Cuba prima della rivoluzione
A Cuba si concentravano in forma estremizzata molti dei tratti caratteristici (storici, sociali, economici e politici) dei paesi latino americani, circostanza che ha avuto una conferma evidente nell’altrettanto particolare sviluppo della rivoluzione del 1959. Potremmo considerare la borghesia cubana come paradigmatica della sottomissione all’imperialismo che ha caratterizzato storicamente tutta la borghesia latinoamericana.
È importante ripercorrere per sommi capi alcuni aspetti della storia di Cuba. Essa fu una delle prime isole a cui approdò Cristoforo Colombo alla fine del XV secolo. Da allora Cuba rimase per quasi quattro secoli sotto il dominio spagnolo. Nel XVIII secolo l’Inghilterra cominciò a nutrire un certo interesse per la “perla delle Antille”, fino ad invaderla nel 1762. Gli inglesi sarebbero restati solo un anno nell’isola, ma da quel momento in poi avrebbero giocato un ruolo determinante nel suo sviluppo economico, rimpiazzati in seguito dagli Stati Uniti. In questo periodo inizia la coltura intensiva della canna da zucchero e del tabacco nei latifondi, resa possibile dal massiccio ricorso alla manodopera schiava.
All’inizio del XIX secolo il movimento per l’indipendenza si diffonde in tutta l’America latina, salvo alcune eccezioni, e tra queste Cuba. Il comportamento della classe dominante dell’isola era determinato dalla paura che il suo isolamento rispetto al resto del continente avrebbe potuto facilitare la repressione spagnola e dal terrore che una rivoluzione per l’indipendenza potesse scatenare una ribellione di schiavi simile a quella avvenuta ad Haiti. Inoltre la colonia stava attraversando una lunga fase di crescita economica, in stretta connessione con l’economia nordamericana. A metà del XIX secolo Cuba era il principale produttore di zucchero del mondo, e gli Usa ne erano il principale acquirente. L’élite creola non aspirava all’indipendenza, anzi era più che altro attratta dalla possibilità di divenire uno degli stati dell’Unione nordamericana. Questo desiderio, sapientemente coltivato da alcuni circoli della borghesia di Washington, era molto indicativo delle caratteristiche della classe dominante cubana, completamente asservita al capitalismo nordamericano.
La prima guerra civile (1868-1876)
La realtà socio-economica cubana era un’espressione condensata della teoria dello sviluppo diseguale e combinato che Trotskij spiega magnificamente nella sua Storia della Rivoluzione Russa. A Cuba la penetrazione tecnologica e finanziaria dei paesi capitalisti avanzati non solo non entrò in contraddizione con il sistema schiavista vigente sull’isola, ma al contrario lo intensificò. Fu solo verso la fine del XIX secolo che quel sistema cominciò a entrare in declino.
Tutto ciò faceva da sfondo alle tensioni che portarono alla prima guerra civile per la liberazione nazionale, che durò dal 1868 al 1876. Una parte della classe dominante, composta soprattutto da produttori di caffè, piccoli e medi produttori di zucchero ed allevatori della parte orientale dell’isola, la più arretrata, si sentiva in condizioni di evidente svantaggio rispetto ai latifondisti della parte occidentale. Non potevano contare sullo sfruttamento intensivo della manodopera schiava, né sulla stessa capacità di rinnovamento tecnologico, né sul controllo dell’apparato dello Stato.
Nonostante la guerra avesse suscitato illusioni e partecipazione popolare, essa non culminò in una rivoluzione democratico-borghese. L’esercito spagnolo poté contare in quella occasione sull’appoggio degli Usa e per l’élite sociale della parte occidentale dell’isola era preferibile che Cuba continuasse ad essere una colonia spagnola, piuttosto di rischiare la destabilizzazione sociale che il conseguimento dell’indipendenza avrebbe potuto provocare. I latifondisti della parte orientale finirono per abbandonare la lotta in cambio di alcune concessioni da parte della Corona spagnola, tradendo così la base reale del movimento: gli schiavi liberati e i contadini.
Questi avvenimenti e la storia successiva fino alla rivoluzione del 1959 dimostravano come la classe dominante cubana fosse incapace di realizzare i compiti della rivoluzione democratico borghese, a differenza di quanto avvenne in Francia nel 1789 e successivamente in altri paesi europei, dove si consolidarono gli Stati nazionali come base per lo sviluppo capitalista. La borghesia cubana era incapace di conseguire uno sviluppo industriale con una base propria o di distribuire la terra ai contadini e quindi di istituire una democrazia parlamentare relativamente stabile, tutto questo nella cornice di uno Stato nazionale.
Nell’epoca moderna le borghesie nazionali dei paesi ex coloniali, comparse troppo tardi sulla scena della storia, sono del tutto incapaci di assolvere a questi compiti. Questa è una verità storica confermata non solo dal caso di Cuba, ma ovunque il capitalismo si sia sviluppato tardivamente. La borghesia nazionale ad esempio non può realizzare una riforma agraria efficace a causa dei suoi profondi legami economici, familiari, sociali e politici con i grandi latifondisti. Non riesce a sviluppare una vera industria nazionale perché riveste un ruolo ausiliario e subordinato al capitale internazionale. Conseguentemente, nella misura in cui il capitalismo di questi paesi resta fondato sul selvaggio sfruttamento della manodopera e sul saccheggio delle risorse naturali, non c’è spazio per lunghi periodi di stabilità e una solida democrazia parlamentare borghese.
L’indipendenza di Cuba
Josè Martí, poeta e fondatore nel 1892 del Partito rivoluzionario cubano (Prc), guidò la seconda guerra di liberazione nazionale. Il suo movimento poté contare su un’ampia base popolare: i lavoratori, un largo settore della popolazione di origine africana, la piccola borghesia urbana, i piccoli proprietari, i contadini del tabacco, ecc. Alla lotta per l’indipendenza si sommavano tutta una serie di rivendicazioni di tipo sociale. Nonostante tanti limiti, il programma di Martí aveva un carattere nettamente progressista, nella misura in cui faceva appello all’intervento delle masse per raggiungere gli obiettivi di tipo democratico nazionale. Inoltre Martí si rese conto che l’indipendenza formale dalla Corona spagnola conquistata dagli altri paesi latinoamericani era solo il primo passo: era necessaria una “seconda indipendenza” che liberasse il paese dall’asfissiante dominio dell’imperialismo nordamericano in ascesa.
Senza dubbio il progetto di Josè Martí di una Cuba indipendente dalla Spagna e dagli Stati Uniti, democratica e libera, venne frustrato dagli eventi. Dopo la prematura morte del leader cubano nel maggio del 1895 sotto il fuoco dell’esercito spagnolo, la direzione del Prc consegnò il movimento di liberazione nelle mani della borghesia e dei latifondisti, che a loro volta propiziarono l’intervento degli Usa nella guerra. La lotta di Martí, però, lasciò in eredità al popolo cubano una profonda tradizione rivoluzionaria, basata sull’antimperialismo e sul coinvolgimento delle masse nella lotta, che avrebbe finalmente trovato espressione nel Movimento 26 Luglio fondato da Fidel nel 1955.
La repressione indiscriminata dell’esercito coloniale non riuscì a schiacciare l’ira crescente della popolazione contro la dominazione spagnola, così alla fine gli Usa decisero di approfittare della ghiotta occasione, intervenendo con la scusa di difendere l’indipendenza dell’isola. In poco tempo i nordamericani ebbero ragione dei militari spagnoli e il 10 dicembre del 1898, con il trattato di Parigi, si impossessarono del paese.
Il governo degli Stati Uniti considerò fin da subito Cuba come un proprio protettorato, nominando direttamente gli amministratori dell’isola e rifiutando di riconoscere i rappresentanti degli insorti e di condividere il potere con loro. Nel 1901 il senato Usa votò l’emendamento Platt, inserito come appendice nella prima costituzione cubana dall’Assemblea costituente composta dai maggiori esponenti della borghesia liberale dell’Avana, che così conferivano ufficialità al carattere servile e conservatore della loro classe sociale. L’emendamento Platt stabiliva tra l’altro che “…il governo di Cuba accetta che gli Stati Uniti possano esercitare il diritto di intervento con il fine di proteggere l’indipendenza cubana e la salvaguardia di un governo adeguato alla protezione della vita umana, della proprietà e delle libertà individuali”. Con questa integrazione alla costituzione cubana gli Usa ratificavano il loro assoluto dominio su Cuba che sarebbe durato per diversi decenni.
Nel 1902 i marines tornarono a casa e Cuba divenne, formalmente, una repubblica indipendente, ma gli Usa continuarono ad influire pesantemente nella politica dell’isola, e dal punto di vista economico mantennero, anzi incrementarono il loro dominio. Se nel 1895 gli investimenti statunitensi furono di 50 milioni di dollari, nel 1902, questi aumentarono fino a 100 milioni di dollari, e la United Fruit Company acquistò 7.500 ettari di terra al prezzo di 50 centesimi di dollaro l’ettaro. Nel 1909 il 34% dello zucchero prodotto nel paese veniva prodotto da piantagioni di proprietà statunitense, il 35% da piantagioni di proprietà europea, e solo il 31% da quelle di proprietà cubana, che comunque pagavano ipoteche a banche nordamericane. Le imprese multinazionali controllavano un territorio enorme. Nelle campagne tutta l’attività economica orbitava intorno alle grandi piantagioni, dalle quali dipendeva la grande maggioranza dei contadini. Persino i piccoli proprietari erano condizionati da questo dominio schiacciante.
La nascita della classe operaia e delle sue organizzazioni
I presidenti che si successero in quei primi anni di “libertà” – tra tentativi di colpi di Stato, interventi militari nordamericani e frodi elettorali – erano, in generale, poco più che burattini dello Zio Sam.
Il periodo che va dalla Prima guerra mondiale agli anni ‘20, rappresentò una nuova epoca di espansione economica, durante la quale Cuba conquistò il primato assoluto mondiale nella produzione dello zucchero. Parallelamente si svilupparono i primi scioperi di massa, soprattutto nel settore del tabacco, che portarono nel 1920 alla formazione della Federazione operaia dell’Avana, il primo sindacato operaio.
Nel 1921 scoppiò una nuova crisi, dovuta fondamentalmente alla caduta del prezzo dello zucchero da 22,6 a 3,7 centesimi la libbra. Solo a gran fatica i governanti furono capaci di contenere lo scontento sociale e le proteste che esplodevano una dopo l’altra. Nel febbraio del 1924 fu fondato il sindacato dei ferrovieri, che poco dopo si rese protagonista di uno sciopero di tre settimane. Le università erano in continuo stato d’agitazione. Il 1925 cominciò con una grande ondata di scioperi, tra i quali il più importante fu quello degli operai tessili, soffocato nel sangue, a colpi d’arma da fuoco. Lo stesso anno fu fondata la Confederazione nazionale dei lavoratori, che riuniva i sindacati dei vari settori.
Nell’agosto dello stesso anno si formava il Partito comunista cubano (Pcc) per iniziativa di alcune decine di operai cubani, di studenti universitari e di un gruppo di operai emigrati. Il partito nasceva in un momento favorevole per la crescita di una forza rivoluzionaria di massa nel paese, ma purtroppo anche mentre era in fase avanzata il processo di degenerazione burocratica dell’Internazionale comunista. Per il giovane partito ciò significò una rottura precoce con le vere tradizioni bolsceviche dell’Ottobre del 1917. Tutti i dirigenti poco inclini a genuflettersi davanti a Stalin furono allontanati dall’Internazionale comunista, mentre la linea politica oscillava tra la collaborazione di classe con la “borghesia progressista” nei paesi coloniali e il settarismo più cieco nei paesi capitalisti avanzati.
Il 1925 segnò anche la fine dei governi “democratici” a Cuba. Due anni prima il presidente Zayas era stato messo sotto la tutela di una commissione nordamericana presieduta dal generale Crowder, che in modo velato deteneva il potere reale. Questo potere mafioso successivamente appoggiò la candidatura alla presidenza del generale Gerardo Machado, il prototipo del futuro dittatore latinoamericano, capace di mescolare grandi dosi di demagogia alla più brutale repressione contro gli oppositori. Molti dirigenti comunisti furono assassinati in questo periodo, ricordiamo in particolare il caso del fondatore e dirigente del Partito comunista e dei sindacati cubani Juan Antonio Mella, assassinato a Città del Messico nel 1929.
La crisi del ’29 colpì duramente Cuba. La produzione di zucchero si manteneva ai suoi livelli più alti, mentre al contrario il prezzo raggiungeva il suo minimo storico di 0,71 centesimi di dollaro la libbra. Nel 1930 uno sciopero generale nella zona occidentale dell’isola scosse dalle fondamenta il regime di Machado. Il 19 aprile 50mila persone manifestarono a L’Avana contro la dittatura. L’anno successivo i comunisti riuscirono a prendere il controllo della Centrale Nazionale Operaia Cubana (Cnoc), precedentemente diretta dagli anarco-sindacalisti.
La rivoluzione del 1933
Alla vigilia dell’esplosione rivoluzionaria del 1933 esistevano a Cuba tutte le condizioni per una riedizione dell’Ottobre russo del 1917, ovvero per la presa del potere da parte del proletariato cubano in alleanza con i contadini e le altre classi oppresse.
Il paese viveva in uno stato di enorme arretratezza, ma allo stesso tempo erano presenti alcuni aspetti della più moderna economia capitalista. Gli statunitensi avevano costruito una rete di trasporto efficiente e nelle campagne la maggior parte dei lavoratori erano salariati, mentre il numero di piccoli proprietari contadini non era molto significativo. Il 57% dei cubani viveva in città. L’Avana era una delle metropoli più importanti del Centroamerica e delle Antille. Il 16,4% della popolazione economicamente attiva era costituito da operai, una percentuale superiore a quella della Russia del 1917. A questi si aggiungeva un 37% della forza-lavoro impiegata nel settore terziario. La classe operaia era l’unica che, di fronte all’inettitudine della borghesia nazionale, poteva liberare l’isola dal dominio imperialista, e dal suo sottosviluppo.
Per uscire dalla condizione di ritardo che paralizzava lo sviluppo sociale ed economico di Cuba sarebbe stato necessario abbattere la borghesia, nazionalizzare l’economia e gestirla attraverso un piano di produzione centralizzato che rispondesse agli interessi della immensa maggioranza della popolazione. La classe operaia era realmente l’unica classe che avesse potenzialmente la forza per farsi carico di questa necessità e realizzare in modo cosciente un tale programma.
Comprendere quale fu il ruolo che giocò nell’arco di molti anni la direzione del Pcc è fondamentale per capire le peculiarità del processo rivoluzionario cubano. Paradossalmente il partito non ebbe un peso determinante nella rivoluzione del 1959. Neppure nella situazione rivoluzionaria degli anni ’30 il partito propose la prospettiva di una rivoluzione di carattere socialista nel paese. La ragione di questo fatto non risiede nella mancanza di radici del partito, anzi il Pcc era uno dei partiti comunisti più forti dell’America latina e negli anni ’40 contava 80mila militanti su una popolazione di sei milioni, cifra di tutto rispetto se consideriamo che il partito bolscevico nel febbraio del 1917 aveva solo ottomila militanti su una popolazione di più di cento milioni di abitanti. Ma qual era la politica del gruppo dirigente del Pcc nel 1933? Come tutti gli altri dirigenti dei partiti comunisti dell’America latina, formatisi alla scuola stalinista, essi confidavano in una alleanza con una immaginaria “borghesia nazionale antimperialista”, che avrebbe diretto “una rivoluzione democratica, liberale e nazionalista”.
Nella primavera del 1933 scoppiò un grande sciopero generale organizzato dalla Cnoc. La posizione di Machado si faceva via via più insostenibile e la probabilità di un intervento nordamericano era crescente. In questo frangente l’atteggiamento della direzione del Pcc non fu quello di adottare una linea favorevole all’indipendenza di classe allo scopo di promuovere l’alternativa socialista a Machado. Al contrario, appellandosi alla logica del male minore, Cesar Vilar, comunista e segretario generale della Cnoc, concluse un patto con il dittatore che pose fine allo sciopero. Tutto questo, si diceva, per evitare un intervento diretto degli Usa. Ad agosto entrò in sciopero il settore dei trasporti. Dopo alcune settimane Vilar tentò nuovamente di frenare il movimento con un accordo, ma stavolta lo sciopero non venne sospeso. A questo punto Machado provò a ricorrere all’esercito, ma i militari si rifiutarono di intervenire. Nella parte orientale dell’isola i lavoratori formarono dei soviet in alcune fabbriche di zucchero.
L’ascesa delle mobilitazioni aveva raggiunto il proprio apice e la popolazione scese in massa nelle strade per reclamare la fine della dittatura. Machado fu destituito e al suo posto si insediò un governo filoamericano, con Carlos Manuel Cespedes in prima linea. Il movimento, nonostante la caduta di Machado, non si arrestò. Un gruppo di sottufficiali, con l’appoggio degli studenti e di alcuni settori della piccola borghesia radicale deposero il governo di Cespedes e spinsero al potere una giunta di cinque persone presieduta da Grau San Martín, professore universitario e vecchio oppositore di Machado. Il leader dei militari era il sergente Fulgencio Batista.
La direzione del Pcc, rendendosi conto che altri personaggi e formazioni politiche stavano approfittando del processo rivoluzionario che si era aperto, fece una svolta di 180 gradi nella sua politica, ma era già troppo tardi per evitare di sprecare un’occasione d’oro. Tentarono di rimediare alla precedente politica opportunista lanciando lo slogan “tutto il potere ai soviet”, però senza alcuna preparazione e quando il movimento si trovava già in riflusso. Inoltre il partito aveva già sperperato molto del suo prestigio, sia tra la piccola borghesia, sia nei confronti della classe operaia, a causa della posizione tenuta nei confronti di Machado. Questa situazione facilitò l’esercito nella repressione contro i militanti comunisti, che pagarono con il sangue gli errori politici dei loro dirigenti.
Il Pcc e la politica di fronte popolare
Batista e i militari tramarono per prendere il sopravvento. A gennaio del 1934 si erano già sbarazzati del governo di Grau, sostituito da uomini più manovrabili. Il primo passo di Batista verso il potere. Segnato dalla sconfitta della rivoluzione, il movimento operaio e contadino aveva bisogno di tempo per risollevarsi. Parallelamente iniziò un periodo favorevole per l’economia, che permise al governo di fare alcune concessioni, come la riduzione ad otto ore della giornata lavorativa. Nel 1935 comunque il 25% della popolazione restava ancora analfabeta e una percentuale simile continuava ad essere disoccupata.
Ridotto in clandestinità il Pcc provava a riflettere sui suoi errori passati, ma la linea approvata nel VII congresso dell’Internazionale comunista (1935), che impose una nuova virata politica di 180 gradi con la riaffermazione della politica dei fronti popolari, finì indubbiamente con annullare il Pcc in quanto organizzazione rivoluzionaria. Il fronte popolare prevedeva la ricerca di alleanze ad ogni costo con partiti e personalità della borghesia “antifascista” o progressista, vera o, quasi sempre, presunta tale.
Nell’ambito del fronte popolare le organizzazioni della classe operaia rinunciavano al programma anticapitalista, e ai propri metodi naturali di lotta (l’istituzione di consigli operai, l’occupazione delle fabbriche, il controllo operaio e la formazione di milizie indipendenti dallo stato borghese, ecc.) sacrificandoli sull’altare dell’alleanza con la presunta borghesia antifascista, che però in pratica non contribuiva in alcun modo alla lotta contro il fascismo. Nulla a che vedere con la politica di fronte unico tra le differenti organizzazioni della classe operaia contro il nemico fascista. La differenza è qualitativamente importante.
La politica del fronte popolare, che tra le altre cose portò alla rovina della rivoluzione spagnola del 1936-39, fu applicata con zelo anche a Cuba. Nel dicembre del 1936, Blas Roca, segretario generale del partito scriveva: “la stessa borghesia nazionale, entrando in contraddizione con il capitalismo che la soffoca, accumula energie rivoluzionarie che non devono essere sprecate (…). Tutti gli strati della nostra popolazione, dal proletariato alla borghesia nazionale possono e devono formare un ampio fronte popolare contro l’oppressore straniero”. L’appello a formare un’alleanza fu rivolto a Grau e al suo Partito rivoluzionario autentico (di carattere borghese), il quale comunque respinse al mittente l’invito.
Batista e il Pcc
Dal 1937 in poi Batista, consigliato dal presidente degli Stati Uniti Roosevelt, concesse una certa apertura democratica ed introdusse un maggior controllo dello Stato sull’economia, specialmente sulla produzione di zucchero e tabacco. Improvvisamente il Pcc, che definiva Batista “traditore della nazione e servo dell’imperialismo”, si rese protagonista di un’ulteriore svolta di 180 gradi. “Batista aveva cominciato a non essere più il principale esponente della reazione” affermava Blas Roca nel luglio del 1938 e continuava: “l’esplosione rivoluzionaria che nel settembre del 1933 lo aveva indotto a ribellarsi al potere, non ha cessato di esercitare pressione su di lui”. Il governo di Batista aveva ricevuto da Roosvelt l’etichetta di “democratico”, e in quella congiuntura la burocrazia stalinista non voleva frapporre ostacoli alle sue relazioni economiche e politiche con il presidente nordamericano. Da quel momento i principali nemici di Cuba secondo il Pcc divennero i fascisti, non più Batista(!). Come attestato di riconoscenza da parte del dittatore, il Pcc fu legalizzato nel 1938.
Quando nel novembre del 1939 si celebrarono le elezioni per l’Assemblea costituente si confrontarono due coalizioni: Batista e i comunisti da una parte e il Pra di Grau e i radicali dell’Abc dall’altro. Vinsero questi ultimi e il Pcc ottenne il 10% circa dei voti. L’anno seguente in un’elezione non proprio limpida Batista fu eletto presidente. Nel 1942 due comunisti, Juan Marinello e Carlos Rafael Rodríguez, entrarono nel governo di Batista.
Nel corso di questo periodo il Pcc aveva cambiato nome assumendo quello di Partito socialista popolare, uno tra i partiti più a destra dell’Internazionale comunista. Il secondo congresso del Psp considerò opportuno salutare il presidente Batista con queste parole: “Desideriamo ribadire che potete contare sul nostro rispetto e sul nostro affetto e stima per i vostri princìpi di governante democratico e progressista”.
La critica all’imperialismo statunitense era ormai cosa del passato. Sostenendo l’inutilità delle nazionalizzazioni delle proprietà straniere, il Psp si proponeva “la collaborazione in un programma di economia espansiva che consentirebbe di pagare interessi ragionevoli per gli investimenti stranieri, principalmente inglesi e nordamericani”. I sindacati, nell’80% dei quali i comunisti avevano conquistato una posizione dirigente, pubblicarono un opuscolo intitolato La collaborazione tra imprenditori e operai.
Compiendo un’ulteriore capriola politica i dirigenti del Psp offrirono in seguito la loro collaborazione al nuovo presidente Grau San Martin, per essere da questi respinti e passare all’opposizione nel 1946. La reiterazione di svolte, vacillazioni e tradimenti da parte di dirigenti che si arrogavano il titolo di “eredi delle tradizioni dell’Ottobre” a Cuba, rappresenta un caso esemplare della disastrosa confusione che lo stalinismo provocò nell’insieme del movimento rivoluzionario dell’America latina. Il partito aveva un’influenza decisiva nel movimento operaio cubano, ma la sua direzione, in nome del comunismo e delle tradizioni dell’Ottobre, praticava la peggiore politica menscevica di collaborazione di classe. Questo tradimento non poteva che lasciare la sua impronta negativa sulla politica cubana.
A fronte della traiettoria politica del Psp possiamo immaginare quanto fosse difficile per i lavoratori e i contadini cubani comprendere le vere idee del comunismo e della tattica bolscevica. Le idee di Marx e di Lenin furono sepolte sotto montagne di terribili aberrazioni. Per tutta una generazione di giovani che entrarono in politica nel segno della lotta antimperialista lo zigzagare del Pcc provocava come minimo indifferenza, quando non fastidio o aperto rifiuto. Per molti i comunisti erano troppo pavidi e arrendevoli nei confronti dell’imperialismo americano, mentre per altri sui quali la nozione di comunismo e la rivoluzione d’Ottobre avrebbero potuto esercitare una potente attrazione, conoscerne l’autentico sviluppo e assimilarne le preziose lezioni era un compito quasi impossibile.
Julio Antonio Mella
È molto interessante confrontare la politica della direzione del Pcc descritta fino ad ora con quanto propugnava il suo segretario generale Julio Antonio Mella. Il suo assassinio in Messico nel 1929, troncò ogni possibilità che il partito adottasse una politica genuinamente leninista, chiaramente contrapposta alla politica stalinista di alleanza tra le classi. Citiamo alcuni paragrafi dei suoi scritti che non necessitano di ulteriore commento:
“[…] nella sua lotta contro l’imperialismo – il rapinatore straniero – la borghesia – ovvero il rapinatore nazionale – si unisce al proletariato, buona carne da cannone. Però ad un certo punto [i borghesi] capiscono che è meglio allearsi con l’imperialismo che in fondo persegue un interesse simile. Da progressisti si convertono in reazionari. Tradiscono le concessioni che facevano al proletariato per averlo dalla propria parte quando questo, nella sua avanzata, diventa un pericolo tanto per i rapinatori internazionali che per quelli nazionali”.
“I rivoluzionari d’America che aspirano ad abbattere le tirannie dei loro rispettivi paesi non possono disconoscere questa realtà; quelli che sembrano negarla lo fanno perché la loro ignoranza o la loro malafede gli impedisce di vederla. Non si può vivere con i princìpi del 1789. Nonostante la mente ritardata di qualcuno, l’umanità ha progredito e fare la rivoluzione in questo secolo vuol dire fare i conti con nuovi fattori: le idee socialiste in generale, che seppur con diverse sfumature sono radicate in tutti gli angoli del mondo”.
“La causa del proletariato è la causa nazionale. Esso rappresenta l’unica forza capace di lottare con possibilità di trionfo per gli ideali di libertà nell’epoca attuale. Quando il proletariato si solleva rabbioso come un nuovo Spartaco nelle campagne e nelle città, si solleva per lottare per gli ideali di tutto il popolo. Vuole distruggere il capitalismo straniero che è nemico della nazione. Vuole instaurare un regime di uomini del popolo, perché comprende che questa è l’unica garanzia di giustizia sociale […] Sa che la ricchezza nelle mani di pochi è la causa degli abusi e delle miserie, per questo pretende di socializzarla […].
“I comunisti aiuteranno, così come hanno aiutato finora – vedi il Messico, il Nicaragua, ecc. – i movimenti nazionali di emancipazione, anche se questi hanno una base borghese democratica. Nessuno nega questa necessità, a condizione che siano veramente movimenti di emancipazione e rivoluzionari. Ma qui mi soccorre quello che continua a consigliare Lenin al secondo Congresso dell’Internazionale: ‘L’Internazionale deve appoggiare i movimenti nazionali di liberazione […] nei paesi arretrati e nelle colonie, solamente a condizione che gli elementi dei futuri partiti proletari, comunisti non solo di nome, si raggruppino e si educhino nella coscienza dei propri differenti compiti, i compiti cioè di lotta contro i movimenti democratico borghesi nelle proprie nazioni. La I.C. deve marciare in alleanza temporanea con la democrazia borghese delle colonie e dei paesi arretrati, ma senza fondersi con questa e salvaguardando espressamente l’indipendenza del movimento proletario, anche sulle questioni più rudimentali”.
Mella riconosceva l’esistenza di due nazionalismi, quello borghese e quello rivoluzionario:
“Il primo vuole una nazione per far vivere la propria casta come un parassita sulle spalle del resto della società, cibandosi delle briciole che gli lascia il capitale sassone. L’altro vorrebbe una nazione libera per farla finita con i parassiti di casa propria e con gli invasori imperialisti, riconoscendo che il principale cittadino in tutta la società è quello che contribuisce ad elevarla con il proprio lavoro quotidiano, senza sfruttare i propri simili”.
Instabilità politica e miseria sociale
Tra il 1939 e il 1945 il Pil era raddoppiato, ma la borghesia cubana era incapace di elaborare un piano di sviluppo che liberasse l’economia dalla dipendenza dalla canna da zucchero, che costituiva l’80% delle esportazioni. In questo modo tutta l’economia era condizionata dalle fluttuazioni internazionali del prezzo di questa merce sul mercato mondiale. Dopo la seconda guerra mondiale Cuba avrebbe affrontato una nuova crisi. Le lotte politiche e l’instabilità economica minavano gravemente la “democrazia” cubana, mentre il gangsterismo diveniva pratica abituale, sostenuto direttamente dalla presidenza della Repubblica che sovvenzionava con 18.000 dollari al mese gruppi di azione squadristi con fondi nascosti nel bilancio sotto la voce “assegnazioni particolari”.
Nel 1947, denunziando la corruzione del governo Grau, il senatore Chibas e altri esponenti di primo piano dell’ala più nazionalista della borghesia fondarono il Partito del popolo cubano, più comunemente conosciuto come Partito ortodosso, al quale aderì il giovane universitario Fidel Castro.
Alcuni anni prima della rivoluzione Cuba era senza ombra di dubbio un paradiso per i ricchi turisti americani, ma era anche un inferno per la maggioranza della popolazione, nonostante fosse considerata una delle nazioni più benestanti di tutta l’America latina. Tra il 1950 ed il 1954 le entrate medie annuali pro capite dello stato più povero degli Stati Uniti, il Mississipi, ammontavano a 829 dollari, mentre a Cuba erano di 312 dollari, cioè pari a solo 6 dollari la settimana. Un quarto della popolazione era analfabeta e la percentuale di bambini che frequentavano la scuola era più bassa che negli anni ’20. Nel 1954 solo il 15% delle case in città e solo l’1% di quelle in campagna avevano un bagno. Allo stesso tempo a L’Avana circolavano più Cadillac che in qualsiasi altra città del mondo. Meno di 30.000 proprietari possedevano il 70% dei terreni agricoli, mentre il 78,5% dei contadini occupavano solo il 15% del totale. I terreni coltivati direttamente dai proprietari non arrivavano al 33% della superficie totale. Il latifondismo era ancora più evidente nella coltivazione della canna da zucchero, dove 22 grandi proprietari possedevano il 70% delle terre coltivabili.
“Il processo di disgregazione della classe contadina, su cui si era innestata la proprietà straniera, era arrivato a un punto tale che i rapporti capitalistici di proprietà erano ormai predominanti, mentre le forme di appropriazione fondiaria precapitalistica si erano ridotte a un settore del tutto marginale. D’altra parte, l’esistenza di un forte nucleo di proletariato agricolo conferma la forza di penetrazione del capitalismo nelle campagne cubane […]. Il proletariato agricolo cubano era ormai completamente distaccato dalla terra; esso era molto più portato a rivendicare, attraverso i suoi sindacati, dei miglioramenti sindacali e sociali che a chiedere l’accesso alla proprietà della terra”.
Gli abitanti di Cuba erano in quegli anni poco più di sei milioni. Nel 1957 i salariati agricoli erano 975.000, dei quali almeno un terzo non lavoravano più di 100 ore l’anno. Lo storico Hugh Thomas parla di “400.000 famiglie del proletariato urbano” negli anni ’50. Secondo questi dati la classe operaia urbana era pari al 20% della popolazione economicamente attiva. Se si aggiungono i proletari agricoli, gli impiegati statali, ecc., la maggioranza della popolazione lavoratrice cubana era costituita da salariati, in buona parte organizzati sindacalmente. Con questo peso nella società la classe operaia cubana era in condizioni di contendere il potere alla borghesia, e di giocare un ruolo da protagonista nel processo di distruzione del capitalismo, trascinando dietro di sé i contadini poveri e parte della classe media in rovina. Ma come abbiamo visto in precedenza, il Pcc non giocò lo stesso ruolo dei bolscevichi nel 1917, nonostante questi ultimi avessero affrontato rapporti di forza nella società molto più sfavorevoli.
Il colpo di stato di Batista e l’assalto alla Moncada
Si avvicinavano le elezioni del 1952 e con ogni probabilità avrebbero segnato il trionfo del Partito ortodosso, in quel momento alleato con i comunisti. La situazione rischiava di sfuggire di mano all’imperialismo nordamericano, così senza esitazioni in marzo dello stesso anno gli Usa appoggiarono il colpo di stato di Batista.
L’opposizione al golpe era molto forte tra gli studenti e gli intellettuali. Il 26 luglio del 1953 un gruppo di circa 120 giovani raccolti attorno a Fidel Castro assaltarono la caserma della Moncada, a Santiago de Cuba, con lo scopo di scatenare un movimento sociale che propiziasse la fine della dittatura.
Anche se terminò con la morte e la fucilazione della maggioranza dei suoi partecipanti e con l’incarcerazione dei sopravvissuti, tra i quali Fidel e suo fratello Raul, l’assalto ebbe una risonanza propagandistica enorme, e la figura di Fidel cominciò ad essere molto conosciuta. La forte campagna internazionale per la liberazione dei prigionieri della Moncada, coincise con la necessità per il regime di dare un’immagine di normalità. Ciò favorì due anni dopo la liberazione di Castro, che si recò in esilio in Messico e fondò il Movimento 26 Luglio (M26-J).
Nel 1956 Fidel rompe definitivamente con il Partito ortodosso. Il proclama che avrebbe dovuto essere letto dagli insorti una volta presa la stazione radio, se il piano non fosse fallito prima, recitava così: “La Rivoluzione dichiara la sua ferma intenzione di porre Cuba su un piano di benessere e di prosperità economica […]. La Rivoluzione dichiara il proprio rispetto dei lavoratori e l’instaurazione della totale e definitiva giustizia sociale, fondata sul progresso economico e industriale sotto un piano nazionale ben ideato e sincronizzato […]. La Rivoluzione riconosce e si basa sugli ideali di Martí […] e adotta come proprio il programma rivoluzionario della Joven Cuba, dei radicali Abc e del Ppc [gli ortodossi] […]. La Rivoluzione dichiara il proprio assoluto e riverente rispetto per la Costituzione data al popolo nel 1940 […]. In nome dei martiri, in nome dei sacri diritti della Patria […]”.
La rivendicata Costituzione del 1940 era piena di belle parole e niente più. Lo stesso Hugh Thomas, analizzando il programma della Moncada, commenta: “Tutte queste misure erano ben poco radicali e di per sé non avrebbero soddisfatto l’esigenza di un’indipendenza internazionale di Cuba; non si parlava di nazionalizzazione dell’industria dello zucchero, una misura che sarebbe stata certo giustificata dalla singolare struttura di tale industria e dal fatto che la nazione ne dipendeva in misura enorme, e che nel programma, per esempio, dei laburisti inglesi, sarebbe stata ai primi posti”.
Questo programma, confermato successivamente nel famoso discorso La storia mi assolverà, che Fidel Castro pronunciò durante il suo processo, sebbene rivelasse chiaramente la volontà di lotta per riforme profonde, non prevedeva la necessità di lottare per la trasformazione socialista della società.
L’ideale di Fidel, profondamente ispirato da Martí, era quello di un sviluppo prospero, socialmente giusto e indipendente di Cuba, ma senza che questo portasse alla rottura con il capitalismo né implicasse una politica di indipendenza di classe. La storia però non si ripete mai allo stesso modo. All’epoca di Martí la classe operaia poteva a malapena avere un ruolo politico indipendente. Mezzo secolo dopo la classe operaia aveva già acquisito un peso decisivo nella società e questo avrebbe avuto implicazioni nel futuro sviluppo del processo rivoluzionario cubano. La rivoluzione cubana fu una chiara conferma della teoria della rivoluzione permanente. Come scrisse il grande rivoluzionario russo Lev Trotskij ne La Rivoluzione Permanente riferendosi ai paesi a sviluppo borghese ritardato: “la soluzione integrale ed effettiva dei suoi fini democratici e della sua emancipazione nazionale può essere concepita unicamente attraverso la dittatura del proletariato”.
A Cuba si concentravano in forma estremizzata molti dei tratti caratteristici (storici, sociali, economici e politici) dei paesi latino americani, circostanza che ha avuto una conferma evidente nell’altrettanto particolare sviluppo della rivoluzione del 1959. Potremmo considerare la borghesia cubana come paradigmatica della sottomissione all’imperialismo che ha caratterizzato storicamente tutta la borghesia latinoamericana.
È importante ripercorrere per sommi capi alcuni aspetti della storia di Cuba. Essa fu una delle prime isole a cui approdò Cristoforo Colombo alla fine del XV secolo. Da allora Cuba rimase per quasi quattro secoli sotto il dominio spagnolo. Nel XVIII secolo l’Inghilterra cominciò a nutrire un certo interesse per la “perla delle Antille”, fino ad invaderla nel 1762. Gli inglesi sarebbero restati solo un anno nell’isola, ma da quel momento in poi avrebbero giocato un ruolo determinante nel suo sviluppo economico, rimpiazzati in seguito dagli Stati Uniti. In questo periodo inizia la coltura intensiva della canna da zucchero e del tabacco nei latifondi, resa possibile dal massiccio ricorso alla manodopera schiava.
All’inizio del XIX secolo il movimento per l’indipendenza si diffonde in tutta l’America latina, salvo alcune eccezioni, e tra queste Cuba. Il comportamento della classe dominante dell’isola era determinato dalla paura che il suo isolamento rispetto al resto del continente avrebbe potuto facilitare la repressione spagnola e dal terrore che una rivoluzione per l’indipendenza potesse scatenare una ribellione di schiavi simile a quella avvenuta ad Haiti. Inoltre la colonia stava attraversando una lunga fase di crescita economica, in stretta connessione con l’economia nordamericana. A metà del XIX secolo Cuba era il principale produttore di zucchero del mondo, e gli Usa ne erano il principale acquirente. L’élite creola non aspirava all’indipendenza, anzi era più che altro attratta dalla possibilità di divenire uno degli stati dell’Unione nordamericana. Questo desiderio, sapientemente coltivato da alcuni circoli della borghesia di Washington, era molto indicativo delle caratteristiche della classe dominante cubana, completamente asservita al capitalismo nordamericano.
La prima guerra civile (1868-1876)
La realtà socio-economica cubana era un’espressione condensata della teoria dello sviluppo diseguale e combinato che Trotskij spiega magnificamente nella sua Storia della Rivoluzione Russa. A Cuba la penetrazione tecnologica e finanziaria dei paesi capitalisti avanzati non solo non entrò in contraddizione con il sistema schiavista vigente sull’isola, ma al contrario lo intensificò. Fu solo verso la fine del XIX secolo che quel sistema cominciò a entrare in declino.
Tutto ciò faceva da sfondo alle tensioni che portarono alla prima guerra civile per la liberazione nazionale, che durò dal 1868 al 1876. Una parte della classe dominante, composta soprattutto da produttori di caffè, piccoli e medi produttori di zucchero ed allevatori della parte orientale dell’isola, la più arretrata, si sentiva in condizioni di evidente svantaggio rispetto ai latifondisti della parte occidentale. Non potevano contare sullo sfruttamento intensivo della manodopera schiava, né sulla stessa capacità di rinnovamento tecnologico, né sul controllo dell’apparato dello Stato.
Nonostante la guerra avesse suscitato illusioni e partecipazione popolare, essa non culminò in una rivoluzione democratico-borghese. L’esercito spagnolo poté contare in quella occasione sull’appoggio degli Usa e per l’élite sociale della parte occidentale dell’isola era preferibile che Cuba continuasse ad essere una colonia spagnola, piuttosto di rischiare la destabilizzazione sociale che il conseguimento dell’indipendenza avrebbe potuto provocare. I latifondisti della parte orientale finirono per abbandonare la lotta in cambio di alcune concessioni da parte della Corona spagnola, tradendo così la base reale del movimento: gli schiavi liberati e i contadini.
Questi avvenimenti e la storia successiva fino alla rivoluzione del 1959 dimostravano come la classe dominante cubana fosse incapace di realizzare i compiti della rivoluzione democratico borghese, a differenza di quanto avvenne in Francia nel 1789 e successivamente in altri paesi europei, dove si consolidarono gli Stati nazionali come base per lo sviluppo capitalista. La borghesia cubana era incapace di conseguire uno sviluppo industriale con una base propria o di distribuire la terra ai contadini e quindi di istituire una democrazia parlamentare relativamente stabile, tutto questo nella cornice di uno Stato nazionale.
Nell’epoca moderna le borghesie nazionali dei paesi ex coloniali, comparse troppo tardi sulla scena della storia, sono del tutto incapaci di assolvere a questi compiti. Questa è una verità storica confermata non solo dal caso di Cuba, ma ovunque il capitalismo si sia sviluppato tardivamente. La borghesia nazionale ad esempio non può realizzare una riforma agraria efficace a causa dei suoi profondi legami economici, familiari, sociali e politici con i grandi latifondisti. Non riesce a sviluppare una vera industria nazionale perché riveste un ruolo ausiliario e subordinato al capitale internazionale. Conseguentemente, nella misura in cui il capitalismo di questi paesi resta fondato sul selvaggio sfruttamento della manodopera e sul saccheggio delle risorse naturali, non c’è spazio per lunghi periodi di stabilità e una solida democrazia parlamentare borghese.
L’indipendenza di Cuba
Josè Martí, poeta e fondatore nel 1892 del Partito rivoluzionario cubano (Prc), guidò la seconda guerra di liberazione nazionale. Il suo movimento poté contare su un’ampia base popolare: i lavoratori, un largo settore della popolazione di origine africana, la piccola borghesia urbana, i piccoli proprietari, i contadini del tabacco, ecc. Alla lotta per l’indipendenza si sommavano tutta una serie di rivendicazioni di tipo sociale. Nonostante tanti limiti, il programma di Martí aveva un carattere nettamente progressista, nella misura in cui faceva appello all’intervento delle masse per raggiungere gli obiettivi di tipo democratico nazionale. Inoltre Martí si rese conto che l’indipendenza formale dalla Corona spagnola conquistata dagli altri paesi latinoamericani era solo il primo passo: era necessaria una “seconda indipendenza” che liberasse il paese dall’asfissiante dominio dell’imperialismo nordamericano in ascesa.
Senza dubbio il progetto di Josè Martí di una Cuba indipendente dalla Spagna e dagli Stati Uniti, democratica e libera, venne frustrato dagli eventi. Dopo la prematura morte del leader cubano nel maggio del 1895 sotto il fuoco dell’esercito spagnolo, la direzione del Prc consegnò il movimento di liberazione nelle mani della borghesia e dei latifondisti, che a loro volta propiziarono l’intervento degli Usa nella guerra. La lotta di Martí, però, lasciò in eredità al popolo cubano una profonda tradizione rivoluzionaria, basata sull’antimperialismo e sul coinvolgimento delle masse nella lotta, che avrebbe finalmente trovato espressione nel Movimento 26 Luglio fondato da Fidel nel 1955.
La repressione indiscriminata dell’esercito coloniale non riuscì a schiacciare l’ira crescente della popolazione contro la dominazione spagnola, così alla fine gli Usa decisero di approfittare della ghiotta occasione, intervenendo con la scusa di difendere l’indipendenza dell’isola. In poco tempo i nordamericani ebbero ragione dei militari spagnoli e il 10 dicembre del 1898, con il trattato di Parigi, si impossessarono del paese.
Il governo degli Stati Uniti considerò fin da subito Cuba come un proprio protettorato, nominando direttamente gli amministratori dell’isola e rifiutando di riconoscere i rappresentanti degli insorti e di condividere il potere con loro. Nel 1901 il senato Usa votò l’emendamento Platt, inserito come appendice nella prima costituzione cubana dall’Assemblea costituente composta dai maggiori esponenti della borghesia liberale dell’Avana, che così conferivano ufficialità al carattere servile e conservatore della loro classe sociale. L’emendamento Platt stabiliva tra l’altro che “…il governo di Cuba accetta che gli Stati Uniti possano esercitare il diritto di intervento con il fine di proteggere l’indipendenza cubana e la salvaguardia di un governo adeguato alla protezione della vita umana, della proprietà e delle libertà individuali”. Con questa integrazione alla costituzione cubana gli Usa ratificavano il loro assoluto dominio su Cuba che sarebbe durato per diversi decenni.
Nel 1902 i marines tornarono a casa e Cuba divenne, formalmente, una repubblica indipendente, ma gli Usa continuarono ad influire pesantemente nella politica dell’isola, e dal punto di vista economico mantennero, anzi incrementarono il loro dominio. Se nel 1895 gli investimenti statunitensi furono di 50 milioni di dollari, nel 1902, questi aumentarono fino a 100 milioni di dollari, e la United Fruit Company acquistò 7.500 ettari di terra al prezzo di 50 centesimi di dollaro l’ettaro. Nel 1909 il 34% dello zucchero prodotto nel paese veniva prodotto da piantagioni di proprietà statunitense, il 35% da piantagioni di proprietà europea, e solo il 31% da quelle di proprietà cubana, che comunque pagavano ipoteche a banche nordamericane. Le imprese multinazionali controllavano un territorio enorme. Nelle campagne tutta l’attività economica orbitava intorno alle grandi piantagioni, dalle quali dipendeva la grande maggioranza dei contadini. Persino i piccoli proprietari erano condizionati da questo dominio schiacciante.
La nascita della classe operaia e delle sue organizzazioni
I presidenti che si successero in quei primi anni di “libertà” – tra tentativi di colpi di Stato, interventi militari nordamericani e frodi elettorali – erano, in generale, poco più che burattini dello Zio Sam.
Il periodo che va dalla Prima guerra mondiale agli anni ‘20, rappresentò una nuova epoca di espansione economica, durante la quale Cuba conquistò il primato assoluto mondiale nella produzione dello zucchero. Parallelamente si svilupparono i primi scioperi di massa, soprattutto nel settore del tabacco, che portarono nel 1920 alla formazione della Federazione operaia dell’Avana, il primo sindacato operaio.
Nel 1921 scoppiò una nuova crisi, dovuta fondamentalmente alla caduta del prezzo dello zucchero da 22,6 a 3,7 centesimi la libbra. Solo a gran fatica i governanti furono capaci di contenere lo scontento sociale e le proteste che esplodevano una dopo l’altra. Nel febbraio del 1924 fu fondato il sindacato dei ferrovieri, che poco dopo si rese protagonista di uno sciopero di tre settimane. Le università erano in continuo stato d’agitazione. Il 1925 cominciò con una grande ondata di scioperi, tra i quali il più importante fu quello degli operai tessili, soffocato nel sangue, a colpi d’arma da fuoco. Lo stesso anno fu fondata la Confederazione nazionale dei lavoratori, che riuniva i sindacati dei vari settori.
Nell’agosto dello stesso anno si formava il Partito comunista cubano (Pcc) per iniziativa di alcune decine di operai cubani, di studenti universitari e di un gruppo di operai emigrati. Il partito nasceva in un momento favorevole per la crescita di una forza rivoluzionaria di massa nel paese, ma purtroppo anche mentre era in fase avanzata il processo di degenerazione burocratica dell’Internazionale comunista. Per il giovane partito ciò significò una rottura precoce con le vere tradizioni bolsceviche dell’Ottobre del 1917. Tutti i dirigenti poco inclini a genuflettersi davanti a Stalin furono allontanati dall’Internazionale comunista, mentre la linea politica oscillava tra la collaborazione di classe con la “borghesia progressista” nei paesi coloniali e il settarismo più cieco nei paesi capitalisti avanzati.
Il 1925 segnò anche la fine dei governi “democratici” a Cuba. Due anni prima il presidente Zayas era stato messo sotto la tutela di una commissione nordamericana presieduta dal generale Crowder, che in modo velato deteneva il potere reale. Questo potere mafioso successivamente appoggiò la candidatura alla presidenza del generale Gerardo Machado, il prototipo del futuro dittatore latinoamericano, capace di mescolare grandi dosi di demagogia alla più brutale repressione contro gli oppositori. Molti dirigenti comunisti furono assassinati in questo periodo, ricordiamo in particolare il caso del fondatore e dirigente del Partito comunista e dei sindacati cubani Juan Antonio Mella, assassinato a Città del Messico nel 1929.
La crisi del ’29 colpì duramente Cuba. La produzione di zucchero si manteneva ai suoi livelli più alti, mentre al contrario il prezzo raggiungeva il suo minimo storico di 0,71 centesimi di dollaro la libbra. Nel 1930 uno sciopero generale nella zona occidentale dell’isola scosse dalle fondamenta il regime di Machado. Il 19 aprile 50mila persone manifestarono a L’Avana contro la dittatura. L’anno successivo i comunisti riuscirono a prendere il controllo della Centrale Nazionale Operaia Cubana (Cnoc), precedentemente diretta dagli anarco-sindacalisti.
La rivoluzione del 1933
Alla vigilia dell’esplosione rivoluzionaria del 1933 esistevano a Cuba tutte le condizioni per una riedizione dell’Ottobre russo del 1917, ovvero per la presa del potere da parte del proletariato cubano in alleanza con i contadini e le altre classi oppresse.
Il paese viveva in uno stato di enorme arretratezza, ma allo stesso tempo erano presenti alcuni aspetti della più moderna economia capitalista. Gli statunitensi avevano costruito una rete di trasporto efficiente e nelle campagne la maggior parte dei lavoratori erano salariati, mentre il numero di piccoli proprietari contadini non era molto significativo. Il 57% dei cubani viveva in città. L’Avana era una delle metropoli più importanti del Centroamerica e delle Antille. Il 16,4% della popolazione economicamente attiva era costituito da operai, una percentuale superiore a quella della Russia del 1917. A questi si aggiungeva un 37% della forza-lavoro impiegata nel settore terziario. La classe operaia era l’unica che, di fronte all’inettitudine della borghesia nazionale, poteva liberare l’isola dal dominio imperialista, e dal suo sottosviluppo.
Per uscire dalla condizione di ritardo che paralizzava lo sviluppo sociale ed economico di Cuba sarebbe stato necessario abbattere la borghesia, nazionalizzare l’economia e gestirla attraverso un piano di produzione centralizzato che rispondesse agli interessi della immensa maggioranza della popolazione. La classe operaia era realmente l’unica classe che avesse potenzialmente la forza per farsi carico di questa necessità e realizzare in modo cosciente un tale programma.
Comprendere quale fu il ruolo che giocò nell’arco di molti anni la direzione del Pcc è fondamentale per capire le peculiarità del processo rivoluzionario cubano. Paradossalmente il partito non ebbe un peso determinante nella rivoluzione del 1959. Neppure nella situazione rivoluzionaria degli anni ’30 il partito propose la prospettiva di una rivoluzione di carattere socialista nel paese. La ragione di questo fatto non risiede nella mancanza di radici del partito, anzi il Pcc era uno dei partiti comunisti più forti dell’America latina e negli anni ’40 contava 80mila militanti su una popolazione di sei milioni, cifra di tutto rispetto se consideriamo che il partito bolscevico nel febbraio del 1917 aveva solo ottomila militanti su una popolazione di più di cento milioni di abitanti. Ma qual era la politica del gruppo dirigente del Pcc nel 1933? Come tutti gli altri dirigenti dei partiti comunisti dell’America latina, formatisi alla scuola stalinista, essi confidavano in una alleanza con una immaginaria “borghesia nazionale antimperialista”, che avrebbe diretto “una rivoluzione democratica, liberale e nazionalista”.
Nella primavera del 1933 scoppiò un grande sciopero generale organizzato dalla Cnoc. La posizione di Machado si faceva via via più insostenibile e la probabilità di un intervento nordamericano era crescente. In questo frangente l’atteggiamento della direzione del Pcc non fu quello di adottare una linea favorevole all’indipendenza di classe allo scopo di promuovere l’alternativa socialista a Machado. Al contrario, appellandosi alla logica del male minore, Cesar Vilar, comunista e segretario generale della Cnoc, concluse un patto con il dittatore che pose fine allo sciopero. Tutto questo, si diceva, per evitare un intervento diretto degli Usa. Ad agosto entrò in sciopero il settore dei trasporti. Dopo alcune settimane Vilar tentò nuovamente di frenare il movimento con un accordo, ma stavolta lo sciopero non venne sospeso. A questo punto Machado provò a ricorrere all’esercito, ma i militari si rifiutarono di intervenire. Nella parte orientale dell’isola i lavoratori formarono dei soviet in alcune fabbriche di zucchero.
L’ascesa delle mobilitazioni aveva raggiunto il proprio apice e la popolazione scese in massa nelle strade per reclamare la fine della dittatura. Machado fu destituito e al suo posto si insediò un governo filoamericano, con Carlos Manuel Cespedes in prima linea. Il movimento, nonostante la caduta di Machado, non si arrestò. Un gruppo di sottufficiali, con l’appoggio degli studenti e di alcuni settori della piccola borghesia radicale deposero il governo di Cespedes e spinsero al potere una giunta di cinque persone presieduta da Grau San Martín, professore universitario e vecchio oppositore di Machado. Il leader dei militari era il sergente Fulgencio Batista.
La direzione del Pcc, rendendosi conto che altri personaggi e formazioni politiche stavano approfittando del processo rivoluzionario che si era aperto, fece una svolta di 180 gradi nella sua politica, ma era già troppo tardi per evitare di sprecare un’occasione d’oro. Tentarono di rimediare alla precedente politica opportunista lanciando lo slogan “tutto il potere ai soviet”, però senza alcuna preparazione e quando il movimento si trovava già in riflusso. Inoltre il partito aveva già sperperato molto del suo prestigio, sia tra la piccola borghesia, sia nei confronti della classe operaia, a causa della posizione tenuta nei confronti di Machado. Questa situazione facilitò l’esercito nella repressione contro i militanti comunisti, che pagarono con il sangue gli errori politici dei loro dirigenti.
Il Pcc e la politica di fronte popolare
Batista e i militari tramarono per prendere il sopravvento. A gennaio del 1934 si erano già sbarazzati del governo di Grau, sostituito da uomini più manovrabili. Il primo passo di Batista verso il potere. Segnato dalla sconfitta della rivoluzione, il movimento operaio e contadino aveva bisogno di tempo per risollevarsi. Parallelamente iniziò un periodo favorevole per l’economia, che permise al governo di fare alcune concessioni, come la riduzione ad otto ore della giornata lavorativa. Nel 1935 comunque il 25% della popolazione restava ancora analfabeta e una percentuale simile continuava ad essere disoccupata.
Ridotto in clandestinità il Pcc provava a riflettere sui suoi errori passati, ma la linea approvata nel VII congresso dell’Internazionale comunista (1935), che impose una nuova virata politica di 180 gradi con la riaffermazione della politica dei fronti popolari, finì indubbiamente con annullare il Pcc in quanto organizzazione rivoluzionaria. Il fronte popolare prevedeva la ricerca di alleanze ad ogni costo con partiti e personalità della borghesia “antifascista” o progressista, vera o, quasi sempre, presunta tale.
Nell’ambito del fronte popolare le organizzazioni della classe operaia rinunciavano al programma anticapitalista, e ai propri metodi naturali di lotta (l’istituzione di consigli operai, l’occupazione delle fabbriche, il controllo operaio e la formazione di milizie indipendenti dallo stato borghese, ecc.) sacrificandoli sull’altare dell’alleanza con la presunta borghesia antifascista, che però in pratica non contribuiva in alcun modo alla lotta contro il fascismo. Nulla a che vedere con la politica di fronte unico tra le differenti organizzazioni della classe operaia contro il nemico fascista. La differenza è qualitativamente importante.
La politica del fronte popolare, che tra le altre cose portò alla rovina della rivoluzione spagnola del 1936-39, fu applicata con zelo anche a Cuba. Nel dicembre del 1936, Blas Roca, segretario generale del partito scriveva: “la stessa borghesia nazionale, entrando in contraddizione con il capitalismo che la soffoca, accumula energie rivoluzionarie che non devono essere sprecate (…). Tutti gli strati della nostra popolazione, dal proletariato alla borghesia nazionale possono e devono formare un ampio fronte popolare contro l’oppressore straniero”. L’appello a formare un’alleanza fu rivolto a Grau e al suo Partito rivoluzionario autentico (di carattere borghese), il quale comunque respinse al mittente l’invito.
Batista e il Pcc
Dal 1937 in poi Batista, consigliato dal presidente degli Stati Uniti Roosevelt, concesse una certa apertura democratica ed introdusse un maggior controllo dello Stato sull’economia, specialmente sulla produzione di zucchero e tabacco. Improvvisamente il Pcc, che definiva Batista “traditore della nazione e servo dell’imperialismo”, si rese protagonista di un’ulteriore svolta di 180 gradi. “Batista aveva cominciato a non essere più il principale esponente della reazione” affermava Blas Roca nel luglio del 1938 e continuava: “l’esplosione rivoluzionaria che nel settembre del 1933 lo aveva indotto a ribellarsi al potere, non ha cessato di esercitare pressione su di lui”. Il governo di Batista aveva ricevuto da Roosvelt l’etichetta di “democratico”, e in quella congiuntura la burocrazia stalinista non voleva frapporre ostacoli alle sue relazioni economiche e politiche con il presidente nordamericano. Da quel momento i principali nemici di Cuba secondo il Pcc divennero i fascisti, non più Batista(!). Come attestato di riconoscenza da parte del dittatore, il Pcc fu legalizzato nel 1938.
Quando nel novembre del 1939 si celebrarono le elezioni per l’Assemblea costituente si confrontarono due coalizioni: Batista e i comunisti da una parte e il Pra di Grau e i radicali dell’Abc dall’altro. Vinsero questi ultimi e il Pcc ottenne il 10% circa dei voti. L’anno seguente in un’elezione non proprio limpida Batista fu eletto presidente. Nel 1942 due comunisti, Juan Marinello e Carlos Rafael Rodríguez, entrarono nel governo di Batista.
Nel corso di questo periodo il Pcc aveva cambiato nome assumendo quello di Partito socialista popolare, uno tra i partiti più a destra dell’Internazionale comunista. Il secondo congresso del Psp considerò opportuno salutare il presidente Batista con queste parole: “Desideriamo ribadire che potete contare sul nostro rispetto e sul nostro affetto e stima per i vostri princìpi di governante democratico e progressista”.
La critica all’imperialismo statunitense era ormai cosa del passato. Sostenendo l’inutilità delle nazionalizzazioni delle proprietà straniere, il Psp si proponeva “la collaborazione in un programma di economia espansiva che consentirebbe di pagare interessi ragionevoli per gli investimenti stranieri, principalmente inglesi e nordamericani”. I sindacati, nell’80% dei quali i comunisti avevano conquistato una posizione dirigente, pubblicarono un opuscolo intitolato La collaborazione tra imprenditori e operai.
Compiendo un’ulteriore capriola politica i dirigenti del Psp offrirono in seguito la loro collaborazione al nuovo presidente Grau San Martin, per essere da questi respinti e passare all’opposizione nel 1946. La reiterazione di svolte, vacillazioni e tradimenti da parte di dirigenti che si arrogavano il titolo di “eredi delle tradizioni dell’Ottobre” a Cuba, rappresenta un caso esemplare della disastrosa confusione che lo stalinismo provocò nell’insieme del movimento rivoluzionario dell’America latina. Il partito aveva un’influenza decisiva nel movimento operaio cubano, ma la sua direzione, in nome del comunismo e delle tradizioni dell’Ottobre, praticava la peggiore politica menscevica di collaborazione di classe. Questo tradimento non poteva che lasciare la sua impronta negativa sulla politica cubana.
A fronte della traiettoria politica del Psp possiamo immaginare quanto fosse difficile per i lavoratori e i contadini cubani comprendere le vere idee del comunismo e della tattica bolscevica. Le idee di Marx e di Lenin furono sepolte sotto montagne di terribili aberrazioni. Per tutta una generazione di giovani che entrarono in politica nel segno della lotta antimperialista lo zigzagare del Pcc provocava come minimo indifferenza, quando non fastidio o aperto rifiuto. Per molti i comunisti erano troppo pavidi e arrendevoli nei confronti dell’imperialismo americano, mentre per altri sui quali la nozione di comunismo e la rivoluzione d’Ottobre avrebbero potuto esercitare una potente attrazione, conoscerne l’autentico sviluppo e assimilarne le preziose lezioni era un compito quasi impossibile.
Julio Antonio Mella
È molto interessante confrontare la politica della direzione del Pcc descritta fino ad ora con quanto propugnava il suo segretario generale Julio Antonio Mella. Il suo assassinio in Messico nel 1929, troncò ogni possibilità che il partito adottasse una politica genuinamente leninista, chiaramente contrapposta alla politica stalinista di alleanza tra le classi. Citiamo alcuni paragrafi dei suoi scritti che non necessitano di ulteriore commento:
“[…] nella sua lotta contro l’imperialismo – il rapinatore straniero – la borghesia – ovvero il rapinatore nazionale – si unisce al proletariato, buona carne da cannone. Però ad un certo punto [i borghesi] capiscono che è meglio allearsi con l’imperialismo che in fondo persegue un interesse simile. Da progressisti si convertono in reazionari. Tradiscono le concessioni che facevano al proletariato per averlo dalla propria parte quando questo, nella sua avanzata, diventa un pericolo tanto per i rapinatori internazionali che per quelli nazionali”.
“I rivoluzionari d’America che aspirano ad abbattere le tirannie dei loro rispettivi paesi non possono disconoscere questa realtà; quelli che sembrano negarla lo fanno perché la loro ignoranza o la loro malafede gli impedisce di vederla. Non si può vivere con i princìpi del 1789. Nonostante la mente ritardata di qualcuno, l’umanità ha progredito e fare la rivoluzione in questo secolo vuol dire fare i conti con nuovi fattori: le idee socialiste in generale, che seppur con diverse sfumature sono radicate in tutti gli angoli del mondo”.
“La causa del proletariato è la causa nazionale. Esso rappresenta l’unica forza capace di lottare con possibilità di trionfo per gli ideali di libertà nell’epoca attuale. Quando il proletariato si solleva rabbioso come un nuovo Spartaco nelle campagne e nelle città, si solleva per lottare per gli ideali di tutto il popolo. Vuole distruggere il capitalismo straniero che è nemico della nazione. Vuole instaurare un regime di uomini del popolo, perché comprende che questa è l’unica garanzia di giustizia sociale […] Sa che la ricchezza nelle mani di pochi è la causa degli abusi e delle miserie, per questo pretende di socializzarla […].
“I comunisti aiuteranno, così come hanno aiutato finora – vedi il Messico, il Nicaragua, ecc. – i movimenti nazionali di emancipazione, anche se questi hanno una base borghese democratica. Nessuno nega questa necessità, a condizione che siano veramente movimenti di emancipazione e rivoluzionari. Ma qui mi soccorre quello che continua a consigliare Lenin al secondo Congresso dell’Internazionale: ‘L’Internazionale deve appoggiare i movimenti nazionali di liberazione […] nei paesi arretrati e nelle colonie, solamente a condizione che gli elementi dei futuri partiti proletari, comunisti non solo di nome, si raggruppino e si educhino nella coscienza dei propri differenti compiti, i compiti cioè di lotta contro i movimenti democratico borghesi nelle proprie nazioni. La I.C. deve marciare in alleanza temporanea con la democrazia borghese delle colonie e dei paesi arretrati, ma senza fondersi con questa e salvaguardando espressamente l’indipendenza del movimento proletario, anche sulle questioni più rudimentali”.
Mella riconosceva l’esistenza di due nazionalismi, quello borghese e quello rivoluzionario:
“Il primo vuole una nazione per far vivere la propria casta come un parassita sulle spalle del resto della società, cibandosi delle briciole che gli lascia il capitale sassone. L’altro vorrebbe una nazione libera per farla finita con i parassiti di casa propria e con gli invasori imperialisti, riconoscendo che il principale cittadino in tutta la società è quello che contribuisce ad elevarla con il proprio lavoro quotidiano, senza sfruttare i propri simili”.
Instabilità politica e miseria sociale
Tra il 1939 e il 1945 il Pil era raddoppiato, ma la borghesia cubana era incapace di elaborare un piano di sviluppo che liberasse l’economia dalla dipendenza dalla canna da zucchero, che costituiva l’80% delle esportazioni. In questo modo tutta l’economia era condizionata dalle fluttuazioni internazionali del prezzo di questa merce sul mercato mondiale. Dopo la seconda guerra mondiale Cuba avrebbe affrontato una nuova crisi. Le lotte politiche e l’instabilità economica minavano gravemente la “democrazia” cubana, mentre il gangsterismo diveniva pratica abituale, sostenuto direttamente dalla presidenza della Repubblica che sovvenzionava con 18.000 dollari al mese gruppi di azione squadristi con fondi nascosti nel bilancio sotto la voce “assegnazioni particolari”.
Nel 1947, denunziando la corruzione del governo Grau, il senatore Chibas e altri esponenti di primo piano dell’ala più nazionalista della borghesia fondarono il Partito del popolo cubano, più comunemente conosciuto come Partito ortodosso, al quale aderì il giovane universitario Fidel Castro.
Alcuni anni prima della rivoluzione Cuba era senza ombra di dubbio un paradiso per i ricchi turisti americani, ma era anche un inferno per la maggioranza della popolazione, nonostante fosse considerata una delle nazioni più benestanti di tutta l’America latina. Tra il 1950 ed il 1954 le entrate medie annuali pro capite dello stato più povero degli Stati Uniti, il Mississipi, ammontavano a 829 dollari, mentre a Cuba erano di 312 dollari, cioè pari a solo 6 dollari la settimana. Un quarto della popolazione era analfabeta e la percentuale di bambini che frequentavano la scuola era più bassa che negli anni ’20. Nel 1954 solo il 15% delle case in città e solo l’1% di quelle in campagna avevano un bagno. Allo stesso tempo a L’Avana circolavano più Cadillac che in qualsiasi altra città del mondo. Meno di 30.000 proprietari possedevano il 70% dei terreni agricoli, mentre il 78,5% dei contadini occupavano solo il 15% del totale. I terreni coltivati direttamente dai proprietari non arrivavano al 33% della superficie totale. Il latifondismo era ancora più evidente nella coltivazione della canna da zucchero, dove 22 grandi proprietari possedevano il 70% delle terre coltivabili.
“Il processo di disgregazione della classe contadina, su cui si era innestata la proprietà straniera, era arrivato a un punto tale che i rapporti capitalistici di proprietà erano ormai predominanti, mentre le forme di appropriazione fondiaria precapitalistica si erano ridotte a un settore del tutto marginale. D’altra parte, l’esistenza di un forte nucleo di proletariato agricolo conferma la forza di penetrazione del capitalismo nelle campagne cubane […]. Il proletariato agricolo cubano era ormai completamente distaccato dalla terra; esso era molto più portato a rivendicare, attraverso i suoi sindacati, dei miglioramenti sindacali e sociali che a chiedere l’accesso alla proprietà della terra”.
Gli abitanti di Cuba erano in quegli anni poco più di sei milioni. Nel 1957 i salariati agricoli erano 975.000, dei quali almeno un terzo non lavoravano più di 100 ore l’anno. Lo storico Hugh Thomas parla di “400.000 famiglie del proletariato urbano” negli anni ’50. Secondo questi dati la classe operaia urbana era pari al 20% della popolazione economicamente attiva. Se si aggiungono i proletari agricoli, gli impiegati statali, ecc., la maggioranza della popolazione lavoratrice cubana era costituita da salariati, in buona parte organizzati sindacalmente. Con questo peso nella società la classe operaia cubana era in condizioni di contendere il potere alla borghesia, e di giocare un ruolo da protagonista nel processo di distruzione del capitalismo, trascinando dietro di sé i contadini poveri e parte della classe media in rovina. Ma come abbiamo visto in precedenza, il Pcc non giocò lo stesso ruolo dei bolscevichi nel 1917, nonostante questi ultimi avessero affrontato rapporti di forza nella società molto più sfavorevoli.
Il colpo di stato di Batista e l’assalto alla Moncada
Si avvicinavano le elezioni del 1952 e con ogni probabilità avrebbero segnato il trionfo del Partito ortodosso, in quel momento alleato con i comunisti. La situazione rischiava di sfuggire di mano all’imperialismo nordamericano, così senza esitazioni in marzo dello stesso anno gli Usa appoggiarono il colpo di stato di Batista.
L’opposizione al golpe era molto forte tra gli studenti e gli intellettuali. Il 26 luglio del 1953 un gruppo di circa 120 giovani raccolti attorno a Fidel Castro assaltarono la caserma della Moncada, a Santiago de Cuba, con lo scopo di scatenare un movimento sociale che propiziasse la fine della dittatura.
Anche se terminò con la morte e la fucilazione della maggioranza dei suoi partecipanti e con l’incarcerazione dei sopravvissuti, tra i quali Fidel e suo fratello Raul, l’assalto ebbe una risonanza propagandistica enorme, e la figura di Fidel cominciò ad essere molto conosciuta. La forte campagna internazionale per la liberazione dei prigionieri della Moncada, coincise con la necessità per il regime di dare un’immagine di normalità. Ciò favorì due anni dopo la liberazione di Castro, che si recò in esilio in Messico e fondò il Movimento 26 Luglio (M26-J).
Nel 1956 Fidel rompe definitivamente con il Partito ortodosso. Il proclama che avrebbe dovuto essere letto dagli insorti una volta presa la stazione radio, se il piano non fosse fallito prima, recitava così: “La Rivoluzione dichiara la sua ferma intenzione di porre Cuba su un piano di benessere e di prosperità economica […]. La Rivoluzione dichiara il proprio rispetto dei lavoratori e l’instaurazione della totale e definitiva giustizia sociale, fondata sul progresso economico e industriale sotto un piano nazionale ben ideato e sincronizzato […]. La Rivoluzione riconosce e si basa sugli ideali di Martí […] e adotta come proprio il programma rivoluzionario della Joven Cuba, dei radicali Abc e del Ppc [gli ortodossi] […]. La Rivoluzione dichiara il proprio assoluto e riverente rispetto per la Costituzione data al popolo nel 1940 […]. In nome dei martiri, in nome dei sacri diritti della Patria […]”.
La rivendicata Costituzione del 1940 era piena di belle parole e niente più. Lo stesso Hugh Thomas, analizzando il programma della Moncada, commenta: “Tutte queste misure erano ben poco radicali e di per sé non avrebbero soddisfatto l’esigenza di un’indipendenza internazionale di Cuba; non si parlava di nazionalizzazione dell’industria dello zucchero, una misura che sarebbe stata certo giustificata dalla singolare struttura di tale industria e dal fatto che la nazione ne dipendeva in misura enorme, e che nel programma, per esempio, dei laburisti inglesi, sarebbe stata ai primi posti”.
Questo programma, confermato successivamente nel famoso discorso La storia mi assolverà, che Fidel Castro pronunciò durante il suo processo, sebbene rivelasse chiaramente la volontà di lotta per riforme profonde, non prevedeva la necessità di lottare per la trasformazione socialista della società.
L’ideale di Fidel, profondamente ispirato da Martí, era quello di un sviluppo prospero, socialmente giusto e indipendente di Cuba, ma senza che questo portasse alla rottura con il capitalismo né implicasse una politica di indipendenza di classe. La storia però non si ripete mai allo stesso modo. All’epoca di Martí la classe operaia poteva a malapena avere un ruolo politico indipendente. Mezzo secolo dopo la classe operaia aveva già acquisito un peso decisivo nella società e questo avrebbe avuto implicazioni nel futuro sviluppo del processo rivoluzionario cubano. La rivoluzione cubana fu una chiara conferma della teoria della rivoluzione permanente. Come scrisse il grande rivoluzionario russo Lev Trotskij ne La Rivoluzione Permanente riferendosi ai paesi a sviluppo borghese ritardato: “la soluzione integrale ed effettiva dei suoi fini democratici e della sua emancipazione nazionale può essere concepita unicamente attraverso la dittatura del proletariato”.
Jordi Rosich
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