Nel novembre del 1954 Batista si fece rieleggere presidente. Intanto il movimento operaio cubano si stava rianimando. Nel dicembre del 1955 scoppiò uno sciopero di mezzo milione di lavoratori delle fabbriche di zucchero. Tale fu la forza di quel movimento che Batista, davanti al pericolo che la produzione dello zucchero restasse paralizzata, fu costretto a cedere alle rivendicazioni dei lavoratori.
Frattanto nell’esilio messicano Fidel concentrava tutte le sue energie nel raggruppare quelli che sarebbero stati i protagonisti del movimento guerrigliero a Cuba, tra i quali l’argentino Ernesto Guevara, il Che. Nel settembre del 1956 Fidel per il Movimento 26 Luglio e Josè Echevarria, per il Direttivo Rivoluzionario, firmarono il Patto del Messico, con il quale entrambe le organizzazioni offrivano al popolo cubano la sua “liberazione prima della fine del 1956”, mediante un’insurrezione seguita da uno sciopero generale.
Il 25 novembre del 1956, 82 persone si imbarcarono sulla mitica Granma e partirono dal porto messicano di Veracruz per approdare sulle coste cubane il 2 dicembre. Dopo lo sbarco, vari scontri con la polizia praticamente dissolsero il gruppo. Solo 12 guerriglieri ne uscirono vivi. Come se non bastasse erano falliti tutti i piani coordinati con il movimento insurrezionale all’interno dell’isola, che avrebbe dovuto spalleggiare lo sbarco, come accadde per la prevista ribellione di Santiago. Fidel credeva, similmente a quanto era avvenuto con l’assalto alla caserma della Moncada, che avrebbe potuto scatenare un movimento più ampio con una azione spettacolare, ma così non fu.
Alcune settimane dopo si riunirono sulla Sierra Maestra i superstiti, tra i quali Fidel, il Che, Camilo Cienfuegos e Raul Castro, per formare il primo nucleo guerrigliero. Se c’era qualcosa che non mancava a questi uomini era il coraggio.
Un avvenimento politico che probabilmente aveva segnato i dirigenti guerriglieri fu l’esperienza di Arbenz in Guatemala, un generale progressista che provò a portare avanti una riforma agraria in un paese che in pratica era di proprietà della multinazionale americana United Fruit Company. Il Che si trovava in Guatemala quando fu destituito Arbenz, e probabilmente questa fu la sua prima esperienza politica importante. Indignato, non comprendeva come il regime legalmente costituito non distribuisse armi al popolo per difendersi dalle colonne golpiste che si stavano organizzando con gli auspici degli Stati Uniti e con la collaborazione di dittature come quella di Somoza in Nicaragua. Nonostante il fatto che si fosse puntato alla organizzazione di una milizia per difendere il governo, questa non entrò mai in azione.
Una delle ossessioni dei guerriglieri cubani era di non fare la stessa fine di Arbenz. Volevano una democrazia vera, una autentica democrazia borghese nella quale neppure la stessa borghesia credeva, tanto da non essere minimamente interessata a favorirla o consolidarla. La vera scelta, tuttavia, non poteva essere tra “democrazia” e “dittatura”, ma tra rivoluzione socialista o continuazione del dominio di una minoranza di privilegiati basato sulla repressione. Una delle peculiarità più evidenti della rivoluzione cubana fu che i suoi dirigenti arrivarono al potere senza la prospettiva di abolire il sistema capitalista e in seguito dovettero orientare diversamente tutto il processo, davanti al pericolo che la controrivoluzione potesse riorganizzarsi per assestare un colpo mortale alla rivoluzione.
Il Che era posizionato chiaramente all’ala sinistra del movimento rivoluzionario, ma quando gli fu chiesto, cinque anni dopo la rivoluzione, se nella Sierra Maestra avesse previsto che la rivoluzione avrebbe potuto prendere una direzione così radicale rispondeva: “Lo avvertivo istintivamente. Naturalmente non si poteva prevedere la direzione che avrebbe preso la rivoluzione né la violenza del suo sviluppo. Neppure era prevedibile la formulazione marxista-leninista […]. Avevamo un’idea più o meno vaga di risolvere i problemi che vedevamo più chiaramente e che colpivano i contadini che lottavano con noi e i problemi che vedevamo nella vita degli operai”.
Sulla Sierra Maestra
I guerriglieri, che si stabilirono inizialmente nella zona orientale, la parte più povera e con tradizioni di lotta contadina, si opponevano ad un regime apparentemente forte, ma in realtà corroso e putrefatto. Batista non aveva nessun tipo di appoggio sociale e riusciva a mantenersi solo grazie alla repressione e all’inerzia politica.
Il più che accidentato viaggio del Granma e il fallimento dei piani insurrezionali nelle città fecero svanire la prospettiva di una vittoria immediata. Dopo la battaglia di El Uvero, che era stato il primo scontro vinto dai ribelli nel quale si contarono serie perdite, la guerriglia si concentrò durante il mese di giugno del 1957 in un piano di recupero. Per tutto un periodo non ci furono combattimenti nella Sierra, ma questo intervallo fu dedicato ad intense manovre politiche, dalle quali nacque il Patto della Sierra, firmato il 12 luglio.
Secondo lo storico Hugh Thomas: “Fino ad allora, da quando era arrivato nella Sierra, Fidel Castro aveva evitato di dare il suo nome a qualsiasi programma […]. Però l’aver provocato grandi aspettative nella classe media professionale rese questo silenzio dottrinale non più a lungo sostenibile. Ai primi di luglio [del 1957] Raul Chibas e Felipe Pazos, il dirigente ortodosso in carica e l’economista più conosciuto di Cuba, si diressero alla Sierra. Chibas racconta di esserci andato per dare prova di fiducia nella maturità della lotta armata. Il 12 di giugno, dopo alcuni giorni di discussione, vide la luce un manifesto generale, firmato da Fidel Castro, Chibas e Pazos. Fidel ne aveva scritto la maggior parte. Faceva appello a tutti i cubani per formare un fronte civico rivoluzionario per ‘farla finita con il regime della forza, la violazione dei diritti individuali, e i crimini infami della polizia’; si dichiarava che l’unico modo per assicurare la pace a Cuba era celebrare elezioni libere e costituire un governo democratico. Il manifesto insisteva nell’affermare che i ribelli stavano lottando per il bell’ideale di una Cuba libera, democratica e giusta. Si formulava agli Stati Uniti una richiesta: che fossero sospesi gli invii di armi a Cuba durante la guerra civile. E inoltre si rifiutavano tutti gli interventi o le mediazioni straniere. Si considerava inaccettabile la sostituzione di Batista con una giunta militare. Al suo posto avrebbe dovuto esserci un presidente provvisorio imparziale e non politico, e un governo provvisorio che avrebbe celebrato le elezioni l’anno seguente alla presa del potere, elezioni che si sarebbero celebrate secondo il dettato della Costituzione del 1940 e il codice elettorale del 1943”.
In quanto al programma economico e sociale, continua Thomas, “tra le altre cose si esigevano l’abolizione del gioco d’azzardo e della corruzione, la riforma agraria, che portasse alla distribuzione delle terre incolte tra i lavoratori che non avevano terra, l’incremento dell’industrializzazione e la conversione dei fattori affittuari e dei coloni in proprietari. Non si faceva nessuna menzione alla nazionalizzazione delle imprese dei servizi pubblici, né la collettivizzazione della terra, né, ovviamente, dell’industria”.
I negoziati con i membri dell’opposizione borghese coincisero con l’arrivo di Guevara dal fronte di guerra e furono per lui una vera doccia fredda. “Il Che si mostrò prudente nei commenti annotati sul suo diario il 17 di luglio, ma era evidente che non gli piacesse verificare l’influenza che Chibas e Pazos avevano su Fidel. Secondo lui, il Manifesto portava il sigillo indelebile di questi politici 'centristi', la cui specie risvegliava in lui il più grande sdegno e sfiducia”. Retrospettivamente, nonostante il suo disgusto, lo stesso Che giustificava il Patto della Sierra, ma è interessante leggere attentamente le sue argomentazioni: “Non ci soddisfaceva il compromesso, ma era necessario, in quel momento era qualcosa di progressivo. Non sarebbe potuto durare più in là del momento nel quale avrebbe rappresentato un freno allo sviluppo rivoluzionario […]. Sapevamo che era un programma minimo, un programma che limitava i nostri sforzi, ma […] sapevamo che non era possibile realizzare la nostra volontà dalla Sierra Maestra e che per un lungo periodo avremmo dovuto fare i conti con tutta una serie di ‘amici’ che cercavano di utilizzare i nostri sforzi militari e la grande fiducia che il popolo aveva già in Fidel Castro per i loro loschi propositi e […] per mantenere il dominio dell’imperialismo a Cuba, per mezzo della borghesia importata, tanto vincolata ai suoi padroni nordamericani […]. Per noi fu solo una piccola sosta nel cammino, dovevamo continuare nel nostro compito fondamentale di sconfiggere il nemico sul campo di battaglia”.
Frattanto nell’esilio messicano Fidel concentrava tutte le sue energie nel raggruppare quelli che sarebbero stati i protagonisti del movimento guerrigliero a Cuba, tra i quali l’argentino Ernesto Guevara, il Che. Nel settembre del 1956 Fidel per il Movimento 26 Luglio e Josè Echevarria, per il Direttivo Rivoluzionario, firmarono il Patto del Messico, con il quale entrambe le organizzazioni offrivano al popolo cubano la sua “liberazione prima della fine del 1956”, mediante un’insurrezione seguita da uno sciopero generale.
Il 25 novembre del 1956, 82 persone si imbarcarono sulla mitica Granma e partirono dal porto messicano di Veracruz per approdare sulle coste cubane il 2 dicembre. Dopo lo sbarco, vari scontri con la polizia praticamente dissolsero il gruppo. Solo 12 guerriglieri ne uscirono vivi. Come se non bastasse erano falliti tutti i piani coordinati con il movimento insurrezionale all’interno dell’isola, che avrebbe dovuto spalleggiare lo sbarco, come accadde per la prevista ribellione di Santiago. Fidel credeva, similmente a quanto era avvenuto con l’assalto alla caserma della Moncada, che avrebbe potuto scatenare un movimento più ampio con una azione spettacolare, ma così non fu.
Alcune settimane dopo si riunirono sulla Sierra Maestra i superstiti, tra i quali Fidel, il Che, Camilo Cienfuegos e Raul Castro, per formare il primo nucleo guerrigliero. Se c’era qualcosa che non mancava a questi uomini era il coraggio.
Un avvenimento politico che probabilmente aveva segnato i dirigenti guerriglieri fu l’esperienza di Arbenz in Guatemala, un generale progressista che provò a portare avanti una riforma agraria in un paese che in pratica era di proprietà della multinazionale americana United Fruit Company. Il Che si trovava in Guatemala quando fu destituito Arbenz, e probabilmente questa fu la sua prima esperienza politica importante. Indignato, non comprendeva come il regime legalmente costituito non distribuisse armi al popolo per difendersi dalle colonne golpiste che si stavano organizzando con gli auspici degli Stati Uniti e con la collaborazione di dittature come quella di Somoza in Nicaragua. Nonostante il fatto che si fosse puntato alla organizzazione di una milizia per difendere il governo, questa non entrò mai in azione.
Una delle ossessioni dei guerriglieri cubani era di non fare la stessa fine di Arbenz. Volevano una democrazia vera, una autentica democrazia borghese nella quale neppure la stessa borghesia credeva, tanto da non essere minimamente interessata a favorirla o consolidarla. La vera scelta, tuttavia, non poteva essere tra “democrazia” e “dittatura”, ma tra rivoluzione socialista o continuazione del dominio di una minoranza di privilegiati basato sulla repressione. Una delle peculiarità più evidenti della rivoluzione cubana fu che i suoi dirigenti arrivarono al potere senza la prospettiva di abolire il sistema capitalista e in seguito dovettero orientare diversamente tutto il processo, davanti al pericolo che la controrivoluzione potesse riorganizzarsi per assestare un colpo mortale alla rivoluzione.
Il Che era posizionato chiaramente all’ala sinistra del movimento rivoluzionario, ma quando gli fu chiesto, cinque anni dopo la rivoluzione, se nella Sierra Maestra avesse previsto che la rivoluzione avrebbe potuto prendere una direzione così radicale rispondeva: “Lo avvertivo istintivamente. Naturalmente non si poteva prevedere la direzione che avrebbe preso la rivoluzione né la violenza del suo sviluppo. Neppure era prevedibile la formulazione marxista-leninista […]. Avevamo un’idea più o meno vaga di risolvere i problemi che vedevamo più chiaramente e che colpivano i contadini che lottavano con noi e i problemi che vedevamo nella vita degli operai”.
Sulla Sierra Maestra
I guerriglieri, che si stabilirono inizialmente nella zona orientale, la parte più povera e con tradizioni di lotta contadina, si opponevano ad un regime apparentemente forte, ma in realtà corroso e putrefatto. Batista non aveva nessun tipo di appoggio sociale e riusciva a mantenersi solo grazie alla repressione e all’inerzia politica.
Il più che accidentato viaggio del Granma e il fallimento dei piani insurrezionali nelle città fecero svanire la prospettiva di una vittoria immediata. Dopo la battaglia di El Uvero, che era stato il primo scontro vinto dai ribelli nel quale si contarono serie perdite, la guerriglia si concentrò durante il mese di giugno del 1957 in un piano di recupero. Per tutto un periodo non ci furono combattimenti nella Sierra, ma questo intervallo fu dedicato ad intense manovre politiche, dalle quali nacque il Patto della Sierra, firmato il 12 luglio.
Secondo lo storico Hugh Thomas: “Fino ad allora, da quando era arrivato nella Sierra, Fidel Castro aveva evitato di dare il suo nome a qualsiasi programma […]. Però l’aver provocato grandi aspettative nella classe media professionale rese questo silenzio dottrinale non più a lungo sostenibile. Ai primi di luglio [del 1957] Raul Chibas e Felipe Pazos, il dirigente ortodosso in carica e l’economista più conosciuto di Cuba, si diressero alla Sierra. Chibas racconta di esserci andato per dare prova di fiducia nella maturità della lotta armata. Il 12 di giugno, dopo alcuni giorni di discussione, vide la luce un manifesto generale, firmato da Fidel Castro, Chibas e Pazos. Fidel ne aveva scritto la maggior parte. Faceva appello a tutti i cubani per formare un fronte civico rivoluzionario per ‘farla finita con il regime della forza, la violazione dei diritti individuali, e i crimini infami della polizia’; si dichiarava che l’unico modo per assicurare la pace a Cuba era celebrare elezioni libere e costituire un governo democratico. Il manifesto insisteva nell’affermare che i ribelli stavano lottando per il bell’ideale di una Cuba libera, democratica e giusta. Si formulava agli Stati Uniti una richiesta: che fossero sospesi gli invii di armi a Cuba durante la guerra civile. E inoltre si rifiutavano tutti gli interventi o le mediazioni straniere. Si considerava inaccettabile la sostituzione di Batista con una giunta militare. Al suo posto avrebbe dovuto esserci un presidente provvisorio imparziale e non politico, e un governo provvisorio che avrebbe celebrato le elezioni l’anno seguente alla presa del potere, elezioni che si sarebbero celebrate secondo il dettato della Costituzione del 1940 e il codice elettorale del 1943”.
In quanto al programma economico e sociale, continua Thomas, “tra le altre cose si esigevano l’abolizione del gioco d’azzardo e della corruzione, la riforma agraria, che portasse alla distribuzione delle terre incolte tra i lavoratori che non avevano terra, l’incremento dell’industrializzazione e la conversione dei fattori affittuari e dei coloni in proprietari. Non si faceva nessuna menzione alla nazionalizzazione delle imprese dei servizi pubblici, né la collettivizzazione della terra, né, ovviamente, dell’industria”.
I negoziati con i membri dell’opposizione borghese coincisero con l’arrivo di Guevara dal fronte di guerra e furono per lui una vera doccia fredda. “Il Che si mostrò prudente nei commenti annotati sul suo diario il 17 di luglio, ma era evidente che non gli piacesse verificare l’influenza che Chibas e Pazos avevano su Fidel. Secondo lui, il Manifesto portava il sigillo indelebile di questi politici 'centristi', la cui specie risvegliava in lui il più grande sdegno e sfiducia”. Retrospettivamente, nonostante il suo disgusto, lo stesso Che giustificava il Patto della Sierra, ma è interessante leggere attentamente le sue argomentazioni: “Non ci soddisfaceva il compromesso, ma era necessario, in quel momento era qualcosa di progressivo. Non sarebbe potuto durare più in là del momento nel quale avrebbe rappresentato un freno allo sviluppo rivoluzionario […]. Sapevamo che era un programma minimo, un programma che limitava i nostri sforzi, ma […] sapevamo che non era possibile realizzare la nostra volontà dalla Sierra Maestra e che per un lungo periodo avremmo dovuto fare i conti con tutta una serie di ‘amici’ che cercavano di utilizzare i nostri sforzi militari e la grande fiducia che il popolo aveva già in Fidel Castro per i loro loschi propositi e […] per mantenere il dominio dell’imperialismo a Cuba, per mezzo della borghesia importata, tanto vincolata ai suoi padroni nordamericani […]. Per noi fu solo una piccola sosta nel cammino, dovevamo continuare nel nostro compito fondamentale di sconfiggere il nemico sul campo di battaglia”.
La caratterizzazione che il Che fa delle intenzioni della borghesia antibatistiana è brillante, perché rende evidente in che misura fosse la borghesia ad aver realmente bisogno dell’autorità politica dei rivoluzionari e non il contrario. Quali erano dunque i suoi fini? Cambiare tutto perché tutto, essenzialmente, restasse uguale, e in ogni momento, incluso nei primi mesi dopo la presa del potere da parte della guerriglia, il suo unico ruolo fu quello di porre limiti al processo rivoluzionario, cioè cercare di arrestarlo.
In realtà, il bagaglio politico che tanto il Che quanto Fidel si portavano appresso nella Sierra, in relazione alla politica di alleanza, era un sentimento di sfiducia verso i politici borghesi screditati, che però non era fondato sulla convinzione che la classe operaia potesse essere il motore centrale dell’abbattimento della dittatura, né della prospettiva del socialismo. La debolezza della borghesia tuttavia era tale, e le pressioni dal basso scatenate dal processo rivoluzionario erano al contrario tanto gigantesche, che poco servì aggrapparsi alla sacralità dei patti. Fidel e il Che, dopo la rivoluzione, rimediarono all’errore rompendo l’alleanza con la borghesia (o con la sua ombra), un errore che nella maggior parte dei processi rivoluzionari ha avuto conseguenze fatali.
L’atteggiamento dell’imperialismo americano
Verso la metà del 1957 si produssero alcune divisioni tra i differenti organismi attraverso cui agiva l’imperialismo nordamericano. I settori legati all’esercito, per esempio, continuavano a difendere Batista, senza pensare alle conseguenze del prolungare un regime fondato esclusivamente sulla repressione. Un altro settore, rappresentato dal nuovo ambasciatore Smith, mostrava disapprovazione verso Batista e vedeva la necessità di sondare il terreno per cominciare a pensare ad un sostituto. Egli non vedeva niente di sconveniente nel tentare approcci con lo stesso Movimento 26 Luglio (M26-J), il gruppo che era il candidato più serio a ricoprire un ruolo chiave nella caduta di Batista.
In una lettera a Fidel dell’11 luglio del 1957, pochi giorni prima di essere assassinato dalla polizia, Frank Pais esprimeva la sua preoccupazione per il carattere dei contatti che l’M26-J stava intrattenendo con l’ambasciata nordamericana: “Sono stufo di tutto questo avanti e indietro e di queste conversazioni con l’ambasciata e credo che ci converrebbe serrare le fila un po’ di più, senza perdere i contatti con loro, ma senza dargli tutta questa importanza come adesso; so che stanno manovrando, ma non vedo chiaramente quali sono i loro veri obiettivi”. Secondo lo stesso Anderson, “Il viceconsole era Robert Wiecha, in realtà un agente della Cia. L’altro uomo continua ad essere un mistero, ma avrebbe potuto essere il capo della Cia a L’Avana o il suo secondo, William Williamson; entrambi secondo Earl Smith erano ‘favorevoli a Castro’.” In seguito la Cia cambiò il suo orientamento.
Nel settembre del 1957 un ammutinamento navale a Cienfuegos, legato al M26-J, rivelò il malessere che la situazione provocava persino in alcuni settori del regime. In realtà si trattava di un piano che doveva coinvolgere tutte le caserme di Cuba, ma era stato mal preparato ed ebbe successo solo a Santiago, riuscendo a resistere solo per una settimana. Nella Sierra, la politica di terrore ed assassinio del governo e la convinzione che i guerriglieri avrebbero proseguito con tutte le loro forze la lotta contro la dittatura orientava i contadini verso la guerriglia. Tra gli esiliati si ebbe la firma del Patto di Miami (10 novembre 1957) con la partecipazione di tutti i partiti dell’opposizione borghese e di alcuni individui che millantavano di rappresentare l’M26-J. Dal patto nasceva una cosiddetta Giunta di liberazione nazionale.
Gli avvenimenti a Cuba però seguivano una dinamica propria. Il Che aveva preteso da Fidel una denuncia pubblica di questo Patto minacciando le proprie dimissioni. A dicembre l’Esercito ribelle di Fidel inflisse una sconfitta importante all’esercito di Batista, e Fidel Castro, il 14 dello stesso mese, pubblicò una lettera di critica aperta al patto, denunciando che l’accordo raggiunto a Miami non si opponeva esplicitamente alla formazione di una giunta militare né all’intervento straniero. Il Patto di Miami – che era una manovra per mettere il movimento guerrigliero in secondo piano nella lotta contro Batista – a quel punto si disgregò rapidamente, cosa che rende ancor più chiara la tremenda inconsistenza e l’assoluta mancanza di autorità dell’opposizione borghese a Batista.
La farsa elettorale di Batista
Alla fine del 1957, un anno prima della resa di Batista, l’esercito ribelle poteva contare solo su 300 uomini. Quell’anno comunque, nonostante le tensioni politiche, fu un anno particolarmente buono dal punto di vista economico. Lo zucchero aveva prodotto entrate per 680 milioni di dollari, 200 milioni in più che nel 1956, il migliore risultato dal 1952. I nuovi investimenti del capitale straniero raggiungevano un totale di 200 milioni di dollari.
Nonostante le paure che le cose potessero sfuggire di mano a Batista, il rappresentante del governo Usa per gli affari caraibici, Wieland, aveva modo di affermare ad un giornalista: "So che molti considerano Batista un figlio di puttana[…] ma anzitutto mettiamo gli interessi americani […] almeno è il nostro figlio di puttana, non fa il gioco dei comunisti”. Il piano di Batista per trovare una via d’uscita in quella situazione consisteva nell’organizzare elezioni dagli esiti già preordinati, e anche se lui non avrebbe potuto presentarsi, si sarebbe riservato una ruolo chiave nell’esercito.
Così descrive la situazione Hugh Thomas: “La lotta sembrava ridursi all’unico duello tra Batista e Fidel. Gli autentici come Grau, Prio e Varona; gli ortodossi come Ochoa, Agramante, Bistè e Marquez Sterling; Salandrigas o Martinez Saenz, gli antichi leader dell’Abc, tutti rimasero fuori dal gioco. I politici dei partiti con più storia, come i liberali (il primo partito dei primi giorni della Repubblica), che avevano aiutato in tutto e per tutto Batista, alla fine si videro persi. Lo stesso accadde con molti politici che avevano servito Cuba e sé stessi durante i precedenti 25 anni […]. Riassumendo, nel corso degli anni Batista aveva completato l’opera che gli altri avevano iniziato: la corruzione, il gangsterismo, la disoccupazione massiccia e il ristagno economico. Il popolo cubano aveva perso completamente la fiducia negli uomini che lo avevano governato, ma, siccome parliamo di un popolo di grande vitalità, non si rassegnava ad una vita meramente vegetativa, e conservava nell’anima un potenziale enorme di fiducia e speranza, che in seguito Castro mobilitò”. È difficile non vedere un certo parallelismo con l’acuta crisi d’autorità che vivono oggi i partiti borghesi in molti paesi dell’America Latina, dopo anni di privatizzazioni, impoverimento e saccheggio della ricchezza nazionale.
Il 1° di marzo del 1958 i vescovi lanciarono una proposta di pace proponendo la formazione di un governo provvisorio e l’abbandono della lotta armata, che correttamente fu respinto al mittente dai dirigenti guerriglieri.
Il fallimento della “Operazione Estate” della dittatura
Fidel Castro aveva annunciato uno sciopero generale, ma senza fissare una data. Non poteva contare sull’appoggio dei sindacati, né su quello dei dirigenti comunisti, l’unico gruppo dell’opposizione con una influenza reale nel movimento operaio organizzato. Il fatto è che alla fine l’organizzazione dello sciopero “restò nelle mani dei comitati di azione del M26-J, senza nessun contatto vero con il mondo del lavoro”.
K. S. Karol, a questo proposito commenta: “Essi [i guerriglieri] concepirono lo sciopero del 9 aprile 1958 come una serie di azioni armate, in vari punti della città, a un’ora nota a poche persone; 2.000 uomini armati passarono infatti all’azione alle undici del mattino, mentre la radio annunciava che lo sciopero era cominciato e invitava tutti a lasciare il lavoro. L’azione di massa era stata prevista come un supporto, non di più”.
Lo sciopero fu un fiasco, ma ebbe importanti conseguenze sulla situazione: in relazione alle tensioni tra la pianura e la Sierra, all’interno del Movimento 26 Luglio, si riaffermò l’egemonia della Sierra, ovvero di Fidel e dei dirigenti guerriglieri nei confronti di quelli che portavano avanti il lavoro principalmente nelle città. Politicamente significò la riaffermazione dell’autorità dei settori più decisi e radicali del M26-J.
Per conto suo Batista interpretò invece il fallimento dello sciopero come un segnale di appoggio al suo governo e prese coraggio per lanciare un’ambiziosa offensiva contro la guerriglia. Ma si trattò di una valutazione sbagliata e la cosiddetta “Operazione Estate” lanciata nella Sierra Maestra si concluse con una sconfitta dalle conseguenze risolutive per la dittatura di Batista. “Le conseguenze di questo rovescio furono straordinarie. L’Alto Comando di Batista, che ora era ridotto a una banda demoralizzata di ufficiali corrotti, crudeli e pigri, senza esperienza di combattimento, cominciò a temere di essere totalmente eliminato da un nemico del quale non conoscevano con esattezza né i numeri né i nascondigli”.
In realtà da un punto di vista militare i guerriglieri costituivano una forza molto piccola, ma “le forze di Batista non potevano avanzare neppure un metro senza che in pochi minuti arrivasse qualcuno, correndo e sudando, a riferirlo a Castro”. Le diserzioni nell’esercito erano sempre più frequenti, perfino ai vertici. Nel luglio del 1958 la ritirata dalla Sierra Maestra divenne totale. Lo sbandamento e la disorganizzazione della ritirata furono tali che i guerriglieri riuscirono a venire in possesso anche dei codici segreti di comunicazione del nemico e con i quali impartirono ordini che depistarono anche le forze aeree.
Il 20 di luglio si salda il Patto di Caracas, firmato in Venezuela tra l’M26-J e tutti i partiti dell’opposizione, con l’eccezione del Psp (anche se a quel tempo c’erano già contatti tra il settore più a sinistra del M26-J e i comunisti, vista l’incapacità di arrivare ai lavoratori manifestata dai dirigenti più liberali del movimento attivi nelle zone pianeggianti), e dei partiti che si erano prestati a partecipare alla farsa elettorale fine a se stessa organizzata da Batista. Il patto fissava “una strategia comune per abbattere la dittatura con l’insurrezione armata”, un governo provvisorio di breve durata, “che condurrà […] ad un procedimento pienamente costituzionale e democratico; […] un piano per garantire il castigo ai colpevoli […] i diritti dei lavoratori, il rispetto degli accordi internazionali […] e il progresso economico e politico del popolo cubano”. “Il distinto avvocato Mirò Cardona fu nominato coordinatore del Fronte [delle organizzazioni che siglarono il patto] e Castro fu nominato comandate supremo delle forze della rivoluzione. Il giudice Urrutia fu designato Presidente della Cuba in armi”.
In realtà, il bagaglio politico che tanto il Che quanto Fidel si portavano appresso nella Sierra, in relazione alla politica di alleanza, era un sentimento di sfiducia verso i politici borghesi screditati, che però non era fondato sulla convinzione che la classe operaia potesse essere il motore centrale dell’abbattimento della dittatura, né della prospettiva del socialismo. La debolezza della borghesia tuttavia era tale, e le pressioni dal basso scatenate dal processo rivoluzionario erano al contrario tanto gigantesche, che poco servì aggrapparsi alla sacralità dei patti. Fidel e il Che, dopo la rivoluzione, rimediarono all’errore rompendo l’alleanza con la borghesia (o con la sua ombra), un errore che nella maggior parte dei processi rivoluzionari ha avuto conseguenze fatali.
L’atteggiamento dell’imperialismo americano
Verso la metà del 1957 si produssero alcune divisioni tra i differenti organismi attraverso cui agiva l’imperialismo nordamericano. I settori legati all’esercito, per esempio, continuavano a difendere Batista, senza pensare alle conseguenze del prolungare un regime fondato esclusivamente sulla repressione. Un altro settore, rappresentato dal nuovo ambasciatore Smith, mostrava disapprovazione verso Batista e vedeva la necessità di sondare il terreno per cominciare a pensare ad un sostituto. Egli non vedeva niente di sconveniente nel tentare approcci con lo stesso Movimento 26 Luglio (M26-J), il gruppo che era il candidato più serio a ricoprire un ruolo chiave nella caduta di Batista.
In una lettera a Fidel dell’11 luglio del 1957, pochi giorni prima di essere assassinato dalla polizia, Frank Pais esprimeva la sua preoccupazione per il carattere dei contatti che l’M26-J stava intrattenendo con l’ambasciata nordamericana: “Sono stufo di tutto questo avanti e indietro e di queste conversazioni con l’ambasciata e credo che ci converrebbe serrare le fila un po’ di più, senza perdere i contatti con loro, ma senza dargli tutta questa importanza come adesso; so che stanno manovrando, ma non vedo chiaramente quali sono i loro veri obiettivi”. Secondo lo stesso Anderson, “Il viceconsole era Robert Wiecha, in realtà un agente della Cia. L’altro uomo continua ad essere un mistero, ma avrebbe potuto essere il capo della Cia a L’Avana o il suo secondo, William Williamson; entrambi secondo Earl Smith erano ‘favorevoli a Castro’.” In seguito la Cia cambiò il suo orientamento.
Nel settembre del 1957 un ammutinamento navale a Cienfuegos, legato al M26-J, rivelò il malessere che la situazione provocava persino in alcuni settori del regime. In realtà si trattava di un piano che doveva coinvolgere tutte le caserme di Cuba, ma era stato mal preparato ed ebbe successo solo a Santiago, riuscendo a resistere solo per una settimana. Nella Sierra, la politica di terrore ed assassinio del governo e la convinzione che i guerriglieri avrebbero proseguito con tutte le loro forze la lotta contro la dittatura orientava i contadini verso la guerriglia. Tra gli esiliati si ebbe la firma del Patto di Miami (10 novembre 1957) con la partecipazione di tutti i partiti dell’opposizione borghese e di alcuni individui che millantavano di rappresentare l’M26-J. Dal patto nasceva una cosiddetta Giunta di liberazione nazionale.
Gli avvenimenti a Cuba però seguivano una dinamica propria. Il Che aveva preteso da Fidel una denuncia pubblica di questo Patto minacciando le proprie dimissioni. A dicembre l’Esercito ribelle di Fidel inflisse una sconfitta importante all’esercito di Batista, e Fidel Castro, il 14 dello stesso mese, pubblicò una lettera di critica aperta al patto, denunciando che l’accordo raggiunto a Miami non si opponeva esplicitamente alla formazione di una giunta militare né all’intervento straniero. Il Patto di Miami – che era una manovra per mettere il movimento guerrigliero in secondo piano nella lotta contro Batista – a quel punto si disgregò rapidamente, cosa che rende ancor più chiara la tremenda inconsistenza e l’assoluta mancanza di autorità dell’opposizione borghese a Batista.
La farsa elettorale di Batista
Alla fine del 1957, un anno prima della resa di Batista, l’esercito ribelle poteva contare solo su 300 uomini. Quell’anno comunque, nonostante le tensioni politiche, fu un anno particolarmente buono dal punto di vista economico. Lo zucchero aveva prodotto entrate per 680 milioni di dollari, 200 milioni in più che nel 1956, il migliore risultato dal 1952. I nuovi investimenti del capitale straniero raggiungevano un totale di 200 milioni di dollari.
Nonostante le paure che le cose potessero sfuggire di mano a Batista, il rappresentante del governo Usa per gli affari caraibici, Wieland, aveva modo di affermare ad un giornalista: "So che molti considerano Batista un figlio di puttana[…] ma anzitutto mettiamo gli interessi americani […] almeno è il nostro figlio di puttana, non fa il gioco dei comunisti”. Il piano di Batista per trovare una via d’uscita in quella situazione consisteva nell’organizzare elezioni dagli esiti già preordinati, e anche se lui non avrebbe potuto presentarsi, si sarebbe riservato una ruolo chiave nell’esercito.
Così descrive la situazione Hugh Thomas: “La lotta sembrava ridursi all’unico duello tra Batista e Fidel. Gli autentici come Grau, Prio e Varona; gli ortodossi come Ochoa, Agramante, Bistè e Marquez Sterling; Salandrigas o Martinez Saenz, gli antichi leader dell’Abc, tutti rimasero fuori dal gioco. I politici dei partiti con più storia, come i liberali (il primo partito dei primi giorni della Repubblica), che avevano aiutato in tutto e per tutto Batista, alla fine si videro persi. Lo stesso accadde con molti politici che avevano servito Cuba e sé stessi durante i precedenti 25 anni […]. Riassumendo, nel corso degli anni Batista aveva completato l’opera che gli altri avevano iniziato: la corruzione, il gangsterismo, la disoccupazione massiccia e il ristagno economico. Il popolo cubano aveva perso completamente la fiducia negli uomini che lo avevano governato, ma, siccome parliamo di un popolo di grande vitalità, non si rassegnava ad una vita meramente vegetativa, e conservava nell’anima un potenziale enorme di fiducia e speranza, che in seguito Castro mobilitò”. È difficile non vedere un certo parallelismo con l’acuta crisi d’autorità che vivono oggi i partiti borghesi in molti paesi dell’America Latina, dopo anni di privatizzazioni, impoverimento e saccheggio della ricchezza nazionale.
Il 1° di marzo del 1958 i vescovi lanciarono una proposta di pace proponendo la formazione di un governo provvisorio e l’abbandono della lotta armata, che correttamente fu respinto al mittente dai dirigenti guerriglieri.
Il fallimento della “Operazione Estate” della dittatura
Fidel Castro aveva annunciato uno sciopero generale, ma senza fissare una data. Non poteva contare sull’appoggio dei sindacati, né su quello dei dirigenti comunisti, l’unico gruppo dell’opposizione con una influenza reale nel movimento operaio organizzato. Il fatto è che alla fine l’organizzazione dello sciopero “restò nelle mani dei comitati di azione del M26-J, senza nessun contatto vero con il mondo del lavoro”.
K. S. Karol, a questo proposito commenta: “Essi [i guerriglieri] concepirono lo sciopero del 9 aprile 1958 come una serie di azioni armate, in vari punti della città, a un’ora nota a poche persone; 2.000 uomini armati passarono infatti all’azione alle undici del mattino, mentre la radio annunciava che lo sciopero era cominciato e invitava tutti a lasciare il lavoro. L’azione di massa era stata prevista come un supporto, non di più”.
Lo sciopero fu un fiasco, ma ebbe importanti conseguenze sulla situazione: in relazione alle tensioni tra la pianura e la Sierra, all’interno del Movimento 26 Luglio, si riaffermò l’egemonia della Sierra, ovvero di Fidel e dei dirigenti guerriglieri nei confronti di quelli che portavano avanti il lavoro principalmente nelle città. Politicamente significò la riaffermazione dell’autorità dei settori più decisi e radicali del M26-J.
Per conto suo Batista interpretò invece il fallimento dello sciopero come un segnale di appoggio al suo governo e prese coraggio per lanciare un’ambiziosa offensiva contro la guerriglia. Ma si trattò di una valutazione sbagliata e la cosiddetta “Operazione Estate” lanciata nella Sierra Maestra si concluse con una sconfitta dalle conseguenze risolutive per la dittatura di Batista. “Le conseguenze di questo rovescio furono straordinarie. L’Alto Comando di Batista, che ora era ridotto a una banda demoralizzata di ufficiali corrotti, crudeli e pigri, senza esperienza di combattimento, cominciò a temere di essere totalmente eliminato da un nemico del quale non conoscevano con esattezza né i numeri né i nascondigli”.
In realtà da un punto di vista militare i guerriglieri costituivano una forza molto piccola, ma “le forze di Batista non potevano avanzare neppure un metro senza che in pochi minuti arrivasse qualcuno, correndo e sudando, a riferirlo a Castro”. Le diserzioni nell’esercito erano sempre più frequenti, perfino ai vertici. Nel luglio del 1958 la ritirata dalla Sierra Maestra divenne totale. Lo sbandamento e la disorganizzazione della ritirata furono tali che i guerriglieri riuscirono a venire in possesso anche dei codici segreti di comunicazione del nemico e con i quali impartirono ordini che depistarono anche le forze aeree.
Il 20 di luglio si salda il Patto di Caracas, firmato in Venezuela tra l’M26-J e tutti i partiti dell’opposizione, con l’eccezione del Psp (anche se a quel tempo c’erano già contatti tra il settore più a sinistra del M26-J e i comunisti, vista l’incapacità di arrivare ai lavoratori manifestata dai dirigenti più liberali del movimento attivi nelle zone pianeggianti), e dei partiti che si erano prestati a partecipare alla farsa elettorale fine a se stessa organizzata da Batista. Il patto fissava “una strategia comune per abbattere la dittatura con l’insurrezione armata”, un governo provvisorio di breve durata, “che condurrà […] ad un procedimento pienamente costituzionale e democratico; […] un piano per garantire il castigo ai colpevoli […] i diritti dei lavoratori, il rispetto degli accordi internazionali […] e il progresso economico e politico del popolo cubano”. “Il distinto avvocato Mirò Cardona fu nominato coordinatore del Fronte [delle organizzazioni che siglarono il patto] e Castro fu nominato comandate supremo delle forze della rivoluzione. Il giudice Urrutia fu designato Presidente della Cuba in armi”.
Il ruolo della classe operaia nei momenti decisivi
La situazione della dittatura era insostenibile, così l’imperialismo puntò tutto su una “giunta civico militare”, rifiutando il piano di Batista di affidare, nel febbraio del 1959, la presidenza a Rivero Aguero, sulla base della farsa elettorale organizzata a novembre ed alla quale aveva partecipato meno del 30% degli aventi diritto al voto. La conquista di Santa Clara da parte delle forze comandate dal Che annunciò l’inevitabile crollo del regime di Batista. Nella guerra contro Fidel Castro l’esercito registrò non più di 300 caduti, ma già nel 1958 era impossibile reclutare gente nell’esercito, mentre allo stesso tempo diversi ufficiali stavano già passando tra le file dei ribelli.
La sconfitta dell’esercito e il mancato intervento degli Stati Uniti avvertivano Batista che le sue ore erano contate. Il 31 dicembre, davanti all’avanzata della guerriglia in tutto il paese, il dittatore abbandonò Cuba – nel mezzo dei festeggiamenti per la fine dell’anno – rifugiandosi a Santo Domingo. Di fronte alle manovre dei militari che volevano instaurare un governo batistiano senza Batista, Fidel convocò lo sciopero generale. Questa volta fu un successo, la partecipazione massiccia. L’azione della classe operaia fu allora determinante e fondamentale. “Per tutta la settimana è lo sciopero generale che costituisce nella capitale l’elemento decisivo della situazione, impedendo a chiunque di colmare il vuoto di potere […]. L’esercito ribelle non è sufficientemente numeroso da infliggere da solo, senza questo potente movimento di sciopero, il colpo di grazia alle vecchie strutture politiche”.
La classe operaia entrava con tutta la sua forza sulla scena politica, ma a differenza della Rivoluzione del 1917 non avrebbe potuto giocare il ruolo centrale che sempre avevano sostenuto Lenin e i bolscevichi e che sarebbe stata la base della democrazia operaia e della struttura sovietica nei primi anni della rivoluzione russa.
Jordi Rosich
Parte precedente: La Revolución (1 pt)
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