Passannante


Giovanni Passannante nacque a Salvia di Lucania (poi rinominata Savoia di Lucania) il 18 febbraio 1849 da una poverissima famiglia costretta, come tantissime altre in quell'epoca, a vivere in condizioni d'estrema povertà.
Ultimo di dieci figli, quattro dei quali morti in tenera età, in paese era soprannominato "Cambio" ed aveva una mano storpia a causa di una scottatura nell'acqua bollente quando era ragazzino.
Le difficili condizioni economiche della famiglia lo costrinsero ad elemosinare sin da bambino. Desideroso di apprendere, poté frequentare solo la prima elementare e cercò di imparare a leggere e scrivere da sé. Da autodidatta le sue letture furono, oltre la Bibbia, i testi di Mazzini, Garibaldi e i giornali che raccontavano dell'Internazionale e della Comune di Parigi.
Svolse lavori occasionali per aiutare la famiglia, facendo il guardiano di pecore e il garzone. Per sfuggire la miseria si spostò poi in varie parti del meridione alla perenne ricerca di un lavoro. Si recò a Vietri, lavorando come sguattero, e poi a Potenza, trovando lavoro come lavapiatti presso l'albergo Croce di Savoia, dove a detta del proprietario venne licenziato per il suo carattere ribelle e perché passava troppo tempo a leggere libri e giornali, trascurando di dire che invece, in quattro mesi di lavoro, non l'aveva mai pagato.
A Potenza conobbe Giovanni Agoglia, ex capitano dell'esercito napoleonico anch'egli originario di Salvia, il quale, notato il suo interesse per gli studi, lo portò con sé a Salerno, assumendolo come domestico e assegnandogli un vitalizio per migliorare la sua istruzione.
Abbracciate le idee repubblicane, frequentò i circoli filomazziniani e conobbe Matteo Melillo, uno dei maggiori esponenti internazionalisti di Salerno.
La frequentazione di associazioni repubblicane gli procurò i primi problemi con la legge. Nella notte tra il 15 e il 16 maggio del 1870, due guardie di pubblica sicurezza lo trovarono che stava affiggendo proclami rivoluzionari. Passannante, infatti, venuto a conoscenza di un'imminente insurrezione in Calabria, stava tentando di incitare la popolazione salernitana a fare altrettanto.
I manifesti di Passannante erano un'invettiva contro i monarchi e i papi, inneggiando alla Repubblica, a Mazzini e Garibaldi. Venne per questo arrestato con l'accusa di sovversione. Aveva con sé una copia de Il Popolo d'Italia, giornale mazziniano, che gli fu sequestrata. Secondo la deposizione al processo di un inquilino che abitava nello stesso palazzo di Passannante, questi stava imparando il francese e progettava l'assassinio di Napoleone III, accusandolo di essere "la causa di impedimento all'attuazione della Repubblica Universale". Venne alla fine condannato e detenuto tre mesi.
Uscito di prigione e tenuto sotto sorveglianza dalla prefettura di Salerno, tornò brevemente presso la famiglia a Salvia, quindi ritornò a Salerno, lavorando come cuoco presso una fabbrica di tessuti. Si licenziò ed aprì un locale, La Trattoria del Popolo, dove spesso elargiva pasti gratuiti ai bisognosi.
Si iscrisse alla Società Operaia di Pellezzano, che lasciò per contrasti con gli amministratori, poi alla Società di Mutuo Soccorso degli Operai e grazie al suo attivismo i suoi membri passarono da 80 a 200.
Nel giugno 1878 si trasferì a Napoli, dove visse alla giornata cambiando diversi datori di lavoro e svolgendo soprattutto la professione di cuoco.
Entrò a far parte del Gruppo Libertario Repubblica Universale, nutrendo ben presto un odio profondo per i reali che sguazzavano nella ricchezza mentre la maggior parte delle persone viveva in condizioni miserevoli.
Infine, per richiamare l'attenzione sulle disastrose condizioni di vita degli italiani, decise di compiere un gesto estremo: attentare alla vita del re!
Giovanni non era uno sprovveduto nè tanto meno un pazzo, ma una persona che, ben consapevole di quel che si preparava a fare, sapeva il suo gesto non poteva che procacciargli la rovina.
Il suo voleva però essere non un atto criminale, bensì politico. Cresciuto nel mito della Repubblica Universale, il suo obiettivo era farsi processare in Senato (come previsto dallo Statuto Albertino) e creare un caso che portasse all’attenzione pubblica i problemi della Basilicata: una terra di miseria e povertà dove mancavano scuole, strade, ospedali e tribunali.
Il 16 novembre vendette la sua giacca per 8 soldi ed acquistò un temperino, poi scrisse su un fazzoletto rosso "A morte il re! Viva la Repubblica Universale".
Il 17 novembre 1878, mentre la carrozza di Umberto I di Savoia e la regina Margherita percorreva le strade di una Napoli festante accorsa a salutare i regali, Giovanni estrasse di tasca il fazzoletto rosso e con il piccolo coltellino dalla lama di 8 centimetri, si avventò sulla carrozza per colpire il re.
L'attentatore aveva compiuto il suo gesto con un coltellino "buono per tagliare qualche cucuzziello", come dichiarato poi al processo dal proprietario dal negozio ove Passannante aveva ottenuto l'arma barattandola con la sua giacca. Il tutto si risolse in un tempo così breve che le altre carrozze vicine a quella reale non dovettero mai fermare la loro marcia.
Passannante venne subito arrestato. La Gazzetta d'Italia così descrisse l'attentato:
"Quando il corteo reale dalla stazione stava recandosi a Palazzo Reale, a Porta Capuana, improvvisamente dalla folla un uomo di sinistro aspetto, brandendo una stoffa rossa e gridando "morte al re, viva la Repubblica universale, viva Orsini", tenta di accoltellare il re che riceve una scalfittura all'omero sinistro mentre la regina Margherita gli lancia sul volto il mazzo di fiori che aveva tra le mani. Il presidente del Consiglio, Benedetto Cairoli, che stava seduto di fronte al re, afferra l'attentatore che continuava a vibrare colpi e riceve una coltellata nella coscia".
L'attentato sconvolse il regno intero. Il giorno successivo, a Firenze, venne lanciata una bomba contro un corteo monarchico. Si attribuì la tragedia agli internazionalisti e vennero arrestati diversi esponenti, poi scarcerati per mancanza di prove. Uno di loro, Cesare Batacchi, verrà graziato solo il 14 maggio 1900.
A Pisa, un'altra bomba venne fatta esplodere durante una manifestazione a favore del re. Venne arrestato un tale Pietro Orsolini, che, nonostante diverse prove di innocenza, morì nel carcere di Lucca nel 1887.
La notte del 18 novembre venne assalita una caserma a Pesaro con un deposito di 5000 fucili, un internazionalista fu arrestato. Si registrarono sommosse in tutta la nazione e il governo, che temeva un complotto anarchico contro la corona, intervenne con un'opera di repressione. Vi furono scontri con le forze dell'ordine in città come Bologna, Genova, Pesaro e molte persone vennero arrestate al solo elogio verso l'attentatore o alla sola denigrazione nei confronti del re, come accadde a Torino, Città di Castello, Milano, Guglionesi, La Spezia e Bologna.
Il poeta Giovanni Pascoli, intervenendo in una riunione di aderenti ad ambienti socialisti a Bologna, diede pubblica lettura di una sua "Ode a Passannante". Subito dopo la lettura, Pascoli distrusse l'ode e di tale componimento si conosce solo il contenuto dei versi conclusivi, di cui è stata tramandata la parafrasi: "Con la berretta del cuoco, faremo una bandiera". Lo stesso Pascoli venne arrestato per aver manifestato a favore degli anarchici che erano stati a loro volta tratti in arresto per i disordini generati dalla condanna di Passannante. Durante il loro processo, il poeta urlò: "Se questi sono i malfattori, evviva i malfattori!".
La notizia dell'attentato fece il giro d'Europa. Alcuni organi di stampa (italiani e stranieri) condannarono l'attentatore rivolgendogli diverse accuse, persino prive di fondamento o puramente inventate. Il Republique Française di Parigi indicò la Chiesa e gli ex regnanti borbonici come mandanti del tentato regicidio; L'Arena di Verona e il Corriere della Sera di Milano lo definirono un brigante che, in passato, aveva ucciso una donna mentre, in una litografia pubblicata a Torino, venne riportato che il padre di Passannante era un camorrista. Il quotidiano La Stampa scrisse che Passannante era già stato rinchiuso in passato a Rocca d'Anfo e nel forte di Fenestrelle, descrivendolo come un "omiciattolo cachettico, smilzo, butterato dal vaiolo".
Altri giornali espressero opinioni differenti; il tedesco Koelnische Zeitung auspicò che l'attentato servisse come monito allo stato italiano per comprendere meglio i bisogni del ceto subalterno; l'inglese Daily News vide nel malcontento e nella miseria i fattori che spinsero l'anarchico ad armarsi, mentre il Satana di Cesena (che verrà soppresso con l'accusa di propaganda contro il re e le istituzioni) non lo considerò un assassino ma un "infelice affascinato" dei mali che turbarono la società del tempo. L'economista belga Émile de Laveleye vide nel gesto di Passannante un "avvertimento", un attentato non rivolto al re, ma alla monarchia, "non la monarchia come istituzione politica, ma come simbolo dell'ineguaglianza sociale".
Fu informato dell'accaduto anche Francesco II, sovrano del decaduto Regno delle Due Sicilie, in quel momento in esilio a Parigi. Francesco II deplorò l'attentatore, definendo la Basilicata "paesi cattivi: un nido di socialisti... di socialisti, non esattamente, più precisamente di comunisti partigiani!". Infine aggiunse: "la nostra vita è solo nelle mani di Dio e Dio non vuole che gli assassini riescano".
Anche Giuseppe Garibaldi seppe della notizia. Indirizzò una lettera al giornale Capitale in cui scrisse riguardo all'attentato che "Il malessere politico non è altro che una conseguenza dei pessimi governi e questi sono i veri creatori dell'assassinio e del regicidio" e nel 1880, in una lettera al repubblicano francese Félix Pyat, definì Passannante un "precursore dell'avvenire", una dichiarazione che suscitò molte polemiche.
La sera stessa dell'attentato, il Ministro dell'Interno Giuseppe Zanardelli informò tutte le prefetture del regno sull'accaduto. Il prefetto di Potenza ricevette l'ordine di perquisire l'abitazione dei parenti e degli amici di Passannante, inviando i carabinieri a Salvia. Nella casa dell'anarchico furono trovati una stampa de La Marsigliese e una copia del giornale La Nuova Basilicata datato 1871 contenente notizie sulla Comune di Parigi. Vennero perquisiti tutti i luoghi riconducibili all'attentatore, ma i carabinieri annotarono, nel loro rapporto, di non aver trovato nulla di criminoso.
Giovanni Parrella, sindaco di Salvia, il quale dovette prelevare denaro dalle casse comunali per affittare un abito adeguato per l'incontro, si recò a Napoli per porgere le sue scuse e chiedere perdono ad Umberto I. Fu in seguito ricevuto dai consiglieri del monarca che, per ottenere la clemenza, gli imposero il cambiamento di nome della città d'origine dell'anarchico, rinominandola nell'attuale Savoia di Lucania. Il sindaco accettò senza discutere e il comune cambiò toponimo con regio decreto il 3 luglio 1879. Nel 1913, il meridionalista Giustino Fortunato dirà: "Io non so rassegnarmi che un così bel nome sia andato capricciosamente cancellato!".
L'intera famiglia dell'attentatore fu dichiarata folle e suo fratello Giuseppe, dichiarato affetto da alienazione mentale, fu internato nel manicomio criminale di Aversa. Si seppe, in seguito che il fratello era solo malato di febbre palustre che, assieme ad una scarsa alimentazione, lo aveva reso anemico.
Secondo il direttore del manicomio, Gaspare Virgilio, le condizioni di salute dei genitori ebbero effetti degenerativi sui figli. Per Virgilio, Passannante era "semipazzo", "imbecille" e ritenne che "fosse la mano di un uomo non sano quella che si armò per immolare il figlio di colui che per antonomasia fu detto il Galantuomo".
Dopo una detenzione di alcuni mesi durante la quale si cercò inutilmente di provare un complotto con gli anarchici napoletani Schettino e Melillo, si celebrò il processo Passannante. Durò appena due giorni, il 6 e 7 marzo 1879, davanti a un pubblico elegante seduto in posti numerati e munito di binocolo per osservare meglio il “mostro”.
La difesa d'ufficio venne affidata all'avvocato Leopoldo Tarantini, il quale prima di assumere l'incarico chiese perdono al re per "l'ingrato compito". Il suo operato fu aspramente criticato: secondo Francesco Saverio Merlino, l'avvocato Tarantini fu "un secondo accusatore, che andò a prendere ordini a Roma prima di invocare per lui la clemenza reale"; per Galleani, Passannante venne "abbandonato al carnefice dal suo avvocato".
Si provò a far passare Giovanni Passannante per infermo di mente, ma la perizia di ben cinque luminari alla fine dimostrò la sua “finezza e forza di pensiero non comune”.
Cesare Lombroso instaurò una polemica con i periti convinto della pazzia dell'anarchico, anche se mai lo visitò personalmente.
Soggetto ad un lungo e violento interrogatorio, Passannante non si definì un internazionalista e si proclamò solo un sostenitore della Repubblica Universale. Disse di nutrire risentimento verso i liberali che parteciparono ai moti risorgimentali e che, a sua detta, tradirono poi i loro ideali per ricoprire ruoli importanti ed arricchirsi, oltre a lamentare l'elevata tassa sul macinato. Dichiarò di non aver nulla di personale con Umberto I, ma odio verso tutti i monarchi.
La designazione della giuria popolare per il processo fu oggetto di controversie e, anni dopo, l'anarchico Luigi Galleani dirà che la sua estrazione fu "un oltraggio alle norme e alle consuetudini giudiziarie".
I giurati comunque fecero il loro dovere e non ebbero alcuna pietà, condannando Giovanni alla pena capitale, nonostante il codice penale prevedesse la pena capitale solo in caso di regicidio.
Merlino riporterà anni dopo, nella sua opera "L'Italia quale è", la confessione di un magistrato, in cui si sosteneva come, benché quattro giurati avessero in realtà votato per l'assoluzione e cinque per le attenuanti, non venne concessa né l'una né l'altra. La sentenza capitale suscitò proteste e indignazione ed ovunque sorsero iniziative a favore di Passannante.
Alla fine il “re buono”, temendo che la condanna sproporzionata potesse accrescere le simpatie per l'attentatore, con Regio Decreto del 29 marzo 1879 trasformò “magnanimamente” la pena capitale in ergastolo da scontarsi a Portoferraio, sull'isola d'Elba.
Arrivato a Portoferraio, Passannante venne condotto nella prigione della Torre della Linguella, nota anche come Torre del Martello e poi ribattezzata dai marinai Torre Passannante perché da lì, uscendo ed entrando nel porto, udivano provenire i suoi lugubri e continui lamenti. Giovanni venne rinchiuso in una cella alta appena un metro e mezzo, buia, senza servizi igienici e posta sotto il livello del mare, legato ad una catena pesante 18 chili che gli consentiva a malapena di muoversi per un metro, in completo isolamento, senza poter ricevere visite e lettere.
Si ammalò presto di scorbuto, fu colpito dalla taenia, perse i peli del corpo, la pelle si scolorì, le palpebre si rovesciarono sugli occhi, le guance si vuotarono e si gonfiarono e, secondo alcune testimonianze, arrivò perfino a cibarsi dei propri escrementi.
In tutto il suo periodo di prigionia, Giovanni venne visitato solo dal deputato socialista Agostino Bertani e dalla pubblicista Anna Maria Mozzoni, i quali riferirono di essersi trovati di fronte ad uno "spettacolo agghiacciante".
Bertani poté vederlo solo attraverso lo spioncino e nel massimo silenzio, poiché il detenuto non doveva accorgersi della presenza di altre persone. Il politico rimase scioccato per la condizione in cui versava ed esclamò: "Questo non è un castigo, è una vendetta peggiore del patibolo".
Bertani e la Mozzoni denunciarono il trattamento di Passannante, suscitando un'enorme scandalo politico e mediatico:
"Passanante è rimasto seppellito vivo, nella più completa oscurità, in una fetida cella situata al di sotto del livello dell'acqua, e lì, sotto l'azione combinata dell'umidità e delle tenebre, il suo corpo perdette tutti i peli, si scolorì e gonfiò... Il guardiano che lo vigilava a vista aveva avuto l'ordine categorico di non rispondere mai alle sue domande, fossero state anche le più indispensabili e pressanti. Il signor Bertani poté scorgere quest'uomo, esile, ridotto pelle e ossa, gonfio, scolorito come la creta, costretto immobile sopra un lurido giaciglio, che emetteva rantoli e sollevava con le mani una grossa catena di 18 chili che non poteva più oltre sopportare a causa della debolezza estrema dei suoi reni. Il disgraziato emetteva di tanto in tanto un grido lacerante che i marinai dell'isola udivano, e rimanevano inorriditi" (Salvatore Merlino, L'Italia così com'è, 1891, in Al caffè, di Errico Malatesta, 1922).
L'allora ministro dell'Interno, Giovanni Nicotera, tentò di difendersi dicendo che il condannato era segregato in isolamento "anche per suo desiderio. Le visite erano state sconsigliate dal sanitario e sfuggite dal condannato; il cibo era quello prescritto dal medico".
La Mozzoni si rivolse direttamente ad Umberto I e gli inviò una lettera, esortandolo ad intervenire contro le violazioni della pena, ma non ricevette risposta.
E' significativo come il fascicolo carcerario di Giovanni Passannante, attualmente conservato in un magazzino di stoccaggio del ministero a Perugia, ancora oggi non sia consultabile al pubblico.
Alla fine, e solo dopo la visita di Bertani e Mozzoni, al prigioniero venne certificata una malattia mentale, con perizia psichiatrica condotta dagli stessi professori Serafino Biffi e Augusto Tamburini che lo avevano visitato dopo l'arresto giudicandolo sano di mente.
A Giovanni, dichiarato insano di mente dopo dieci anni di detenzione nella torre, nel 1889 venne alla fine concesso il trasferimento nel manicomio criminale di Montelupo Fiorentino, ma le sue condizioni psichiche e fisiche erano ormai irreversibili.
Non poté essere visitato da nessuno, eccetto che da pochi privilegiati. Nel suo ultimo periodo di vita, non diede mai segni di aggressività e, nonostante l'atroce detenzione, non si spense in lui l'ardore e la passione per la scrittura (anche se, qualche volta, gli venne l'impulso di distruggere i suoi quaderni).
Giovanni non si dichiarò mai pentito di ciò che aveva fatto. Gli venne permesso di coltivare un orticello, cosa che fece per circa tre anni prima di estirpare tutto. Rimase solo una pianta che venne chiamata "Il limone di Sor Giovanni".
Gravemente malato di scorbuto, quasi cieco e ormai completamente impazzito per le torture fisiche e psichiche subite, Giovanni morì a 60 anni, il 14 febbraio 1910.


Dopo la sua morte, il cadavere, in ossequio alle teorie dell'antropologia criminale dell'epoca, fu sottoposto ad autopsia e decapitato. Non si sa ancora chi abbia dato l'autorizzazione. Mentre del suo corpo non si hanno più notizie, il cervello e il cranio, immersi in una soluzione di cloruro e zinco, furono preservati nel manicomio di Montelupo Fiorentino per poi essere portati alla Scuola Superiore di Polizia associato al carcere giudiziario "Regina Coeli" di Roma.
Nel 1936 i suoi resti, assieme ai suoi blocchi di appunti, vennero trasferiti presso il Museo Criminologico dell'Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia di Roma, ove il cervello, immerso in formalina, venne conservato in una teca di vetro sigillato.
Nel 1982, il cervello fu oggetto di studi da parte del prof. Alvaro Marchiori dell'Istituto di Medicina Legale dell'università romana "La Sapienza". Il cervello e il cranio di Giovanni Passannante rimasero quindi esposti sino al 2007, con una targhetta impropria che lo definiva "criminale abituale", fino a quando un teatrante (Ulderico Pesce), un giornalista (Alessandro de Feo) e un cantante (Andrea Satta) testardi, idealisti e un po’ incoscienti dopo aver deciso di intraprendere una lunga battaglia per dare sepoltura ai resti di Giovanni Passannante, riuscirono ad ottenerne la rimozione.
Combattono la loro battaglia con tutti i mezzi: in teatro e nelle piazze, davanti a gente inconsapevole e compassionevole, nei ministeri, in situazioni grottesche, davanti a funzionari inconsapevoli e indifferenti.
Il 23 febbraio 1999, il ministro di Grazia e Giustizia, Oliviero Diliberto, firmò il nulla osta per la traslazione dei resti di Passannante da Roma a Savoia di Lucania, che avvenne solo otto anni dopo.
La sepoltura dei resti di Giovanni Passannante, dopo 71 anni di esposizione al Museo del Crimine di Roma, era prevista per il giorno 11 maggio 2007, in seguito ad una cerimonia funebre che si sarebbe dovuta tenere alle ore 11 circa del medesimo giorno nella chiesa madre di Savoia di Lucania.
La sepoltura venne però effettuata senza rito funebre il giorno precedente a quello stabilito, alla sola presenza del sindaco Rosina Ricciardi, di un giornalista del quotidiano "La Nuova del Sud" e di una sottosegretaria del presidente della regione Basilicata Vito De Filippo.
La decisione fu giustificata ufficialmente con problemi di ordine pubblico.
Il 2 giugno dello stesso anno si è tenuta una messa in suffragio del defunto, nella chiesa madre del paesino lucano.
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La storia di Giovanni Passannante è ora raccontata nel film “Passannante”, opera prima di Sergio Colabona, con Fabio Troiano, Ulderico Pesce, Andrea Satta, Alberto Gimignani, Luca Lionello, Roberto Citran, Bebo Storti, Ninni Bruschetta e Citto Maselli.
Il film, costruito come una docu-fiction, con un continuo alternarsi di passato e presente avvicina, in una sorta di parallelismo ideologico, i problemi dell’Italia appena unita a quelli di un Paese in decadenza.
Il regista Colabona ha così spiegato i motivi che l’hanno portato ad appassionarsi al protagonista: “l’obiettivo era raccontare la storia di un idealista che non ha mai abbassato la testa, vorrei che i miei figli guardassero il film pensando a un Paese che crede ancora negli ideali”. E Ulderico Pesce ha aggiunto: “avevo il desiderio di divulgare questa storia perché è educativa; Passannante è un eroe ed è importante ricordarlo soprattutto nell’Italia di oggi, dove a parlare sono i tronisti senza talento e dove tutto è corruzione e intrallazzo”.
La pellicola è stata attaccata dall'erede di casa Savoia, Emanuele Filiberto, e da alcuni sostenitori della dinastia. Il principe ha considerato il film "diseducativo per i giovani" mentre Alberto Casirati, presidente dell'Istituto della Reale Casa di Savoia, ha considerato aberrante definire “idealista” o “eroe” un aspirante assassino. Sergio Boschiero, segretario dell'Unione Monarchica Italiana, ha preso le difese dei reali d'Italia e sostiene che il film possa risvegliare odio.


La storia di Passannante è la storia di un idealista, che in nome del suo ideale ha sacrificato la vita. Si direbbe niente di eccezionale: la storia è piena di persone che danno la vita per un ideale. Ma la storia di Giovanni Passannante è molto di più. E porta a chiedersi: è cambiato molto dopo un secolo e mezzo di storia? Gli italiani hanno tutti gli stessi diritti? Esistono ancora gli ideali?
Suggestiva la celebre frase che Giovanni Passannante rivolse al suo avvocato Tarantini: "Un parente mio m’insegnò a leggere e scrivere. Perché? Perché è un mio diritto, ma nessuno me lo aveva mai detto".


Una giacca di velluto
per otto soldi hai venduto
per accattà quel coltello,
mezza lira, e fare lo sfregio
al re Umberto: primo di che?

Passannante ahi guaglione!
Prometeo del mondo cafone,
un mondo che a volte, con tue parole:
baratta pur’ anco l’onore
delle proprie figliuole


Madre Maria Fiore
mamma resa idiota
da fame e dolore,
pena e ancora dolore
per Giovanni fra tutti
il figlio migliore

Giovannino
in sella all’alfabeto e
di sghimbescio paladino,
cercando il drago
tu scopri il re, e quello
era nudo come te!

Uè guaglione
figlio plebeo
dal cuore di un signore
magari ci avevi pure ragione:
il re come nuvola
tra noi e il sole.

Poi arrivò la grazia
non più la morte
ma sepolto vivo
sotto una torre
e sotto il livello del mare,
dove brucia nel sale
la grazia regale.

Passannante mai pentito
di quel gesto contro l’oblio,
mite sguardo da fanciullino;
il Pascoli lo hai irretito
e il poeta mise sulla piaga
il dito.

Passannante no, nun chiagn’e cchiù
che lo re nun regnii cchiù
.

Carlo Ghirardato

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Avete visto il poverello
in qualche canto
cencioso e scalzo a stendervi il cappello
e in un suon di pianto
chiedervi un pane per i santi,
quel pane che ora manca a tanti?
Se lo avete visto io vi voglio dire
è tempo che finisca di soffrire
con lui ci armerem senza viltà
chiedendo al ricco pane e libertà.

Avete mai sentito l'artigiano
da mane a sera
batter la porta del padron villano
e con preghiera
chieder respinto un poco di lavoro
e s' che l'opra sua lo impingua d'oro?
Se lo avete udito io vi voglio dire
che il perfido padron s'avrà a pentire
allora che psiegheremo senza viltà
bandiera rossa gridando liberà.

E il contadin di tute le contrade
lo avete visto
languir per fame su le raccolte biade?
E al sere tristo
le riciole di quello che raccoglie
chiedere, per isfamarsi colla moglie?
Se lo avete visto io vi voglio dire
che si deve con lui vincere o morire
allora che insorgeremo senza viltà
per acquistarci pane e libertà.

C'è stato il Nazzareno un giorno ancora
che predicava
dell'uguaglianza prossima l'aurora,
ed insegnava
che i grandi vivono dei nostri sudori
che son dei beni comuni usurpatori.
Ed essi perchè questo egli ebbe a dire
barbaramente il fecero morire
ma ora chi soccombere dovrà
saran quei che ci negan libertà.

Tratto da Il canto Anarchico in Italia nell'Ottocento e nel Novecento, di S. Catanuto F. Schirone. Il testo di questo canto, attribuito dal popolo napoletano a Giovanni Passannante, venne pubblicato il 16 marzo 1879 su "Il Corriere del Mattino" di Napoli e poi ripreso e diffuso da fogli volanti distribuiti per le strade.

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