni comunista dovrebbe rispettare le volontà di Guevara, secondo cui il proprio pensiero doveva essere messo a disposizione di tutta l’umanità, senza alcuna limitazione. Una posizione comune ad altri grandi rivoluzionari, da Marx a Lenin. Non è una questione astratta di “purezza”, ma la semplice constatazione che concedere i diritti esclusivi a un’impresa capitalista significa lasciare ad essa carta bianca su cosa può o non può essere pubblicato, sulla base di una mera logica commerciale. L’errore sta quindi nella privatizzazione delle opere del Che, e poco importa che a pubblicarle sia Mondadori o Feltrinelli.
La famiglia ci informa che tutti i proventi saranno reinvestiti per migliorare i servizi sociali a Cuba, ma ciò non affronta la questione politica. Molti di questi scritti rimangono inaccessibili alla stragrande maggioranza dei cubani, fatto di cui giustamente si indigna Celia Hart (figlia di due esponenti di primissimo piano della rivoluzione cubana come Armando Hart e Haydee Santamaria), quando esclama “chi può riservarsi i diritti dell’arrivo della primavera?” nel suo Canto intimo.
Tale censura non può non avere a che fare con le crescenti critiche che il Che aveva cominciato a formulare verso le esperienze di “socialismo reale” dei paesi dell’Est europeo, con cui era entrato in contatto dopo la vittoria della rivoluzione cubana. Questa nostra opinione scandalizzerà tanti epigoni dello stalinismo presenti anche in Italia, che pensano che la difesa della rivoluzione cubana può passare solo attraverso la raffigurazione di un paese senza difetti, dove un partito d’acciaio, monolitico, guida dal 1959 la popolazione verso le gioie del socialismo. La verità è un’altra e i comunisti non devono avere paura della realtà, né nasconderla. Sarebbe un pessimo servizio che renderemmo alle classi oppresse.
A quale marxismo attinge il Che, muovendo i suoi primi passi da rivoluzionario? Non poteva che essere un sistema di pensiero influenzato dallo stalinismo, che godeva di un’influenza enorme dopo la vittoria dell’Unione Sovietica nella Seconda Guerra Mondiale e la Rivoluzione Cinese del 1949.
A metà degli anni cinquanta così Guevara giudica Stalin: “(Fidel e il Che) dormivano accanto. Studiavano un libro del Che, I fondamenti del leninismo di Stalin. Noi tre abbiamo avuto una discussione molto seria. Il Che lo difendeva e io l’attaccavo. L’opinione di Fidel fu lapidaria:’Una rivoluzione, per non dividersi ed essere sopraffatta, ha bisogno di un capo. Vale di più un cattivo capo, che venti capi buoni’.” (C. Franqui, Diario della rivoluzione cubana, 1977. pag. 159)
Allo stesso tempo Castro e Guevara non potevano simpatizzare per la politica dei partiti comunisti latino americani, estremamente degenerati, tantomeno per il Pc cubano. Lanciano così un nuovo movimento guerrigliero, il "Movimento 26 Luglio".
L’obiettivo della guerriglia, quando cominciava la lotta contro la dittatura di Batista, non era la rivoluzione socialista, bensì l’introduzione di riforme radicali tese all’indipendenza nazionale, restando all’interno del sistema capitalista, come si evince leggendo “La storia mi assolverà”, il famoso discorso tenuto da Castro durante il processo successivo all’assalto alla Caserma Moncada. Fidel rivendicava “la partecipazione agli utili da parte degli operai e degli impiegati”, “l’instaurazione della giustizia sociale, fondata sul progresso economico ed industriale”.
Nei primi mesi del 1959, immediatamente dopo la presa del potere, anche il Che nutre illusioni riguardo ad un possibile sviluppo democratico tutto interno al capitalismo, come spiega in un’intervista:
Noi siamo democratici, il nostro movimento è democratico, di coscienza liberale e interessato alla cooperazione di tutta l’America. È un vecchio sotterfugio dei dittatori di chiamare comunisti quelli che si rifiutano di sottomettersi a loro. Entro un anno e mezzo sarà organizzata un forza politica con l’ideologia del Movimento 26 luglio. Allora ci saranno elezioni e il nuovo partito entrerà in competizione con gli altri partiti democratici.” (H. Thomas, Storia di Cuba, pag. 831)
A Cuba tuttavia uno stadio “democratico” del capitalismo non poteva esistere e si doveva scontrare con il dominio totale da parte dell’imperialismo statunitense su ogni aspetto della vita economica e politica di Cuba, tanto che le multinazionali Usa possedevano il novanta per cento dell’industria dell’isola!
Dal minuto successivo all’entrata del "Movimento 26 Luglio" a L’Avana, gli Usa cominciano ad ostacolare e sabotare il nuovo governo rivoluzionario. Non c’era quindi possibilità di sviluppo sotto il capitalismo e in quello stesso periodo Unione Sovietica, Cina ed il resto dei paesi dell’Est rappresentavano un importante punto di riferimento. Quando il governo nordamericano si rifiuta di comprare lo zucchero da Cuba, Mosca si offre di acquistarlo al suo posto.
Sulla base dell’impetuosa spinta rivoluzionaria il capitalismo è stato eliminato a Cuba, ma per costruire il nuovo sistema non si è seguito l’esempio della repubblica dei soviet dei tempi di Lenin, bensì l’Unione Sovietica di Stalin e di Krusciov. Un sistema dove la burocrazia, a causa dell’arretratezza e dell’isolamento dell’Urss, aveva espropriato del potere politico la classe lavoratrice. Tutti gli organismi propri della democrazia operaia, i soviet, i consigli, ecc. erano ridotti a mere cinghie di trasmissione delle decisioni dell’apparato statale. A Cuba in quei primi anni esiste una grande voglia di partecipazione da parte dei lavoratori e delle classi oppresse, ma nessuna struttura dove potere esprimerla. Nessuna possibilità di elezione e revoca in qualsiasi momento dei funzionari e degli amministratori era contemplata.
I rivoluzionari cubani, non avendo altro modello a cui ispirarsi, applicano quello suggerito dai consiglieri sovietici. In quei primi anni Che Guevara è sinceramente convinto che quella sia la strada da perseguire ed esistono numerose testimonianze al riguardo. Prendiamo l’esempio del “Regolamento de la Empresa consolidada” elaborato dal Che quando era ministro dell’Industria. Si può leggere che al direttore, nominato dal Ministero, spetta “di conoscere e amministrare in tutte le sue fasi di pianificazione, organizzazione, realizzazione e controllo, tutte le funzioni e i compiti dell’impresa consolidata, come di amministrare i suoi mezzi e i suoi impianti e tutto ciò che le concerne, e rappresentarla in ogni circostanza.” (E. Guevara, op. cit., pag 509).
L’Unione Sovietica, nonostante tutte le deformazioni, che avrebbero alla fine degli anni ottanta portato al crollo del sistema, a quel tempo poteva vantare grandi successi nel campo dell’economia, della scienza, della cultura. Questo accadeva malgrado il controllo burocratico, grazie all’abolizione del sistema di mercato ed alla pianificazione delle risorse economiche. Ecco la prima impressione del Che in visita in Urss: “Anche io, arrivando in Unione Sovietica, mi sono sorpreso perché una delle cose che si nota di più è l’enorme libertà che c’è (…) l’enorme libertà di pensiero, l’enorme libertà che ha ciascuno di svilupparsi secondo le proprie capacità ed il proprio temperamento.” (E. Guevara, Scritti, discorsi e diari di guerriglia, Einaudi 1969, pag. 946) Queste parole furono pronunciate nel 1961, cinque anni dopo la repressione della rivoluzione operaia ungherese da parte delle truppe di Mosca.
E sulla strategia di sviluppo del socialismo, parlando ancora dell’Urss, si può notare quanta confusione era presente nelle idee del rivoluzionario argentino: “Mi ascolti bene, ogni rivoluzione, lo voglia o no, le piaccia o no, sconta una fase inevitabile di stalinismo, perché deve difendersi dall’accerchiamento capitalista.” (K. S. Karol, La guerriglia al potere, Mondadori 1970, pag.53)
Lo stalinismo qui viene trattato come una malattia dell’infanzia. In realtà è stato un processo di controrivoluzione politica portato avanti da una casta, la burocrazia di cui Stalin era appunto il rappresentante, che non si esaurì affatto con la morte di quest’ultimo. Comportò l’eliminazione fisica di tutta la vecchia guardia bolscevica, quella della Rivoluzione d’Ottobre. Il filo della tradizione rivoluzionaria fu interrotto in numerosi paesi. Per questo le posizioni antistaliniste nel movimento comunista, come quella di Trotskij, erano debolissime in paesi come Cuba, e spesso venivano esposte in maniera del tutto caricaturale. Di tutto questo Guevara se ne sarà reso probabilmente conto negli ultimi anni della sua vita.
Il problema per Cuba in quegli anni non era opporsi alla cooperazione con l’Unione Sovietica che non era solo inevitabile, ma necessaria. Il problema nasceva dalla trasposizione integrale del modello sovietico nell’isola, pensare che un modello burocratico come quello potesse mantenersi all’infinito ed all’interno del quale Cuba potesse ritagliarsi un ruolo, immutabile e garantito, di fornitore di materie prime e generi alimentari (zucchero e nickel) senza curarsi più di tanto di uno sviluppo armonico dell’economia.
Guevara comincia a porsi i primi interrogativi osservando i problemi che affliggevano la gestione dell’industria, settore di cui era ministro. Nel dibattito sul “sistema di calcolo di bilancio” in cui il Che viene accusato di introdurre misure capitaliste, egli spiega: “Ci sono molte analogie con il sistema di calcolo dei monopoli, ma nessuno può negare che i monopoli hanno un sistema di calcolo molto efficiente” e critica il sistema utilizzato dall’Urss che produce disuguaglianze, prevedendo come asse centrale gli incentivi individuali (soprattutto agli amministratori). Sicuramente Guevara coglie uno degli aspetti centrali del pensiero di Lenin, quando introdusse la Nep, vale a dire utilizzare dei metodi capitalisti in una situazione di grande arretratezza ed isolamento, aspettando la svolta decisiva che sarebbe arrivata con la rivoluzione in altri paesi. A differenza del marxista russo, tuttavia, il Che non vede nella democrazia operaia la chiave di volta per lo sviluppo dell’economia pianificata. In ogni sistema economico ci deve essere una parte della società interessata a che esso funzioni. Nell’economia capitalista questo ruolo è svolto dai padroni, in un’economia pianificata protagonista non può che essere la classe operaia.
Inoltre Lenin considerava la Nep come un espediente: era necessario introdurre misure capitaliste per “tirare il fiato” fintanto che non avesse avuto successo la rivoluzione nel resto dell’Europa, unica soluzione ai problemi dello Stato sovietico. Un approccio internazionale alla risoluzione delle problematiche economiche è del tutto assente da parte di Castro e Guevara in quel periodo.
Nella discussione sugli incentivi che si sviluppa in quel periodo Guevara critica il ricorso esclusivo agli incentivi materiali ed economici puntando sugli incentivi morali senza però legarli mai al controllo operaio sui mezzi di produzione.
Uno dei meccanismi più importanti nel suo modello di organizzazione della società era costituito dall’emulazione socialista, vale a dire lo stakhanovismo, considerata come “un’arma per aumentare la produzione ed uno strumento per elevare la coscienza delle masse.” (citato nel libro di Carlos Tablada Perez, Economia, etica e politica nel pensiero di Ernesto Che Guevara, pag. 209) Un metodo competitivo tuttavia, pure se “socialista”, impiantato su un’economia ben lontana da quella dell’abbondanza del vero socialismo, non può che portare a favoritismi e disuguaglianze, tanto più in un’economia arretrata.
Il dibattito sull’economia in quegli anni a Cuba è quindi del tutto falsato. Si può discutere, certo, su quanto siano importanti gli incentivi materiali rispetto a quelli morali, o viceversa.
Ambedue tuttavia, inseriti in un contesto di assenza di ogni forma di controllo operaio, possono produrre gravi distorsioni all’interno dell’economia pianificata. Si ritorna sempre al problema evidenziato da Trotskij: “L’economia pianificata ha bisogno della democrazia come il corpo umano ha bisogno dell’ossigeno.”
Guevara invece darà sempre più importanza al volontarismo, allo sviluppo dell’uomo nuovo, come si può notare in uno dei suoi scritti più famosi: Il Socialismo e l’uomo a Cuba. Cercare di costruire “l’uomo nuovo”, libero da alienazione ed egoismo deve essere certamente una delle priorità di un comunista quando si pone l’obiettivo di sviluppare una società socialista, ma questo processo deve avere delle precise basi materiali nella società e prevedere il ruolo decisivo della classe lavoratrice nel nuovo sistema.
Sul rapporto tra i vertici e le masse nello stato socialista cubano, è interessante l’illustrazione fornita dal Che stesso ne Il socialismo e l’uomo a Cuba: “L’iniziativa parte generalmente da Fidel o dai massimi dirigenti della rivoluzione, e viene spiegata al popolo che la fa sua. Altre volte il partito ed il governo realizzano esperienze locali per poi generalizzarle, seguendo lo stesso procedimento.” (E. Guevara, Il socialismo e l’uomo a Cuba, pag. 700).
E ancora: “Nelle grandi adunate pubbliche si osserva qualcosa di simile al dialogo di due diapason in cui le vibrazioni di uno producono nuove vibrazioni nell’altro. Fidel e le masse cominciano a vibrare in un dialogo di intensità crescente fino a raggiungere l’unisono in un finale improvviso, coronato dal nostro grido di lotta e vittoria.” (E. Guevara, op. cit. pag. 701).
Tutto molto lontano dai principi di Lenin, illustrati in Stato e rivoluzione e già citati in questa rivista: da “tutto il potere ai consigli”, alla rotazione delle cariche elettive, e cosi via.
Più avanti il Che si pone il problema della partecipazione delle masse ai processi decisionali quanto spiega che “è necessario accentuare la sua partecipazione cosciente, individuale e collettiva, in tutti i meccanismi direttivi e produttivi.” (op. cit., pag. 704). Si mette alla ricerca di “nuove istituzioni rivoluzionarie”: “Questa istituzionalizzazione della rivoluzione non si è ancora attuata. Stiamo cercando qualcosa di nuovo che permetta l’identificazione perfetta tra il governo e la comunità nel suo insieme”. (op. cit.,pag. 704). Tuttavia non ne sa indicare i mezzi per farlo. Ciò fornisce la misura di quanto profonda sia stata la frattura operata dalla burocrazia rispetto alle idee del vero bolscevismo e dell’ottobre sovietico, tanto che sinceri rivoluzionari come il Che faticano enormemente per elaborare un’alternativa complessiva allo stalinismo.
Su questo ultimo aspetto, sintomatica la posizione estrema che egli sviluppò sulla questione dei sindacati: “Di una cosa sono sicuro, ed è che il sindacato è un freno che va distrutto, ma non con il sistema di esaurirlo: bisogna distruggerlo come si dovrebbe distruggere lo Stato in un momento.” (questa e tutte le altre citazioni degli inediti del Che sono riprese dagli articoli di Antonio Moscato apparsi su Liberazione, tra settembre ed ottobre 2005).
Questa presunta inutilità del ruolo dei sindacati nell’economia pianificata non tiene conto che anche il migliore sistema di democrazia operaia non sarà mai un sistema perfetto, perché rifletterà gli antagonismi delle varie classi, non ancora scomparse. Potrà capitare che i lavoratori dovranno organizzarsi per difendersi da possibili soprusi che il loro Stato, lo Stato operaio, potrà commettere. Di qui la necessità di una struttura sindacale nell’epoca di transizione. Questa era la posizione difesa da Lenin nel dibattito sui sindacati nella Russia sovietica del 1920. In quel dibattito Lenin si scontrò con Trotskij, che in seguito ammise di aver avuto torto.
Il principale punto di scontro portato avanti da Guevara (e, almeno nel periodo iniziale della rivoluzione, anche da Fidel) rispetto all’Unione Sovietica è soprattutto sull’internazionalismo. Negli anni sessanta Cuba lancia numerosi appelli alla rivoluzione socialista in America Latina, contenuti nel messaggio alla Tricontinentale e nella Seconda dichiarazione dell’Avana, ambedue scritti dal Che. La necessità di estendere la rivoluzione è una delle principali intuizioni del Che, che mal si concilia con la “coesistenza pacifica”, propugnata da Krusciov. Per Guevara il socialismo in un solo paese era semplicemente impossibile.
Gli inediti rivelano una posizione durissima di Guevara: “L’internazionalismo è rimpiazzato dallo sciovinismo (da poca potenza o da piccolo paese), o dalla sottomissione all’Urss, mantenendo le discrepanze tra altre democrazie popolari (Comecon).” (Comecon: Consiglio di Mutua Assistenza Economica, organo per la pianificazione economica comunitaria dei Paesi socialisti dell’Est europeo, costituito nel 1949, ndr)
Gli ultimi anni del Che sono caratterizzati da una crescente sfiducia sul ruolo dei paesi del “socialismo reale”, e gli inediti inseriscono in un contesto ancora più chiaro il suo discorso al Secondo Seminario Economico Afroasiatico, svoltosi ad Algeri nel Febbraio 1965: “Come si può parlare di “reciproca utilità” quando si vendono ai prezzi del mercato mondiale le materie prime che costano sudore e sangue e patimenti ai paesi arretrati, e si comprano ai prezzi del mercato mondiale le macchine prodotte dalle grandi fabbriche automatizzate di adesso?
Se stabiliamo questo tipo di relazione tra i due gruppi di nazioni, dobbiamo convenire che i paesi socialisti sono, in un certo modo, complici dello sfruttamento imperialista
. (...) I paesi socialisti hanno il dovere morale di farla finita con la loro tacita complicità con i paesi occidentali sfruttatori.” (Guevara, op. cit., pag. 1422)
Insieme a questi ragionamenti troviamo una critica pungente alla burocrazia, definita “un freno per l’azione rivoluzionaria”, ma anche “un acido corrosivo che snatura (...) l’economia, l’educazione, la cultura e i servizi pubblici”, al punto che “ci danneggia più dell’imperialismo stesso”.
La ricerca di una diversa via al socialismo fu senz’altro uno delle principali preoccupazioni del Che nell’ultimo periodo. La sua tragica fine ha interrotto questo percorso, per cui è difficile oggi stabilire quale sarebbe stato l’approdo. Di sicuro Guevara aveva rotto con lo stalinismo.
Per il Chel’internazionalismo proletario è un dovere, ma anche una necessità rivoluzionaria.”, scontrandosi così con il nazionalismo dei partiti comunisti ufficiali e con una visione strettamente “cubana” di tanti rivoluzionari nell’isola. Fino alla fine della sua vita la bussola della sua attività politica sarà l’estensione della rivoluzione in tutta l’America Latina. Non aveva nessuna fiducia sulla presunta natura progressista delle varie borghesie nazionali, difesa da Mosca e Pechino: “Le borghesie nazionali hanno perso ogni capacità di opporsi all’imperialismo (se mai l’ebbero sul serio) e ne costituiscono, anzi, il vagone di coda. Non c’è alternativa ormai: o rivoluzione socialista o caricatura di rivoluzione.” (Guevara, op. cit., pag. 666)
Entra in conflitto, come abbiamo visto, con la burocrazia sovietica su questi e su diversi altri temi. Ma pensare che fosse diventato “trotskista”, come alcuni storici “alternativi” pretendono, non corrisponde alla realtà. Significa commettere un torto alla stessa figura di Ernesto Guevara, che aveva elevato l’onestà e il rigore intellettuale a (giusti) principi. Guevara era un rivoluzionario che stava riflettendo profondamente sulla sue esperienze politiche e sulle prospettive per la rivoluzione. Nell’ultimo periodo della sua vita legge Trotskij, come rivelano i suoi quaderni ritrovati a La Paz, concentrandosi su libri come La rivoluzione tradita e Storia della Rivoluzione russa, di cui ricopia pagine intere. Ma la sua riflessione rimarrà incompleta.
Le scelte di sviluppare una lotta di guerriglia in Congo prima e in Bolivia poi lo denotano, rafforzate da alcuni stralci degli inediti oggi accessibili. Quando Guevara si domanda se il proletariato rappresenti ancora la forza trainante del processo rivoluzionario, la risposta è categorica: “I casi della Cina, del Vietnam e di Cuba dimostrano la scorrettezza di questa tesi. Nei primi due casi la partecipazione del proletariato è stata nulla o scarsa, a Cuba la lotta non è stata diretta dal partito della classe operaia, ma da un movimento policlassista radicalizzatosi dopo la presa del potere politico.” In realtà a Cuba lo sciopero generale, che paralizzò il paese per una settimana, fu decisivo per la presa del potere. La classe lavoratrice era entrata con prepotenza sulla scena della rivoluzione, ma senza alcun organismo di rappresentanza, paragonabile a quello che erano stati i soviet nel 1917 in Russia, e ripose la sua fiducia nella guerriglia di origine contadina. Questo facilitò enormemente l’ascesa di una burocrazia che si pose alla testa dell’apparato dello Stato. In Cina o in Vietnam la lotta di guerriglia portò sì alla vittoria contro l’imperialismo e all’abbattimento del capitalismo ma il regime che si impose fu fin dall’inizio quello di uno Stato operaio deformato a immagine e somiglianza dell’Urss.
Una delle lezioni della rivoluzione russa del 1917 è stata proprio che anche in un paese arretrato il proletariato gioca un ruolo decisivo, non importa quanto sia minoritario dal punto di vista numerico.
Il marxismo non sottovaluta l’importanza del movimento contadino. Senza l’appoggio delle masse dei contadini poveri, milioni dei quali impegnati al fronte, la rivoluzione d’ottobre non sarebbe mai stata possibile. Ma fu la classe operaia industriale, pur rappresentando una minoranza della società russa (poco più del 10%), a guidare il movimento rivoluzionario. È nell’industria che, in ogni paese dove si siano instaurati rapporti capitalistici di produzione, si gioca lo scontro decisivo. Il ruolo dirigente nella lotta per il socialismo è assegnato alla classe operaia non per diritto divino ma per il ruolo che occupa nella produzione.
L’esperienza delle lotte anticoloniali in tutti quegli anni è chiara: nei paesi dove il capitalismo è stato abbattuto e dove la guerriglia contadina ha avuto un ruolo guida in questo processo, non si è instaurato uno Stato operaio sano, ma uno di natura burocratica costruito ad immagine e somiglianza dei regimi di Mosca e di Pechino.
Troviamo del tutto comprensibile il fatto che Che Guevara, formatosi politicamente negli anni cinquanta e sessanta, non considerasse il proletariato dei paesi occidentali come decisivo, visto il lungo silenzio del movimento operaio in quei paesi, favorito dal boom economico del dopoguerra. Ma fu sbagliato elevare una fase di riflusso delle lotte operaie a teoria generale. Purtroppo il Maggio francese e l’Autunno caldo italiano arrivarono in ritardo per permettere al Che di rettificare le sue analisi. Nel tentativo di creare “due, tre, cento Vietnam” Guevara generalizzò i metodi sperimentati nella rivoluzione cubana. La lotta si doveva sviluppare fuori dalle città, il partito non doveva strutturarsi come avanguardia della classe operaia. Queste teorie portarono in molti paesi dell’America Latina a strappare dalle fabbriche e dalle città i militanti delle organizzazioni rivoluzionarie al fine di concentrarli nelle campagne, persino in paesi ad alto tasso di industrializzazione come Uruguay od Argentina! Era il “fochismo”, teoria così riassunta nelle parole del Che: “Non è sempre necessario aspettare che si diano tutte le condizioni per la rivoluzione; il focolaio insurrezionale può crearle.” (E. Guevara, op. cit., pag. 284).
La storia del movimento operaio dimostra proprio il contrario: i rivoluzionari intervengono nelle rivoluzioni, non le creano. E le esperienze del Congo e della Bolivia suffragano questa nostra ipotesi. Nonostante tutti gli sforzi, ed anche grazie a causa del carattere corrotto delle leadership nazionaliste della guerriglia congolese, il periodo passato in Congo diverrà “l’anno in cui non siamo stati da nessuna parte”, secondo alcuni compagni di avventura del Che.
I gruppi di studenti congolesi, addestrati in Cina ed in Bulgaria, come racconta Guevara, “non avevano alcuna intenzione di rischiare la vita in combattimento”, appena arrivati la loro preoccupazione era di chiedere 15 giorni di licenza e protestavano “perché non avevano un posto dove lasciare i bagagli e non c’erano armi pronte per loro. Una situazione davvero comica, se non fosse stato così triste vedere l’atteggiamento di quei ragazzi su cui la rivoluzione aveva riposto le proprie speranze.” (L’anno in cui non siamo stati da nessuna parte, a cura di P.I. Taibo II, F. Escobar, F. Guerra, 1994, pag. 233-234)
In Bolivia, il ruolo di boicottaggio cosciente svolto dalla direzione del Partito comunista boliviano fu eclatante. Addirittura Fidel Castro in una delle sue prefazioni al Diario di Bolivia accusa di “tradimento” i dirigenti del Pcb. Ma da solo ciò non può bastare a spiegare il fallimento delle spedizione cubana in Bolivia.
Guevara si recò a creare dal nulla un movimento guerrigliero nella regione attorno a Nancahuazu, una zona spopolata, inadatta alla guerriglia, senza praticamente alcuna base d’appoggio nelle città. Qui vediamo tutti i limiti del fochismo. Anche se ammettiamo che l’intento del Che era quello di creare “una scuola politico-militare per guerriglieri boliviani” e “non andava a calare una guerriglia dall’alto”, come argomenta Antonio Moscato in un suo recente libro, la sostanza della questione non cambia affatto. Formare un’avanguardia cosciente e disposta ai più grandi sacrifici è uno dei primi compiti di un rivoluzionario. Ma altrettanto importante è che questa avanguardia non si separi dalle masse, e soprattutto che operi fra quei settori delle masse che sono decisivi per un cambiamento rivoluzionario
In Bolivia esisteva un forte movimento operaio, la cui avanguardia erano i minatori dello stagno. Dopo qualche anno il movimento delle masse spazzò via la dittatura, nel 1970, e aprì la pur breve esperienza della “Comune” di La Paz nel ‘71. Dove si trovavano le risorse migliori per una lotta rivoluzionaria veramente efficace?
Che Guevara ha pagato con la vita i suoi errori. Discutere oggi il suo lascito politico e teorico è un compito indispensabile. Ma non può essere svolto col metodo scolastico di chi pensa di selezionare le “giuste” citazioni per accreditare alla propria corrente politica una maggiore vicinanza con la figura del Che. Il Che era un sincero rivoluzionario, e lo studio del suo pensiero assume significato attuale in primo luogo in relazione alle vicende passate, presenti e future della rivoluzione cubana e latinoamericana.
Per questo pensiamo che tra gli insegnamenti del Che, ce ne sia uno più che mai attuale: la lotta per la rivoluzione socialista in tutto il continente latinoamericano, l’internazionalismo non come parola astratta, ma come via maestra del movimento rivoluzionario (e non a caso proprio su questo il Che e la rivoluzione cubana dei primi anni si trovarono in aspro conflitto con i partiti comunisti di osservanza sovietica). Qui risiede l’unica salvezza per la rivoluzione cubana. Una lotta più che mai attuale oggi, quando rivoluzioni e mobilitazioni di massa si susseguono, dal Venezuela alla Bolivia, dall’Ecuador all’Argentina, che ci vede impegnati nel sostenere politicamente e materialmente le forze del marxismo che operano in quei paesi.

Roberto Sarti

Tienes que decidir...



Tienes que decidir
quién prefieres que te mate:
un comando terrorista
o tu propio gobierno para salvarte
del comando terrorista.
Tienes que decidir
qué prefieres que te mate:
la pobreza, la miseria
el Tratado de Libre Comercio
o el programa contra el hambre.

Ya se acabó aquel tiempo en que decidían
cómo nos mataban y si preguntarnos siquiera
por pura cortesía,
si era nuestro deseo el de fenecer
como los mosquitos al amanecer o morirnos de sed.
Ya nos mataron de tantas maneras
ya nos cansamos de ir al panteón
ya no sabemos si somos civiles, rehenes,
vampiros o simples mortales.
Pero de tanto morirnos,
al menos nos hemos ganado el derecho de decidir
cómo queremos morir.

Tienes que decidir cómo prefieres morir
de hambre natural
de asco terminal
de pago de predial
ahorcada con tu chal
debiendo un dineral
cruzando de ilegal.

(Liliana Felipe)
__________

Devi decidere
chi preferisci che ti ammazzi:
un commando terroristico
o il tuo proprio governo per salvarti
dal comando terroristico.
Devi decidere
che cosa preferisci che ti ammazzi:
la povertà, la miseria
il Trattato di Libero Commercio
o il programma contro la fame.

E' ormai finito quel tempo in cui decidevano
come c'ammazzavano e ci si chiedeva solo
per pura cortesia,
se era nostro desiderio di finire
come le zanzare all'alba o morire di sete.
C'ammazzarono già di tante maniere
che ormai ci stanchiamo di andare al pantheon
e non sappiamo più se siamo civili, ostaggi,
vampiri o semplici mortali.
Ma a furia di morircene,
almeno ci siamo guadagnati il diritto di decidere
come vogliamo morire.

Devi decidere come preferisci morire
di fame naturale
di schifo terminale
di pagamento di imposte
impiccata col tuo scialle
dovendo un capitale
migrando da clandestino.

(Liliana Felipe)

El teatro del Bien y el Mal

En la lucha del Bien contra el Mal, siempre es el pueblo quien pone los muertos.
Los terroristas han matado a trabajadores de cincuenta países, en Nueva York y en Washington, en nombre del Bien contra el Mal. Y en nombre del Bien contra el Mal el presidente Bush jura venganza: "Vamos a eliminar el Mal de este mundo", anuncia.
¿Eliminar el Mal? ¿Qué sería del Bien sin el Mal? No sólo los fanáticos religiosos necesitan enemigos para justificar su locura. También necesitan enemigos, para justificar su existencia, la industria de armamentos y el gigantesco aparato militar de Estados Unidos. Buenos y malos, malos y buenos: los actores cambian de máscaras, los héroes pasan a ser monstruos y los monstruos héroes, según exigen los que escriben el drama.
Eso no tiene nada de nuevo. El científico alemán Werner von Braun fue malo cuando inventó los cohetes V-2, que Hitler descargó sobre Londres, pero se convirtió en bueno el día en que puso su talento al servicio de Estados Unidos. Stalin fue bueno durante la Segunda Guerra Mundial y malo después, cuando pasó a dirigir el Imperio del Mal. En los años de la guerra fría escribió John Steinbeck: "Quizá todo el mundo necesita rusos. Apuesto a que también en Rusia necesitan rusos. Quizá ellos los llaman americanos." Después, los rusos se abuenaron. Ahora, también Putin dice: "El Mal debe ser castigado."
Saddam Hussein era bueno, y buenas eran las armas químicas que empleó contra los iraníes y los kurdos. Después, se amaló. Ya se llamaba Satán Hussein cuando los Estados Unidos, que venían de invadir Panamá, invadieron Irak porque Irak había invadido Kuwait. Bush Padre tuvo a su cargo esta guerra contra el Mal. Con el espíritu humanitario y compasivo que caracteriza a su familia, mató a más de cien mil iraquíes, civiles en su gran mayoría.
Satán Hussein sigue estando donde estaba, pero este enemigo número uno de la humanidad ha caído a la categoría de enemigo número dos. El flagelo del mundo se llama ahora Osama Bin Laden. La Agencia Central de Inteligencia (CIA) le había enseñado todo lo que sabe en materia de terrorismo: Bin Laden, amado y armado por el gobierno de Estados Unidos, era uno de los principales "guerreros de la libertad" contra el comunismo en Afganistán. Bush Padre ocupaba la vicepresidencia cuando el presidente Reagan dijo que estos héroes eran "el equivalente moral de los Padres Fundadores de América". Hollywood estaba de acuerdo con la Casa Blanca. En estos tiempos, se filmó Rambo 3: los afganos musulmanes eran los buenos. Ahora son malos malísimos, en tiempos de Bush Hijo, trece años después.
Henry Kissinger fue de los primeros en reaccionar ante la reciente tragedia. "Tan culpable como los terroristas son quienes les brindan apoyo, financiación e inspiración", sentenció, con palabras que el presidente Bush repitió horas después.
Si eso es así, habría que empezar por bombardear a Kissinger. El resultaría culpable de muchos más crímenes que los cometidos por Bin Laden y por todos los terroristas que en el mundo son. Y en muchos más países: actuando al servicio de varios gobiernos estadunidenses, brindó "apoyo, financiación e inspiración" al terror de Estado en Indonesia, Camboya, Chipre, Irán, Africa del Sur, Bangladesh y en los países sudamericanos que sufrieron la guerra sucia del Plan Cóndor.
El 11 de septiembre de 1973, exactamente 28 años antes de los fuegos de ahora, había ardido el palacio presidencial en Chile. Kissinger había anticipado el epitafio de Salvador Allende y de la democracia chilena, al comentar el resultado de las elecciones: "No tenemos por qué aceptar que un país se haga marxista por la irresponsabilidad de su pueblo."
El desprecio por la voluntad popular es una de las muchas coincidencias entre el terrorismo de Estado y el terrorismo privado. Por poner un ejemplo, la ETA, que mata gente en nombre de la independencia del País Vasco, dice a través de uno de sus voceros: "Los derechos no tienen nada que ver con mayorías y minorías."
Mucho se parecen entre sí el terrorismo artesanal y el de alto nivel tecnológico, el de los fundamentalistas religiosos y el de los fundamentalistas del mercado, el de los desesperados y el de los poderosos, el de los locos sueltos y el de los profesionales de uniforme. Todos comparten el mismo desprecio por la vida humana: los asesinos de los cinco mil quinientos ciudadanos triturados bajo los escombros de las Torres Gemelas, que se desplomaron como castillos de arena seca, y los asesinos de los doscientos mil guatemaltecos, en su mayoría indígenas, que han sido exterminados sin que jamás la tele ni los diarios del mundo les prestaran la menor atención. Ellos, los guatemaltecos, no fueron sacrificados por ningún fanático musulmán, sino por los militares terroristas que recibieron "apoyo, financiación e inspiración" de los sucesivos gobiernos de Estados Unidos.
Todos los enamorados de la muerte coinciden también en su obsesión por reducir a términos militares las contradicciones sociales, culturales y nacionales. En nombre del Bien contra el Mal, en nombre de la Unica Verdad, todos resuelven todo matando primero y preguntando después. Y por ese camino, terminan alimentando al enemigo que combaten. Fueron las atrocidades de Sendero Luminoso las que en gran medida incubaron al presidente Fujimori, que con considerable apoyo popular implantó un régimen de terror y vendió el Perú a precio de banana. Fueron las atrocidades de Estados Unidos en Medio Oriente las que en gran medida incubaron la guerra santa del terrorismo de Alá.
Aunque ahora el líder de la Civilización esté exhortando a una nueva Cruzada, Alá es inocente de los crímenes que se cometen en su nombre. Al fin y al cabo, Dios no ordenó el holocausto nazi contra los fieles de Jehová, y no fue Jehová quien dictó la matanza de Sabra y Chatila ni quien mandó expulsar a los palestinos de su tierra. ¡Acaso Jehová, Alá y Dios a secas no son tres nombres de una misma divinidad?
Una tragedia de equívocos: ya no se sabe quién es quién. El humo de las explosiones forma parte de una mucho más enorme cortina de humo que nos impide ver. De venganza en venganza, los terrorismos nos obligan a caminar a los tumbos. Veo una foto, publicada recientemente: en una pared de Nueva York alguna mano escribió: "Ojo por ojo deja al mundo ciego".
La espiral de la violencia engendra violencia y también confusión: dolor, miedo, intolerancia, odio, locura. En Porto Alegre, a comienzos de este año, el argelino Ahmed Ben Bella advirtió: "Este sistema, que ya enloqueció a las vacas, está enloqueciendo a la gente." Y los locos, locos de odio, actúan igual que el poder que los genera.
Un niño de tres años, llamado Luca, comentó en estos días: "El mundo no sabe dónde está su casa." El estaba mirando un mapa. Podía haber estado mirando un noticiero.

Eduardo Galeano




Nella lotta del Bene contro il Male è sempre il popolo a metterci i morti.
I terroristi hanno ucciso lavoratori di cinquanta paesi, a New York e a Washington, nel nome del Bene contro il Male. E nel nome del Bene contro il Male, il presidente Bush giura vendetta: "Elimineremo il Male da questo mondo", annuncia.
Eliminare il Male? Che cosa sarebbe il Bene senza il Male? Non solo i fanatici religiosi hanno bisogno di nemici per giustificare la loro follia. Anche l'industria degli armamenti e il gigantesco apparato militare degli Stati Uniti hanno bisogno di nemici per giustificare la loro esistenza. Buoni e cattivi, cattivi e buoni: gli attori si cambiano la maschera, gli eroi diventano mostri e i mostri eroi, a seconda delle esigenze di coloro che scrivono il dramma.
Non c'è niente di nuovo. Lo scienziato tedesco Werner von Braun era cattivo quando inventò i missili V-2 che Hitler sganciò su Londra, ma divenne buono il giorno in cui mise il suo talento al servizio degli Stati Uniti. Stalin era buono durante la seconda guerra mondiale e cattivo dopo, quando si mise a comandare l'Impero del Male. Negli anni della guerra fredda, scrisse John Steinbeck: "Forse tutti hanno bisogno dei russi. Scommetto che anche in Russia hanno bisogno dei russi. Forse loro li chiamano americani". Poi i russi sono diventati buoni. Adesso anche Putin dice: "Il Male dev'essere castigato".
Saddam Hussein era buono e buone erano le armi chimiche che impiegò contro gli iraniani e i kurdi. Dopo divenne cattivo. Si chiamava ormai Satán Hussein quando gli Stati Uniti, che avevano appena invaso Panama, invasero l'Iraq perché l'Iraq aveva invaso il Kuwait. Fu Bush Padre a occuparsi di questa guerra contro il Male. Con lo spirito umanitario e compassionevole che caratterizza la sua famiglia, uccise più di centomila iracheni, perlopiù civili.
Satán Hussein continua ad essere dov'era, ma questo nemico numero uno dell'umanità è scaduto nella categoria di nemico numero due. Il flagello del mondo, adesso, si chiama Osama bin Laden. La Cia gli aveva insegnato tutto quello che sa in materia di terrorismo: bin Laden, amato e armato dal governo degli Stati Uniti, era uno dei principali "guerrieri della libertà" contro il comunismo dell'Afganistan. Bush Padre occupava la vicepresidenza quando il presidente Reagan disse che questi eroi erano "l'equivalente morale dei Padri Fondatori dell'America". Hollywood era d'accordo con la Casa Bianca. A quei tempi, venne girato Rambo 3: gli afgani musulmani erano i buoni. Adesso, nell'epoca di Bush Figlio, tredici anni dopo, sono cattivi, cattivissimi.
Henry Kissinger è stato fra i primi a reagire di fronte alla recente tragedia. "Sono colpevoli, come i terroristi, coloro che gli offrono appoggio, finanziamento e ispirazione", ha sentenziato con parole che il presidente Bush ha ripetuto ore dopo.
Se è così, bisognerebbe incominciare col bombardare Kissinger. Verrebbe fuori che lui è colpevole di molti più crimini di quelli commessi da bin Laden e da tutti i terroristi che ci sono nel mondo, che in molti paesi, agivano al servizio dei vari governi nordamericani, e a cui diede "appoggio, finanziamenti e ispirazione": il terrore di stato in Indonesia, Cambogia, Cipro, Filippine, Sudafrica, Iran, Bangladesh, e nei paesi sudamericani, che subirono la guerra sporca del Piano Condor.
L'11 settembre 1973, esattamente 28 anni prima delle odierne fiammate, era bruciato il palazzo presidenziale in Cile. Kissinger aveva anticipato l'epitaffio di Salvador Allende e della democrazia cilena, commentando il risultato delle elezioni: "Non dobbiamo mica accettare che un paese diventi marxista per l'irresponsabilità del suo popolo".
Il disprezzo per la volontà popolare è una delle molte coincidenze fra il terrorismo di stato e il terrorismo privato. Per fare un esempio, l'Eta, che uccide la gente in nome dell'indipendenza dei Paesi Baschi, dice attraverso uno dei suoi portavoce: "I diritti non hanno nulla a che vedere con maggioranze o minoranze".
Si assomigliano molto fra di loro il terrorismo artigianale e quello di alto livello tecnologico, quello dei fondamentalisti religiosi e quello dei fondamentalisti del mercato, quello dei disperati e quello dei potenti, quello dei pazzi isolati e quello dei professionisti in uniforme. Tutti condividono lo stesso disprezzo per la vita umana: gli assassini dei cinquemila cittadini triturati sotto le macerie delle torri gemelle, che crollarono come castelli di sabbia, e gli assassini dei duecentomila guatemaltechi, in maggioranza indigeni, che sono stati sterminati senza che mai la televisione o i giornali del mondo prestassero loro la minima attenzione. Loro, i guatemaltechi, non furono sacrificati da nessun fanatico musulmano, bensì dai militari terroristi che ricevettero "appoggio, finanziamenti e ispirazione" dai successivi governi degli Stati Uniti.
Tutti gli innamorati della morte coincidono anche nella loro ossessione per ridurre in termini militari le contraddizioni sociali, culturali e nazionali. In nome del Bene contro il Male, in nome dell'Unica Verità, tutti risolvono tutto prima uccidendo e poi chiedendo. E per questa via, finiscono per alimentare il nemico che combattono. Furono in larga misura le atrocità di Sendero Luminoso a incubare il presidente Fujimori, che con un consenso popolare considerevole mise su un regime di terrore e svendette il Perù per due soldi. Sono state in larga misura le atrocità degli Stati Uniti in Medio Oriente a incubare la guerra santa del terrorismo di Allah.
Sebbene adesso il capo della Civiltà stia esortando a una nuova Crociata, Allah è innocente per i crimini che si commettono in suo nome. In fin dei conti, Dio non ordinò l'olocausto nazista contro i fedeli di Javè e non fu Javè a suggerire il massacro di Sabra e Chatila o a ordinare l'espulsione dei palestinesi dalla loro terra. Javè, Allah e Dio non sono forse tre nomi di una stessa divinità?
Una tragedia di equivoci: non si sa più chi è chi. Il fumo delle esplosioni fa parte di una cortina di fumo assai più grande che ci impedisce di vedere. Di vendetta in vendetta, i terrorismi ci obbligano a procedere a sbalzi. Vedo una foto, pubblicata di recente: su un muro di New York una mano ha scritto: "Occhio per occhio lascia il mondo cieco".
La spirale della violenza genera violenza e anche confusione, dolore, paura, intolleranza, odio, pazzia. A Porto Alegre, all'inizio di quest'anno, l'algerino Ahmed Ben Bella aveva detto: "Questo sistema, che ha già fatto impazzire le mucche, sta facendo impazzire la gente". E i pazzi, pazzi di odio, agiscono alla stessa stregua del potere che li genera.
Un bimbo di tre anni, di nome Luca, in questi giorni ha detto: "Il mondo non sa dove sta di casa". Stava guardando una cartina. Avrebbe potuto stare guardando un telegiornale.

Eduardo Galeano

A la mi peligrosa rubia...



"Para que nada nos separe que nada nos una."
"En un beso, sabrás todo lo que he callado."
(Pablo Neruda)


A las peligrosas rubias de bote
que en relicario de sus escotes
perfumaron mi juventud.

Al milagro de los besos robados
que en el diccionario de mis pecados
guardaron su pétalo azul.

A la impúdica niñera madura
que en el mapamundi de su cintura
al niño que fuí espabiló.

A la flor de lis de las peluqueras
que me trajo el tren de la primavera
y el tren del invierno me arrebató.

A las flores de un día
que no duraban,
que no dolían,
que te besaban,
que se perdían.

Damas de noche
que en asiento de atrás de un coche
no preguntaban
si las querías.
Aves de paso,
como pañuelos cura-fracasos.

A la misteriosa viuda de luto
que sudó conmigo un minuto
tres pisos en ascensor.

A la intrépida “cholula” argentina
que en el corazón con tinta china
me tatuó “peor para el sol”.

A las casquivanas novias de nadie
que coleccionaban canas al aire
burlón de la “nit de Sant Joan”.

A la reina de los bares del puerto
que una noche depués de un concierto
me abrió su almacén de besos con sal.

A las flores de un día
que no duraban,
que no dolían,
que te besaban,
que se perdían.

Damas de noche
que en asiento de atrás de un coche
no preguntaban
si las querías.

Aves de paso,
como pañuelos cura-fracasos.
A Justine, a Marylin, a Jimena,
a la Mata-Hari, a la Magdalena,
a Fátima y a Salomé.

A los ojos verdes como aceitunas
que robaban la luz de la luna de miel
de un cuarto de hotel, dulce hotel.

A las flores de un día
que no duraban,
que no dolían,
que te besaban,
que se perdían.

Damas de noche
que en asiento de atrás de un coche
no preguntaban
si las querías.

Aves de paso,
como pañuelos cura-fracasos.


The Corporation

The Corporation, documentario canadese del 2003, diretto da Mark Achbar e Jennifer Abbott e tratto dall'omonimo libro di Joel Bakan.


Le corporation sono oggigiorno persone giuridiche che hanno l'obbligo di mettere la tutela dei loro azionisti, cioè la realizzazione di un profitto, al di sopra di ogni altro obiettivo. Per questo, esse non hanno alcun interesse a salvaguardare la natura o il benessere dei lavoratori: ad essere danneggiata dall'opera delle multinazionali, quindi, è la società. Il documentario spiega questo fenomeno e lo illustra con vari esempi, che comprendono, fra l'altro:

- lo sfruttamento della manodopera, specialmente nei paesi centroamericani, portato alla luce dalle indagini del Comitato Nazionale Americano per il Lavoro;

- la sintetizzazione e la diffusione di sostanze chimiche pericolose per la salute, come il DDT e l'Agente Arancio, prodotto dalla Monsanto e usato in Vietnam dall'esercito americano;

- la somministrazione alle mucche di un ormone (l'rBGH della Monsanto, detto anche rBST o Posilac). Questa sostanza, considerata sicura dalla FDA, avrebbe dovuto aumentare la produzione di latte, ma invece ha provocato casi di mastite (infiammazioni delle mammelle) delle mucche, che a sua volta ha provocato l'infezione batterica del latte. Un programma di Fox News ne avrebbe dovuto parlare, ma la Monsanto, con l'appoggio della Fox stessa, l'ha censurato;

- l'inquinamento delle fabbriche e di allevamenti animali;

- la pubblicità rivolta ai giovani di oggi, più sofisticata e creata appositamente perché i bambini condizionino gli acquisti dei genitori. Le corporation fanno leva sulla loro vulnerabilità per vendere i propri prodotti e per creare un esercito di "piccoli consumatori" che hanno cieca fiducia nelle multinazionali;

- la diffusione di pubblicità occulta per introdurre un marchio nella vita quotidiana;

- il processo condotto dalla General Electric e dal prof. Chakrabarty contro l'Ufficio brevetti americano, che aveva rifiutato di brevettare un batterio geneticamente modificato. Prima di questo processo non era possibile brevettare esseri viventi, ma dopo la vittoria della multinazionale, questa regola è stata modificata e ora il divieto vale solo per la specie umana;

- le privatizzazioni dei beni pubblici, fra cui quella dei servizi idrici di una città boliviana (Cochabamba) che dava la possibilità a una multinazionale di distribuire l'acqua in cambio di un quarto del reddito dei cittadini, prevaricando, inoltre, i loro diritti. La popolazione si ribellò, ci furono degli scontri che provocarono numerosi feriti e un morto;

- la collusione fra le corporation e i regimi dittatoriali, specialmente fra l'IBM di New York e il Terzo Reich.

Particolarmente impietosa è l'analisi del comportamento delle corporation, che si rivela uguale a quello dello psicopatico:

"La domanda che spunta periodicamente è: Fino a che punto la corporation può essere considerata psicopatica? Se vediamo una corporation come persona giuridica, non dovrebbe essere tanto difficile mettere in parallelo la psicopatia dell'individuo con la psicopatia della corporation. Potremmo esaminare le caratteristiche di questo specifico disturbo una ad una, applicate alle corporation... Ne avrebbe tutte le caratteristiche. E infatti, sotto molti aspetti, la corporation risponde al prototipo dello psicopatico."
(Robert Hare, psicologo dell'FBI)



































































Vedi anche: De la servidumbre moderna

La Revolución a la encrucijada (5 e ultima pt.)



I cambiamenti nel contesto mondiale

La caduta dei regimi dell’Urss e dell’Europa orientale ebbe un enorme impatto su Cuba. L’economia cubana entrò nella fase più critica della sua storia. La scomparsa dei regimi dell’Est significò anche un brusco cambiamento nelle relazioni mondiali. Gli imperialisti, di fronte alla caduta dei paesi ad economia pianificata, reagirono euforicamente e si affrettarono a pronosticare l’avvento di una nuova era nella storia della umanità, un’epoca di pace e prosperità. Alcuni si spinsero a teorizzare persino la soppressione delle disuguaglianze.
Il capitalismo però ha offerto ai popoli del mondo uno scenario ben diverso. Il predominio assoluto di una sola superpotenza militare ed economica, gli Usa, combinato alla maturazione di una acuta crisi di sovrapproduzione su scala mondiale, portò ad una situazione il cui aspetto più generale e caratteristico è l’enorme instabilità del capitalismo su tutti i terreni. Ciò ha comportato la crescita delle tensioni interimperialistiche, il ritorno alla guerra come strumento di dominio militare diretto (come nel caso dell’Afghanistan e dell’Iraq), la crisi delle strutture politiche internazionali che per decenni avevano assicurato una certa stabilità, come l’Onu, l’esacerbarsi di tensioni protezioniste e dei conflitti commerciali e infine il cambiamento dei rapporti di forza tra le classi.
Il XXI secolo si è aperto con la rivoluzione in Ecuador, che ha dato il via ad una fase di generale ascesa rivoluzionaria in America latina. Nei paesi capitalisti avanzati la borghesia ha lanciato un’offensiva all’ultimo sangue contro tutte le conquiste sociali che avevano reso possibile il miglioramento delle condizioni di vita della maggioranza della popolazione dopo il secondo dopoguerra. In questi ultimo decennio si è manifestata in tutta la sua gravità la crisi del modello basato sul compromesso sociale in cambio di riforme praticato dai partiti socialdemocratici ed ex-stalinisti.
La situazione sta aggravandosi anno dopo anno ed ormai sono chiaramente visibili i sintomi del crescente malcontento sociale. Tutto ciò si è espresso in una nuova esplosione della lotta di classe culminata in numerosi scioperi generali in tutta Europa o nelle manifestazioni di massa contro la guerra. La stessa opposizione crescente alla guerra in Iraq tra la popolazione americana è un sintomo di questo malessere.
Il contesto nel quale si colloca oggi la rivoluzione cubana è quindi molto cambiato. Aver saputo resistere alla tremenda ondata reazionaria che seguì alla caduta dei regimi dell’Est è già di per sé una grande conquista. Cuba continua ad essere un potente simbolo della lotta anticapitalista nel mondo, particolarmente per le masse latinoamericane ma non solo.
La persecuzione imperialista non ha allentato la sua morsa e l’embargo imposto dagli Usa continua. Le difficoltà che deve fronteggiare una piccola economia come quella cubana nell’oceano in tempesta che è l’economia mondiale non si sono per nulla attenuate. La crisi economica, sociale e politica che sta soffrendo il capitalismo su scala mondiale non ha precedenti dagli anni ’30 e sta producendo un risultato che gli strateghi del capitalismo mondiale non si auguravano. Il pendolo torna a oscillare verso sinistra, specialmente in America latina. La stessa sopravvivenza del capitalismo è minacciata in paesi come il Venezuela e la Bolivia, ecc..
Gli sviluppi storici tornano più che mai a legare in modo indissolubile il futuro della rivoluzione cubana al futuro della rivoluzione mondiale. È proprio in questo contesto – nel quale Cuba ha perso i punti d’appoggio che aveva nell’Urss e nell’Europa orientale, ma allo stesso tempo si sono aperti processi rivoluzionari in America latina e in altri paesi del mondo – che diviene ancora più evidente la necessità di un vero orientamento rivoluzionario. L’unica difesa per la rivoluzione cubana è mettere in discussione il dominio del capitalismo su tutto il mondo.

I cambiamenti a Cuba negli anni ‘90

La caduta degli Stati cosiddetti socialisti fa da sfondo a tutta una serie di trasformazioni nella società cubana che sono la chiave per capire la situazione attuale e le prospettive che si aprono per l’isola. Più del 40% del commercio estero si realizzava con l’Urss, mentre l’80% degli scambi si realizzavano con i paesi dell’Europa dell’Est e dell’Asia.
L’Urss vendeva petrolio a Cuba a prezzi molto economici, che in seguito veniva in parte rivenduto a prezzo di mercato, garantendo così a Cuba la possibilità di accumulare valuta forte. L’Urss era di gran lunga il maggior acquirente dello zucchero cubano, la principale risorsa produttiva dell’isola.
La scomparsa del blocco stalinista ebbe conseguenze catastrofiche per l’economia cubana. Tra il 1989 e il 1993 il Pil, ovvero la ricchezza creata nell’isola, cadde del 35%, una cifra drammatica. Prima che tutto venisse travolto dalla catastrofe economica, i dirigenti cubani lanciarono nel 1991 il cosiddetto “Periodo speciale”. Di fatto si trattava dell’introduzione di misure tipiche di una “economia di guerra” per far fronte alla crisi. A costo di un drastico abbassamento del livello di vita della popolazione vennero tagliate tutte le spese. Le risorse così reperite furono impiegate per stimolare la produzione di merci per l’esportazione, a danno del mercato interno, al fine di ottenere il massimo di valuta convertibile sui mercati internazionali con la quale comprare i prodotti e le parti di ricambio (essenziali per assicurare il funzionamento complessivo della società) che erano venuti improvvisamente a mancare con il crollo dell’Urss. È interessante segnalare che nonostante la contrazione accusata dall’economia, l’andamento della spesa sociale lungo tutto il decennio degli anni ‘90 ebbe un segno positivo, con l’unica eccezione del 1991.
Va segnalato però che, oltre alle restrizioni economiche già citate, durante il “Periodo speciale” si applicarono tutta una serie di provvedimenti il cui effetto destabilizzante sull’economia e sulla società metteva a rischio la stessa sopravvivenza dell’economia pianificata e tutti i vantaggi che ne derivavano dal punto di vista dello sviluppo del benessere sociale. Tra i provvedimenti più rilevanti c’erano: l’autorizzazione a creare imprese miste con capitale straniero e l’autorizzazione, per le imprese con il 100% di capitale nazionale, di operare in dollari (1992); la doppia circolazione monetaria, ovvero la coesistenza del Peso e del Dollaro (1993); l’incentivo all’autonomia imprenditoriale e la decentralizzazione del commercio estero.
Tutti questi fattori, in una situazione in cui mancava un controllo effettivo da parte dei lavoratori sull’economia e si era cristallizzata una burocrazia non soggetta al controllo politico da parte della popolazione, produssero effetti corrosivi sul morale e sulla pianificazione economica. I processi di differenziazione sociale ne risultarono inaspriti, favorendo in questo modo le forze della controrivoluzione capitalista.

La dollarizzazione

Uno studio sull’economia cubana evidenziava che “la dollarizzazione ha penetrato tutta l’economia cubana, non solo nel commercio e nei servizi al dettaglio riservati a quel settore della popolazione che in una forma o nell’altra ha accesso al dollaro, per il quale sempre più vengono aperte nuove Tiendas de Recuperacion en Divisas [una specie di uffici di cambio – Ndt] e servizi come caffetterie e ristoranti. Questo effetto (la dollarizzazione), si è esteso con forza anche al settore produttivo del combustibile, dell’energia, dei pezzi di ricambio e delle materie prime più importanti, tra gli altri. Il pagamento di questi beni con moneta convertibile deve essere accettato in misura sempre maggiore dagli Organismi. Negli ultimi anni l’indice di dollarizzazione è cresciuto.
Gonzalez A., nel suo lavoro Il nuovo modello delle finanze interne, pubblicato sulla rivista Cuba: Investigazione Economica dell’INIE n° 2 dell’aprile-giugno del 1999 alla pagina 22 spiega: ‘negli ultimi anni l’indice di dollarizzazione è incrementato dal 45% del 1996 al 49% del 1997 e al 53% del 1998, la qual cosa è indicativa di un deterioramento nelle funzioni della moneta nazionale con la sostituzione relativa della stessa con il dollaro sia nel calcolo del reddito, sia nel consumo di moneta’. Alcuni specialisti stimano che questo indice ha continuato ad incrementarsi e che alla chiusura del 2000 possa aver raggiunto il 58-60% circa
”.
È evidente che la doppia circolazione monetaria ha introdotto gravi squilibri sociali ed economici, potenziati inoltre dalla grande differenza che c’è tra il cambio ufficiale e il mercato nero. Un abisso sempre più profondo separa quelli che posseggono dollari e quelli che non ne hanno.
Un rapporto della Commissione Economica per l’America Latina e i Caraibi (Cepal-Onu) dice: “Tra il 1989 e il 1992 i trasferimenti denominati in valuta convertibile verso Cuba aumentarono in modo significativo, a cominciare dalla legalizzazione del possesso di dollari nel 1993 i trasferimenti privati ebbero il maggior effetto macroeconomico, rappresentando un’importante fonte di entrate nette di moneta convertibile”. Altre fonti stimano che alla fine del 2000 i dollari ricevuti dall’isola per questa via superarono i 1.100 milioni.
La diminuzione del livello di vita, soprattutto durante la prima metà degli anni ‘90, è stata pari quasi al 50%, cosa che ha segnato un vero esodo di lavoratori da tutti i settori dell’economia verso il settore turistico, comportando un peggioramento costante degli altri servizi e della produttività del lavoro nei settori retribuiti in pesos. Perché lavorare per dei pesos che non valgono niente?
Le differenze sociali si riflettono chiaramente nell’andamento dei conti correnti bancari. “Nel periodo compreso tra il 1994 e il 1997 è possibile vedere che il numero di conti di maggiore entità passa dal 14,1% al 13,2%; tuttavia l’importo che questi concentrano si fa ogni volta maggiore, passando dal 77, 8% della liquidità totale all’85%, cosa che implica l’esistenza di disuguaglianze nella possibilità di godere delle opportunità”.

Commercio estero

Come abbiamo visto, la dollarizzazione ha avuto un impatto devastante sul funzionamento del settore produttivo, a cui vanno aggiunte le crepe aperte nel monopolio statale del commercio estero. Alcune imprese statali possono accedere per conto proprio al mercato mondiale. Le esportazioni permettono di ottenere dollari e vendere ad un prezzo più alto di quello del mercato interno. Se a questo aggiungiamo che a molte imprese statali è stato posto l’obiettivo concreto di raggiungere una determinata percentuale di dollari per il proprio funzionamento, non è difficile immaginare quanto sia importante per i dirigenti delle imprese statali vendere i loro prodotti nei negozi riservati a chi paga in dollari che esistono a Cuba e che già sono il canale di commercializzazione del 47% dei prodotti.
Eufemisticamente, i direttori delle imprese statali si trovano nella “difficoltà di garantire un’offerta in pesos”. In pratica questo sfocia in un aumento generale dei prezzi, cioè nell’inflazione, una malattia gravissima per un’economia pianificata. Secondo Bohemia (rivista cubana di analisi generale) tra gennaio e ottobre del 2003 la polizia ha scoperto 181 laboratori illegali, 525 fabbriche clandestine e 315 locali che servivano da magazzino, e di tutte le ispezioni realizzate in questo periodo (316.000) il 35% ha evidenziato violazioni nei prezzi.
L’inflazione si mangia il salario reale, anche se è vero che l’aumento dei prezzi non colpisce il salario sociale – ovvero i generi alimentari, i servizi, ed altro che lo stato fornisce gratuitamente alla popolazione – ma nella misura in cui il paniere base non può essere completamente soddisfatto con la produzione statale a prezzo fisso, si deve ricorrere ai negozi che accettano solo pagamenti in dollari. Inoltre, secondo uno studio del Centro di Investigazione Psicologica e Sociologica, con sede a L’Avana (Cips), più del 90% delle famiglie cubane ricorrono a qualche tipo di attività illecita per arrivare a fine mese. Fenomeni estinti come l’inflazione risorgono in modo allarmante.

Partecipazione del capitale straniero

La presenza del capitale straniero riguarda tutti i settori chiave dell’economia come il turismo, il nichel, i combustibili, la telefonia, l’industria alimentare, la siderurgia, la meccanica e i servizi. Il numero di joint ventures con il capitale straniero ha continuato ad aumentare passando da 20 nel 1990, a 226 nel 1995, a 403 nel 2002. Secondo uno studio, tra il 1993 e il 2001 il peso degli investimenti esteri diretti (Ied) sul totale della formazione lorda del capitale fisso è stato dell’8,2%, paragonabile alle cifre di molti paesi capitalisti50. Le esportazioni delle imprese in joint venture con il capitale straniero rappresentano una quota elevata e soprattutto crescente delle esportazioni totali: oltre il 40% negli ultimi anni.
Nel 2001 viene raggiunto un record storico nella produzione di nichel con 74.000 tonnellate, di cui quasi il 50% viene raggiunto dall’impresa mista Moa Nickel, a partecipazione canadese. Questa impresa è riuscita a mantenere sempre al di sopra del 40% (tra il 1995 e il 2001) la sua quota delle esportazioni totali di nichel. Nella ricerca e nello sfruttamento del petrolio sono stati firmati decine di contratti di esplorazione a rischio, nei quali partecipano imprese importanti di Canada, Francia, Regno Unito, Svezia, Brasile e Spagna. Nel 2001 il 40% del petrolio estratto a Cuba è stato estratto da Energas, impresa mista partecipata dalla canadese Sherritt. Esistono imprese miste di telefonia, alimentari, carne, ecc.. Los Portales SA è una joint venture tra l’impresa cubana Coralas e il gruppo multinazionale Nestlè. Questa impresa si dedica alla produzione e commercializzazione delle più importanti bibite e acque minerali nel paese. Gli investimenti esteri sono stati potenziati con la creazione delle “zone franche”, create per incentivare gli investimenti nelle attività finalizzate all’esportazione.

Esportazioni, turismo, zucchero, materie prime

Secondo il rapporto ufficiale relativo al 2003 pubblicato su El Pais il 12/02/2004, nel corso del 2003 il turismo ha registrato un incremento del numero delle visite superiore al 12%, con la cifra record di 1,9 milioni di turisti e l’aumento delle entrate turistiche è stato del 16%, superando i 2 miliardi di dollari. Il peso relativo del turismo nelle esportazioni totali di Cuba è cresciuto enormemente, se consideriamo che il valore totale delle sue esportazioni era di circa 5 miliardi di dollari.
Fino alla caduta dei regimi dell’est lo zucchero rappresentava l’80% delle esportazioni cubane (El Pais, 23/08/2002), ma le difficoltà relative alla produttività e ai prezzi internazionali hanno provocato un drastico ridimensionamento del settore, con la chiusura di 70 delle 156 fabbriche che producevano zucchero, la riduzione del 60% delle coltivazioni di canna da zucchero e la ricollocazione di 100.000 dei 400.000 cubani che lavoravano nel settore. Questi lavoratori non finiranno per la strada, come succede nei paesi capitalisti. Continueranno a ricevere il salario, potranno partecipare a corsi di formazione, ecc., ma anche per un’economia pianificata come Cuba, una riconversione di queste proporzioni rappresenta un problema di non facile soluzione.
Il raccolto dello zucchero del 2004 è stato il più basso da 70 anni a questa parte. Tanto è vero che nella prima volta nella sua storia Cuba ha dovuto importare zucchero dagli Usa per tener fede agli impegni internazionali che aveva assunto. Inoltre circa un milione di persone, il 10% della popolazione dell’isola, vivono nei bateyes [alloggi per operai agricoli - NdT] e nelle comunità rurali nate intorno ai luoghi di produzione dello zucchero destinati a chiudere.

Il peso del capitale privato nell’occupazione

Secondo dati dell’Annuario Statistico di Cuba, nell’anno 2000 il settore statale impiegherebbe il 77,5% della forza lavoro (2.978.200 lavoratori), a fronte del 22,5% del settore non statale (864.800). Tuttavia sarebbe necessario fare alcune considerazioni per valutare con maggiore esattezza la dipendenza reale dell’occupazione in funzione della titolarità pubblica o privata dell’impresa. Per esempio si contano nel settore statale “i lavoratori delle Agenzie di Lavoro incaricate di controllare la forza lavoro impiegata nelle società miste”, senza che il loro numero sia quantificato. In altre parole con queste cifre non si può stimare quanti lavoratori, anche stando sotto il controllo di un organismo statale, lavorano in relazione ad imprese con partecipazione privata.
È evidente che queste cifre non riflettono il peso reale che le imprese di questo tipo stanno raggiungendo nel mercato del lavoro. Così il grosso di quello che rientra nel settore non statale è costituito solo da cooperative di credito e servizi (8,7%) e settore privato nazionale (13,4%) che ingloba contadini indipendenti, piccoli proprietari terrieri e lavoratori autonomi.
Si contano nel settore statale anche i lavoratori delle Società Mercantili Cubane, che pur essendo di capitale pubblico, sono organizzate in forma giuridica come Società Anonime. In questo caso, però, i dati sono specificati: queste ultime impiegano il 4,2% della forza lavoro (160.300 lavoratori). Secondo El Pais (14/10/2001) sono 100.000 i cubani che lavorano nel settore turistico.
La quantità di lavoratori dipendenti dal settore privato comunque, non indica di per se stessa il grado di disgregazione dell’economia pianificata e di snaturamento della proprietà statale. Queste cifre vanno pesate da un punto di vista qualitativo combinandole con gli effetti della dollarizzazione, dell’autonomia imprenditoriale conferita alle imprese, ecc., che prima abbiamo segnalato.

Cambio di tendenza

Nei primi momenti, nel pieno del collasso economico derivato dalla caduta dell’Urss e dei paesi dell’est, le misure liberalizzatrici ebbero un effetto positivo per assicurare un parziale recupero dell’economia. Nell’arco di pochi anni però questa politica ha già rivelato i suoi limiti.
Si tratta di un processo che somiglia a quello che è avvenuto negli ultimi anni con le cosiddette “economie emergenti”. Dopo un periodo di boom dell’investimento estero, legato soprattutto al processo di privatizzazione, il flusso di capitali ristagna bruscamente. In parte perché i piani di privatizzazione vanno esaurendosi, in parte per la delicata situazione dell’economia mondiale. I capitali se ne vanno, ma le conseguenze negative restano.
Dopo un periodo di recupero, dal 6,2% del 1999 si è passati al 5,3% del 2000, al 2,5% del 2001, all’1,4% del 2002 e all’1,6% del 200351. Il turismo, è cresciuto più lentamente e anche il crollo dei prezzi delle materie prime ha avuto un impatto negativo sull’economia cubana. Secondo alcuni calcoli lo zucchero, il nichel e il tabacco costituiscono in totale i due terzi di tutte le esportazioni cubane. Stiamo assistendo ad un crollo generale dei prezzi delle materie prime sul mercato mondiale.
Sembra chiaro a questo punto che le misure liberalizzatrici hanno esaurito i vantaggi che potevano portare ma non per questo scompariranno gli effetti negativi che esse hanno portato nella società e nell’economia pianificata.
Ciò ha avuto un riflesso chiarissimo nelle differenti svolte attuate dal governo cubano durante gli ultimi anni. È evidente che all’inizio degli anni 90 c’erano illusioni, per lo meno in un settore significativo dei dirigenti cubani, rispetto al fatto che il mercato potesse risolvere tutti i problemi, anche se l’obiettivo avrebbe dovuto essere introdurre in modo graduale una specie di “capitalismo controllato”.
Molti fattori hanno inciso però nel senso contrario nell’ultimo periodo. Molto sintomatica la dichiarazione di un alto dirigente di un’impresa turistica straniera, che interpretava così l’intensa campagna contro la corruzione portata avanti in tutti i settori dell’economia, non solo in quello turistico: “Si sono resi conto che si tratta di un cancro che sta corrodendo da dentro la rivoluzione e che è più pericoloso di qualsiasi bomba Usa” (El Pais 07/03/2004).
Nel corso della campagna contro la corruzione sono stati rimossi vari dirigenti dell’impresa statale Cimex, che controlla 80 imprese e un migliaio di negozi, distributori di benzina, caffetterie, ed altri stabilimenti che offrono servizi in valuta. È ovvio che la dollarizzazione e l’altra serie di provvedimenti che già abbiamo commentato, combinati con l’assenza di un vero controllo da parte dei lavoratori, hanno sciolto le briglie all’avidità di un settore della burocrazia soprattutto quella che ha più occasioni di essere a contatto con il dollaro, con gli imprenditori stranieri e con il “modo di vita occidentale”.
Nel febbraio del 2004 è stato rimosso il ministro cubano del turismo Ibrahim Fernandez, senza che ne fosse spiegato ufficialmente il motivo. Nel mese di dicembre furono rimossi vari funzionari del Cubanacan, il gruppo turistico cubano più importante, per “omissione nella riscossione delle imposte e nel controllo”, per “gravi errori”, e così via. È ovvio ipotizzare che questa rimozione sia legata alla corruzione a sua volta legata al contatto con il dollaro, all’apertura di conti all’estero, ecc.
Secondo un recente articolo de El Pais, “a gennaio di quest’anno operavano sull’isola 342 joint ventures con imprese straniere, un 15% in meno del 2002” e un economista annotava che “i margini di autonomia garantiti negli anni ‘90 ad alcune imprese statali perché operassero in dollari e realizzassero i loro investimenti, così come l’autorizzazione a importare ed esportare direttamente, sono quasi scomparsi (...). Persino i funzionari più leali ammettono che l’apertura di piccoli spazi all’iniziativa privata e la decentralizzazione imprenditoriale avevano favorito un nuovo modo di pensare e una nuova classe più interessata al denaro che all’ideologia. Le autorità hanno capito che ciò, insieme alla corruzione, è un cancro più pericoloso per la rivoluzione che i missili degli Usa.” (09/06/2004).
Lo stesso articolo riporta che in un video ufficiale destinato ai quadri politici e ai responsabili economici del paese Raúl Castro critica apertamente il modo in cui è stato amministrato il settore turistico negli ultimi anni, e annuncia che sarà lui stesso ad occuparsi direttamente dello sviluppo di questo settore, che porta più dollari all’economia nazionale, più delle esportazioni di tabacco, di nichel e di zucchero messe insieme, di concerto con il nuovo ministro del ramo. “Raúl Castro, secondo le fonti, ha indicato tra i principali mali del MinTur (Ministero del Turismo) la mancanza di controllo e questo suo agire in completa autonomia, senza rendere conto alle istanze superiori. Ha annunciato che da subito si tornerà ad una fase di centralizzazione e di stretto controllo. Ha criticato, ad esempio, i ricevimenti, le costose feste e i numerosi viaggi all’estero di alcuni funzionari del settore, avvertendo che da quel momento ogni caso avrebbe avuto bisogno dell’approvazione del ministro”.
Tuttavia le misure punitive prese dall’alto in casi analoghi nell’Urss o anche, in passato, nella stessa Cuba non hanno mai colpito il nocciolo del problema. Come si è potuti arrivare a questa situazione? Si parla di rendere conto alle istanze superiori, ma che ne è del controllo dal basso? Questo problema semplicemente non viene neppure posto.
Prima di questi sviluppi vi erano state varie avvisaglie che la direzione cubana avesse intenzione di dare un taglio a queste tendenze fuori controllo. Nell’estate del 2001 venne creato il ministero contro la contaminazione capitalista, nell’ambito di una forte campagna per il recupero “della purezza rivoluzionaria”.
Lo stesso anno viene apportato un cambiamento costituzionale nel quale si afferma l’irreversibilità del carattere socialista di Cuba. Persistono però gli effetti corrosivi provocati dalle misure liberalizzatrici che si sommano all’inefficienza e alla corruzione distintive della presenza stessa di una burocrazia.
Haroldo Dilla è un investigatore sociale dell’Università della Repubblica Dominicana che da poco tempo collabora alle commissioni programmatiche del partito comunista cubano. Egli ha evidenziato che le forze armate cubane costituiscono il gruppo di potere più organizzato e con tentacoli che si estendono nell’economia; i militari saranno “un fattore chiave nella transizione, perno di qualsiasi negoziato”. Per Dilla i militari “sono rigidi nella sfera politica ma liberali in quella economica, e sarebbero disposti a cercare una via d’uscita conforme al modello cinese per Cuba, ma il futuro resta imprevedibile” (El Pais 06/12/2003).
Se la Cina deve essere lo specchio nel quale deve guardarsi Cuba, il futuro non potrebbe essere più scoraggiante per il popolo cubano. In Cina il dispotismo burocratico più selvaggio si combina con lo sfruttamento capitalista più spietato. Tutto indica che la transizione al capitalismo è sul punto di completarsi e la cosa più umiliante e che tutto è stato orchestrato dalla stessa cupola del Partito comunista cinese. In tutto ciò la grande maggioranza dei lavoratori e dei contadini cinesi ha solo visto peggiorate le sue già precarie condizioni di vita.

Difendere una prospettiva rivoluzionaria

Cuba è entrata in un momento decisivo della sua storia nel quale le idee autenticamente marxiste possono giocare un ruolo fondamentale. In questi anni è chiaro che molti rivoluzionari cubani, compresi molti che ricoprono ruoli di direzione nel Pcc e nello Stato cubano, stanno cercano un’alternativa all’impasse attuale.
Non esiste una via d’uscita se la rivoluzione cubana resta confinata dentro le sue frontiere. Nessuna formula magica può eludere il fatto che Cuba sia una piccola isola, la cui economia non può essere autosufficiente e deve fare i conti con l’economia mondiale dominata dalle potenze imperialiste. La stessa dinamica del commercio mondiale e lo scambio diseguale giocano contro l’economia cubana, come succede per gli altri paesi dell’America latina.
Secondo dati forniti da Elena Alvarez, dell’Istituto Nazionale di Investigazioni Economiche del Ministero dell’Economia e della Pianificazione, se nel 1990 si compravano 1,9 tonnellate di petrolio con una di zucchero, nel 2002 la quantità di petrolio si riduce a 0,7 tonnellate per la stessa quantità di zucchero. Secondo la specialista cubana, “la sfavorevole evoluzione dei prezzi ha determinato che negli ultimi cinque anni la perdita nelle ragioni di scambio sia pari a quasi il 40% (in relazione ai prezzi del 1997)”.
Per quanti provvedimenti si possano prendere per migliorare l’efficienza e diminuire la dipendenza dell’economia cubana – ci sono stati progressi evidenti nella produzione del petrolio, per esempio – è evidente che sussistono limiti insuperabili nel quadro delle relazioni commerciali mondiali segnate da una sfavorevole divisione internazionale del lavoro. Questo stato di cose può portare l’economia cubana ad una situazione critica e mettere in pericolo le stesse conquiste sociali della rivoluzione.
I problemi di un’economia pianificata circondata dal mare del capitalismo mondiale possono essere risolti solo con l’estensione della rivoluzione a livello mondiale, e in primo luogo all’America latina. Ciò non significa che per resistere non si debba ricorrere a provvedimenti eccezionali. Da un punto di vista marxista il fatto che uno Stato operaio possa fare concessioni limitate agli investimenti del capitale privato in situazioni economiche estreme, non rappresenta la violazione di nessun principio. I bolscevichi, per fronteggiare una situazione economica insostenibile, ricorsero alla Nep (Nuova Politica Economica), che permetteva lo sviluppo di attività economiche private, per favorire la produzione agraria, e rifornire così le città affamate. Il pericolo di questa politica non è rappresentato dagli investimenti stranieri in sé stessi, che chiaramente portano a un rafforzamento degli elementi filocapitalisti all’interno dello Stato operaio. Il vero punto è come si vuole controllare questa dinamica e in base a quale prospettiva.
Lenin spiegò sinceramente alle esauste masse sovietiche che la Nep era una concessione, un prodotto della enorme debolezza del giovane Stato sovietico, un passo indietro che avrebbe permesso all’economia di respirare nella obbligata attesa del trionfo della rivoluzione in un paese capitalista avanzato. I bolscevichi non riposero mai alcuna speranza nell’idea che la Nep potesse risolvere i problemi della transizione al socialismo. Altro elemento fondamentale era che le concessioni della Nep venivano accordate in un contesto di democrazia operaia e di potere dei soviet.
Dopo lunghi anni di isolamento, per Cuba si apre una prospettiva nuova: quella di inserirsi nell’ambito delle lotte che stanno sviluppandosi in tutto il continente, e da queste trarre nuova linfa vitale per la propria rivoluzione.
Non lottare per completare i processi rivoluzionari che si sono aperti e si apriranno in America latina con la nazionalizzazione e la pianificazione delle leve fondamentali dell’economia, vuol dire lasciare aperte le porte della controrivoluzione in questi stessi paesi. Una sconfitta in un paese come il Venezuela, dove, i passi decisivi che devono essere compiuti per vincere il pericolo della controrivoluzione sono precisamente di carattere socialista, sarebbe un disastro per il destino della rivoluzione cubana. Se la rivoluzione venezuelana si spinge fino all’abbattimento del capitalismo, si potrebbe costruire una Federazione socialista di Cuba e Venezuela, che rappresenterebbe un potente polo di attrazione per le lotte di tutto il continente e aprirebbe le porte ad una Federazione socialista dell’America latina.
Il vecchio sogno di un’unione fraterna e prospera dell’America latina e dei Caraibi, la stessa idea per la quale lottarono Simon Bolívar, Jose Martí e il Che, potrebbe trasformarsi in realtà. Basandosi sulla enorme ricchezza naturale di molti di questi paesi e sulla pianificazione democratica dell’economia, si potrebbe mettere fine immediatamente alla miseria, alle disuguaglianze e allo sfruttamento selvaggio al quale sono sottomessi i popoli latino americani.
Una volta ancora la rivoluzione cubana deve avanzare per non retrocedere e in questa occasione più che mai, solo le idee del marxismo e dell’internazionalismo indicano il cammino. Lì troveremo gli strumenti per guidare questa forza inarrestabile che è il proletariato alla vittoria, a Cuba, in America latina e nel mondo.

Jordi Rosich




Puntate precedenti:
La Revolución (1 pt)
Guerra de Guerrillas (2 pt)
¡El Capitalismo es golpeado! (3 pt)
Cuba después de la Revolución (4 pt)

Lupo mi sono fatto...




Le mie afflizioni
non possono ricevere lenimento
e il ricordo dei miei piaceri
mi colma di disperazione
io mi illudo di avervi ridotto
a non avere senza me
che piaceri imperfetti.

Arido sono amante amato,
il viso non l'ho più, m'è cascato
una fulgida notte di casino,
ho costole divaricate, disossate,
sono tutte corde della mia arpa,
cupi tamburi battono le reni.

Ho acqua agli occhi, benedetto iddio,
e fremiti alle dita,
ho muscoli da uomo e muscoli da cane,
ho corda al collo, anima mia,
e trappole alla vita,
ho pensieri da uomo e pensieri da cane,
specialmente da cane...

Lupo mi sono fatto invece,
così ebbi salvo il pasto,
tradito il mio destino
che niente era garantito,
se non che il tempo e chi lo serve
ha bocca più grande e feroce della mia,
povera bestia cattiva, non abbastanza cattiva...

Caro amore io t'ho visto arrivare
fra le gambe delle donne arroventare
come il metallo nero di un motore...

Mi sono sentito mancare e tossire
e t'ho sorpreso a cercarmi e ritornare,
Dio se t'ho sentito frusciare,
strisciare e rovesciare,
io t'ho guardato abbatterti e salire,
e accenderti finalmente
come le luci di un ponte,
in mezzo all'estate,
in mezzo all'estate...

Arido sono e dimenticato,
amante amato.

Caro amore io t'ho visto arrivare
fra le gambe delle donne arroventare,
come il metallo nero di un motore.

Caro amore io t'ho visto arrivare...

Arido sono e dimenticato
amante amato.

_________

Mis aflicciones
no pueden recibir mitigación
y el recuerdo de mis placeres
me llena de desesperación
yo me ilusiono de tenervos foyer
a no tener sin yo
que placeres imperfectos.


Árido soy amante querido,
la cara no la tengo más, se ha caída
una fúlgida noche de barullo,
tengo costillas abiertas, deshuesadas,
son todas cuerdas de mi arpa,
oscuros tambores golpean los renios.

Tengo agua a los ojos, bendito dios,
y estremecimientos a los dedos,
tengo músculos de hombre y músculos de perro,
tengo cuerda al cuello, alma mi,
y trampas a la vida,
tienen pensamientos de hombre y pensamientos de perro,
especialmente de perro...

Lobo me he hecho en cambio,
así tuve salvo la comida,
traicionado mi suerte
que nada fue garantizado,
si no que el tiempo y quién sirve
él tiene boca más grande y feroz de la mía,
pobre bestia mala, no bastante mala...

Querido amor yo te he visto llegar
entre las piernas de las mujeres encandecer
como el metal negro de un motor...

Me he sentido faltar y toser
y te he sorprendido a buscarme y volver,
Dios si te he sentido crujir,
arrastrarse y volcar,
yo te he mirado derribarte y subir,
y por fin encenderte
como las luces de un puente,
entre el verano,
entre el verano...

Árido soy y olvidado,
amante querido.

Querido amor yo te he visto llegar
entre las piernas de las mujeres encandecer,
como el metal negro de un motor.

Querido amor yo te he visto llegar...

Árido soy y olvidado
amante querido.

Benim kölelik, benim özgürlük...



Altı benim kölelik altı benim özgürlük
altı etini burns bu
gibi budakaltı eti gece yaz aylarında
altı benim yerli kara
size, glares yeşiller gözünün
size, yüksek ve galiplerini
altı benim nostaljisi
tanımak için ulaşılamazsa
aynı anda
burada ben al.


Nazim Hikmet
__________

Sei la mia schiavitù sei la mia libertà
sei la mia carne che brucia
come la nuda carne delle notti d'estate
sei la mia patria
tu, coi riflessi verdi dei tuoi occhi
tu, alta e vittoriosa
sei la mia nostalgia
di saperti inaccessibile
nel momento stesso
in cui ti afferro.

Nazim Hikmet

D. Copperfield

If you really want to hear about it, the first thing you'll probably want to know is where I was born, and what my lousy childhood was like, and how my parents were occupied and all before they had me, and all that David Copperfield kind of crap, but I don't feel like going into it, if you want know the truth. In the first place, that stuff bores me, and in the second place, my parents would have about two hemorrhages apiece if I told anything pretty personal about them. They're quite touchy about anything like that, especially my father. They're nice and all - I'm not saying that - but they're also touchy as hell. Besides, I'm not going to tell you my whole goddam autobiography or anything.

The Catcher in the Rye, J. D. Salinger



Se davvero avete voglia di sentire questa storia, magari vorrete sapere prima di tutto dove sono nato e com'è stata la mia infanzia da schifo e che cosa facevano i miei genitori e compagnia bella prima che arrivassi io, e tutte quelle baggianate alla David Copperfield, ma a me non mi va proprio di parlarne. Primo, quella roba mi secca, e secondo, ai miei genitori gli verrebbero un paio d'infarti per uno se dicessi qualcosa di troppo personale sul loro conto. Sono tremendamente suscettibili su queste cose, soprattutto mio padre. Carini e tutto quanto - chi lo nega - ma anche maledettamente suscettibili. D'altronde, non ho nessuna voglia di mettermi a raccontare tutta la mia dannata autobiografia e compagnia bella.

Il giovane Holden, J. D. Salinger