Dalla terra del vento


Grazie per le rose d'inverno
in un momento fiorite
e in un giorno appassite di nuovo,
sai qui la gente mi ama, la città, il suo candore,
il suo passo, il suo orgoglio e il suo nome...
Io sto qui nella terra del vento,
nella terra dei sogni sbiancati
e dormo con la mia porta aperta...

In qualche modo, da qualche parte,
molto lontano più a Ovest di qui,
ci sono giorni meno tersi di questi,
io non ho niente da ricordare a nessuno
se non che io e te ci troveremo qui,
nella strada bruciata dal sale,
in questo bel silenzio...

Sarà il nostro destino
che di noi non sa niente,
sarà, è la sua regola,
ma i ricordi sono pieni di nomi per niente
e ci fanno sentire lontani e sicuri.
Io sto qui,
nella terra del vento,
nella terra degli uomini...

Io sto qui.
E io ti aspetto qui Amore mio,
nella casa imbiancata di sale,
in questo bel silenzio...

Con delicada atención...


Rara la vita in due fatta di lievi gesti
e affetti di giornata, consistenti o no,
bisogna muoversi come ospiti, pieni di premure,
con delicata attenzione per non disturbare...
Ed è in certi sguardi che si vede l'infinito...

Stridono le auto come bisonti infuriati,
le strade sono praterie accanto a grattacieli assolati,
come possiamo tenere nascosta la nostra intesa?
Ed è in certi sguardi che s'intravede l'infinito...

Tutto l'universo obbedisce all'amore,
come puoi tenere nascosto un amore?
Ed è così che ci trattiene nelle sue catene:
tutto l'universo obbedisce all'amore...

Come possiamo tenere nascosta la nostra intesa?
Ed è in certi sguardi che si nasconde l'infinito...

Tutto l'universo obbedisce all'amore,
come puoi tenere nascosto un amore?
Ed è così che ci trattiene nelle sue catene:
tutto l'universo obbedisce all'amore...

La generazione dopo


Buona sera. In realtà ero venuto ad ascoltare, ma qui pare sia impossibile solo ascoltare. Io non voglio diventare Presidente del Consiglio, è tardi. Io avevo trent’anni, vent’anni fa. Il mio tempo è finito, le cose che volevo fare ho provato a farle. Avevo trent’anni, molte idee, molta volontà, molta rabbia. Sono uno dei responsabili del mondo che c’è là fuori. Devo ascoltare e basta. Dato che Matteo mi costringe a parlare, vorrei dire l’unica cosa che potrebbe essere utile, forse. Un ripasso di alcuni errori che abbiamo fatto noi, non fateli più voi. O almeno, gli errori che ho capito, perché ne ho commessi sicuramente, io e altri, che non abbiamo capito. Ma alcuni li ho capiti.
Uno è che noi ci siamo sempre mossi partendo dall’idea di lavorare in difesa dei deboli, degli emarginati, di quelli che non avevano voce, di quelli che erano vittime delle ingiustizie. Questo è uno splendido punto di partenza. E ogni volta che lo vedo perso, negli interventi che ho sentito, qualcosa mi dà fastidio. Ma voglio anche dire questo, che noi con l’alibi di questo e in nome di questo, abbiamo soprattutto allestito un sistema di tutele, di privilegi e di difese, di una zona un po’ scura e impenetrabile di questo paese, che sembrerebbe tristemente tenuta insieme soprattutto dalla mediocrità e da una certa vocazione al servilismo.
Non so come è accaduto questo, ma è accaduto. Non cambiate punto di partenza, è giusto, ma non arrivate a questo risultato.
Se cerco di capire dove è che abbiamo sbagliato, forse un punto vagamente mi è più chiaro. Pensavamo, della tutela dei deboli, che potessimo ottenerla solo bloccando in qualche modo il sistema, su una rete di diritti e di tutele ben stabile. Io come altri, oggi sappiamo che la cosa migliore che puoi fare per i più deboli, è concedergli un sistema dinamico, non un sistema bloccato. Non è vero che il rischio colpisce il debole, il rischio è una chance per il debole. Un sistema bloccato, blocca un paese, blocca la crescita, blocca l’entusiasmo, la speranza e le opzioni di rivalsa. Blocca la mobilità sociale, blocca la capacità, è un sistema asfittico. E il ricco patisce dell’asfissia, ma mica tanto. Il povero muore di asfissia.
Un altro errore che abbiamo commesso, non sapevamo pronunciare le parole che erano i nomi delle cose. Faccio un esempio: sapevamo che era meglio che a dirigere le cose fossero i migliori, ma non siamo mai riusciti a pronunciare la parola meritocrazia, perché brutta. Ma questo è il meno, non c’è mai venuta in mente un’altra parola, e quindi quella cosa non l’abbiamo fatta.
Credevamo che la scuola servisse a edificare uguaglianza, e sapevamo anche che dalla scuola dovevano venire fuori quelli che dovevano prendere decisioni in questo paese. Ma c’è una parola che non siamo riusciti a dire: classe dirigente. Non abbiamo trovato un’altra parola e non trovare una parola per una cosa, significa non farla.
Una delle esperienze che io ho raccolto qui spesso e che è mia personale, e che è una delle cose che deprimono questo paese è che quando tu poi ti ritrovi davanti a colui che decide, che fosse all’ufficio delle poste o al teatro lirico (perché devi lavorare) o al partito, tu ti trovi in fondo davanti a qualcuno a cui manca una scuola. Non sai perché è finito lì, ma certamente nessuno si è occupato di fare di lui una classe dirigente.
Un altro errore che abbiamo fatto è che per anni abbiamo mosso per secondi. Sono anni. La mia generazione ha giocato con i neri per tutta la vita; gli altri muovevano, noi rispondevamo. Io ho cercato mezza vita di non morire democristiano, e l’altra metà a cercare di non morire berlusconiano. Ma vi pare che è una vita? E la nostra partita? Quella che aprivamo noi? Quella in cui noi avevamo i bianchi e facevamo la prima mossa?
Non attardatevi ad aspettare che muova prima l’altro. Nel partito, nella vostra scuola, nella vostra famiglia. Muovetevi per primi, perché chi muove per secondo diventa costituzionalmente conservativo. Chi muove per secondo vuole fare la patta. E’ molto difficile che pensi di vincere. La cosa migliore che può fare è stoppare la partita. E noi, la mia generazione, è diventata conservativa. La sinistra in cui io sono cresciuto, oggi è ciò che di più conservativo c’è in questo paese.
Sapete perché muovevamo sempre per secondi? Sapete perché seduti al tavolo dicevamo: noi i neri grazie? Perché avevamo paura di perdere.
Guardate, ve lo dico proprio sinceramente. Io sono cresciuto in una sinistra che ha cercato di vincere a tavolino quasi tutte le partite. Non giocandole: a tavolino. E’ stato un po’ frustrante, ci siamo anche abituati a questa cosa che quando vince l’altro è perché ha barato. Sempre. Ma è possibile? Possibile che tutte le volte che vince bara? Ma oh! Statisticamente è impossibile, ogni tanto vince perché è più bravo sant’Iddio. Ma se è il nero, hai un po’ l’alibi. Avevamo, non so perché, avevamo molta paura di perdere, e quindi di rischiare. Se non c’è rischio, non vinci mai. Noi abbiamo rischiato molto poco. Ci sono alcune battaglie che io ho fatto con altri, io le ho fatte in un contesto che conoscevo meglio, che è il contesto della cultura, dei soldi per la cultura, di come noi decidiamo di gestire le risorse culturali di questo paese. Le risorse economiche applicate alla cultura di questo paese.
Adesso riguardo queste battaglie e ci vedo una lentezza. Ed è per questo che sono qui, perché voi mi sembrate più veloci. Volevo farmi una bella serata finalmente. C’era molta lentezza e se cerco di leggere dentro quella lentezza, non ci veniva mai in mente di saltare un passaggio, o due, addirittura tre o quattro passaggi. Io ho cercato di convincere della gente, sulla necessità di cambiare le cose, che neanche in una vita gliel’avresti cambiata questa testa, e mai mi era venuto in mente che quella gente non era da convincere, era da superare. Per cui, la paura di perdere e l’incapacità di rischiare l’abbiamo avuta già noi. Adesso voi potete andare tranquilli. Non abbiate mai paura di perdere, perché oltretutto porta anche un po’ sfiga. Grazie.

Alessandro Baricco

Metafore & Metamorfosi (dicembre)

CHRISTMARX


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HERI ET HODIE


LA IGLESIA QUE AMO

Pocas catedrales de canto y oro,
muchas capillas de barro y tabla.
Pocos ricos adiestrados a la indiferencia,
muchos pobres expertos en pasión compartida.
Pocos letrados calculadores y prudentes,
muchos sencillos que saben de fe y de esperanza.
Pocos doctores muy seguros de su doctrina,
muchos testigos que escuchan de verdad.
Poco poder de fariseos y sacerdotes de carrera,
mucho servicio humilde a los hermanos más pequeños.
Pocos proyectos de dólares y marcos,
muchas mingas de sudor y canto.
Pocas ceremonias en palacios y cuarteles,
muchas fiestas en aldeas y barrios marginales.
Pocas bendiciones de armas, bancos y gobiernos,
muchas marchas de paz, justicia y libertad.
Poco temor al Dios del castigo y de la muerte,
mucho respeto al Dios del amor y de la vida.
Poco culto de espaldas al pueblo
a Cristo rey eterno en las alturas;
Mucho amor y seguimiento a Jesús el de María,
Compañero, Profeta, Hijo del Padre.
Poco, cada vez menos,
mucho, cada vez más.

Don Ronaldo Muñoz

* * * * * *

LA CHIESA CHE AMO

Poche cattedrali di canti e oro,
molte cappelle di fango ed assi.
Pochi ricchi abituatuati all’indifferenza,
molti poveri esperti in passione condivisa.
Pochi letterati calcolatori e prudenti,
molti semplici che sanno di fede e di speranza.
Pochi dottori molto sicuri della loro dottrina,
molti testimoni che ascoltano la verità.
Poco potere di farisei e sacerdoti di carriera,
molto servizio umile ai fratelli più piccoli.
Pochi progetti di dollari e marchi,
molti lavoretti di sudore e canto.
Poche cerimonie in palazzi e caserme,
molte feste in villaggi e quartieri marginali.
Poche benedizioni di armi, banche e governi,
molte marce per la pace, la giustizia e la libertà.
Poco timore del Dio del castigo e della morte,
molto rispetto per il Dio dell’amore e della vita.
Poco culto di spalle al popolo
al Cristo re eterno nell’alto dei cieli.
Molto amore e fedeltà al Gesù di Maria,
Compagno, Profeta, Figlio del Padre.
Poco, sempre meno,
molto, sempre più.

Don Ronaldo Muñoz
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TRA ABETI E COMETE...


Oggi è tempo d'incendi, organizziamo presepi,
dalle stelle tu scendi e ci senti e ci vedi
addormentati in panchina o indaffarati a far niente,
ed il freddo che arriva, ci brucia e ci spegne.
Non c'è nessun segreto, nessuna novità,
non c'è nessun mistero, nessuna natività,
Io ti regalo una foglia da masticare col pane
e tu una busta di vino per passare la fame.
Sior capitano aiutaci ad attraversare
questo mare contro mano...
Sior capitano, da destra o da sinistra non veniamo
e questa notte non abbiamo...
Governo e parlamento non abbiamo e ragione,
ragione o sentimento non conosciamo
e quando capita ci arrangiamo,
e ci arrangiamo con documenti di seconda mano.
Con documenti di seconda mano...

Oggi è tempo d'attesa, organizziamo qualcosa
mentre balla sul marciapiede, la vita in rosa
che ci guarda e sorride e non ci tocca mai.
Ultimi di tutto il mondo, piccoli fiammiferai,
non c'è nessun perdono in tutta questa pietà,
non c'è nessun calore, nessuna elettricità...
E oggi parlano i cani per sentirsi più buoni,
intorno al nostro fuoco cantano canzoni.
Sior capitano aiutaci a attraversare
questo mare contro mano...
Sior capitano, da destra o da sinistra non veniamo
e questa notte non abbiamo...
Governo e parlamento non abbiamo e ragione,
ragione o sentimento non conosciamo,
e quando capita ci arrangiamo,
e ci arrangiamo con documenti di seconda mano.
Con documenti di seconda mano...
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PRESEPE VIVENTE

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IT'S CHRISTMAS!

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METAMORFOSI


Susanna Camusso e Paolo Nespoli
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METAFORE

Quanto al demonio, si tratta d'un titolo: è demonio chi ha il comando. Ma poiché l'inferno è un mondo d'invidia e di rivalità — il mondo della politica, in una parola — nessuno dura in quel posto perché è un eterno cospirare di tutti contro tutti. Sicché demonio non è qui un essere determinato, ma diversi individui che si odiano. La loro vita è terribile, ma più sopportabile del detestato paradiso. E tutto questo è descritto [nella Divina Commedia di Dante Alighieri] con ogni particolare: l'inferno, per esempio, con paludi, taverne, postriboli, e soprattutto quel continuo tramare e cospirare.

Ultime conversazioni, Jorge Luis Borges

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Per me non c'è dubbio che, se scegliessimo i nostri governanti sulla base della loro esperienza di lettori e non sulla base dei loro programmi politici, ci sarebbe assai meno sofferenza sulla terra. Credo che a un potenziale padrone dei nostri destini si dovrebbe domandare, prima d'ogni altra cosa, non già quali siano le sue idee in fatto di politica estera, bensì che cosa ne pensi di Dostoevskij, Dickens, Stendhal. Già per il fatto che il pane quotidiano della letteratura è proprio l'umana diversità e perversità, la letteratura si rivela un antidoto sicuro contro tutti i tentativi — già noti o ancora da inventare — di dare una soluzione totalitaria, di massa, ai problemi dell'esistenza umana.

Discorso per il Premio Nobel, Iosif Brodskij
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Avete la tracotanza di trasformare certi servitori dello stato in spie degli animi, in gente onnisciente, in filosofi, teologi, politici, in oracoli di Delfi. Vera tracotanza è attribuire a certi individui la perfezione della specie, credere che le vostre istituzioni di Stato siano abbastanza potenti da mutare un debole mortale, un funzionario, in un santo, e rendergli possibile l'impossibile.

Scritti e lettere, Karl Marx

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ПОЛИТИЧЕСКИЕ БЮРО

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√OYAGER: AL SERVIZIO DELLE FORZE OSCURE

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OPUS DEI

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NOSTRA SIGNORA DELLE LACRIME


Le lacrime ci sono state. Ora aspettiamo il sangue.
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...TALKIN' TO ME!?

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I. M.


Il 71% della popolazione si trova al di sotto del livello minimo di lettura e comprensione di un testo scritto in italiano di media difficoltà. Il 5% non è neppure in grado di decifrare lettere e cifre, un altro 33% sa leggere, ma riesce a decifrare solo testi di primo livello su una scala di cinque ed è a forte rischio di regressione nell'analfabetismo, un ulteriore 33% si ferma a testi di secondo livello. Non più del 20% possiede le competenze minime per orientarsi e risolvere, attraverso l'uso appropriato della lingua italiana, situazioni complesse e problemi della vita sociale quotidiana. Ce lo dicono due recenti studi internazionali, ma qui da noi nessuno sembra voler sentire.

Tullio De Mauro
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FASE 1...


Hann' fatto 'a finanziaria c'avimma a sacrifica',
loro s'hanno accapputtato e nuje mo' l'amma aiuta',
so' quaranta finanziarie ca nuje ce sacrificammo
e te dico vai sicuro ca nun è fernuta ccà, uè...
Hann' fatto 'a finanziaria c'avimma a sacrifica',
loro s'hanno accapputtato e nuje mò l'amma aiuta', uè...

Casa, lavoro, pensioni, ospedali, ma che ce n'avimma fa'?
Aiutammo 'e padruni nun perdimmo tiempo, che d'è st'università?
E allora sient' a n'amico io l'aiuto 'o veramente,
'o ssaje 'o ffaccio ma a te te saccio,
tu ir' chillu ca' poco tiempo fa
lanciasti la moda della grande scalata sociale,
un uomo che si fa da sé ma 'o fa
che 'e sorde 'e l'ate ca primma s'aveva arrubbato,
mo t'hanno sgamato e qual'è la soluzione?
E' la finanziaria!
Coi tagli per casa, lavoro e pensioni,
ma sti denare sì proprio tu ca l'ea caccia',
l'ea fa ascì 'a tutte 'e club 'e Forza Italia.

Quello che ci circonda è un intreccio bestiale
tra fascismo e livello subliminale,
un balletto violento e surreale
con noi in mezzo come agnello sacrificale...
Quello che ci circonda è un intreccio bestiale
tra fascismo e livello subliminale,
un balletto violento e surreale
con noi in mezzo come agnello sacrificale...

Pecché 'a parta mia do' munno sti denare nun l'ha maje viste
e 'a finale int'e' tiggì simmo nuje 'e terroristi,
mi sorride l'idea e' te fa vivere int' 'o terrore
a te che int'a dieci anni m'è struppiato, e fatto i danni
dal prete all'assessore passano po' sbirro e 'o prufessore...
mi sorride l'idea e te fa viver int' o' terrore
ma la bomba non la so fare, non so ancora sparare,
ma sono come l'a-team e caccio il mio piano geniale,
ti vomito in faccia una storia di merda
realmente vissuta da me,
e non ti meravigliare se non avrai niente perché
mi hai disturbato proprio tu,
hai fatto tanto male al nostro amato zulù.

Acchiappa 'o nonno, acchiappa 'o nonno che sta carenno
e sì cade e se fa male cu' qua sorde o' curamm'?
Pecché oggi 'a medicina è nu status symbol
nun si' buono si nun tiene dint'a sacca 'o bronchenol,
l'hanno chiuso dint'a cella poveriello a De Lorenzo
nun sta' bbuono, è dimagrito, nisciuno cchiù o pensa,
e cche fa si isso magnava 'n coppe 'e muorte int'a gli ospedali,
isso nun è brigatista comme Prospero Gallinari
e chi ha avuto ha avuto ha avuto, e chi ha dato ha dato a vita
scurdammece 'o passato simmo e Napule paisà!
Mò nun ce stanno cchiù 'e pensioni, nun ce sta manco 'a fatica'
e di conseguenza nun ce stanno medici a pava'...

Hann' fatto 'a finanziaria c'avimma a sacrifica',
loro s'hanno accapputtato e nuje mò l'amma aiuta',
so' quaranta finanziarie ca nuje ce sacrificammo
e te dico vai sicuro ca nun è fernuta cca'...

Quello che ci circonda è un intreccio bestiale
tra fascismo e livello subliminale,
un balletto violento e surreale
e noi in mezzo come agnello sacrificale.

Hann' fatto 'a finanziaria c'avimma a sacrifica'
loro s'hanno accapputtato e nuje mò l'amma aiuta',
so' quaranta finanziarie ca nuje ce sacrificammo
e te dico vai sicuro ca nun è fernuta cca'...

Quello che ci circonda è un intreccio bestiale
tra fascismo e livello subliminale,
un balletto violento e surreale
e noi in mezzo come agnello sacrificale.

Hann' fatto 'a finanziaria c'avimma a sacrifica',
loro s'hanno accapputtato e nuje mò l'amma aiuta',
so' quaranta finanziarie ca nuje ce sacrificammo
e te dico vai sicuro ca nun è fernuta cca'...

'A finanziaria!
'A finanziaria!
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FORCHE E FORCONI


Notte scura, c'è una tetra atmosfera,
niente spumante... solo barbera.
C'è chi festeggia perché Lui è andato via
ma non si accorge di una nuova bugia...
Sale lo spread con Tremonti
e ci rifilano Monti!

Tra sobrie manovre di lacrime e sangue
lui taglia ed il popolo langue.
La colpa è anche della gente
che abbocca acriticamente
a chiunque la lasci in mutande,
a chiunque le chieda fiducia,
immemore del passato,
e mentre attenda la cura
è già strangolato!

Si l'hannu 'mparatu, 'sti sdisanurati
pari ca nasceru 'nsignati!
Nni sucanu tuttu 'u sanngu
e chiancinu mentri 'u fannu
'sti gran curnuti e pezz'i fanngu!

'Nni lassanu a diunu...
tri gghiorna e già faciru dannu!
Megghiu ammucciàrisi 'u culu
'nna stannu 'nculannu!


Hanno ben imparato, questi filibustieri
come se fossero nati insegnati!
Ci succhiano via tutto il sangue
e si commuovono mentre lo fanno
'sti gran cornuti e pezzi di fango!

Ci tengono digiuni...
Tre giorni e già hanno fatto un disastro!
Meglio pararsi il culo
che ci stanno inculando!

Figghiu miu - Figlio mio
'a pinsione finiu! - è finita la pensione
Comu campamu? - Come faremo a sopravvivere?
Sta finennu a schifiu! - Qui finisce male!

Comunque vada, siamo in mezzo a una strada
senza una lira, che bell'aria che tira!

Spunta la luna dal monte
vieni a dormir sotto il ponte!
Dalla Sicilia al Piemonte
tutti a dormir sotto il ponte!

Si l'hannu 'mparatu, 'sti sdisanurati
pari ca nasceru 'nsignati!
Nni sucanu tuttu 'u sanngu
e chiancinu mentri 'u fannu
'sti gran curnuti e pezz'i fanngu!

'Nni lassanu a diunu...
tri gghiorna e già faciru dannu!
Megghiu ammucciàrisi 'u culu
'nna stannu 'nculannu!


Tra monti di merda e colli di fango
l'Italia si sta alluvionando!
E' colpa anche della gente
se non resterà più niente!
La fossa ci stiamo scavando!
Noi non saremo egiziani,
magari sembriamo coglioni,
ma con gli ultimi soldi che abbiamo
compreremo i forconi!!!

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MERRY CRISIS!


Iceland Revolution


Perché i governi pompano denaro in banche private? Perché non le lasciano fallire?

Birgitta Jónsdóttir


Nelle temperie politico-economica del momento, tra speculazioni e Borse sull’orlo della crisi isterica e governi che annaspano di fronte alle bizze dei mercati, non può che destare impressione la rivoluzione dal basso avvenuta in Islanda: governo costretto alle dimissioni, banche nazionalizzate, banchieri arrestati, democrazia popolare.
Tutto inizia nel 2001. È allora che il governo islandese inizia a privatizzare il settore bancario. La mossa avrà la sua conclusione due anni dopo, nel 2003. Le tre banche principali - Landbankinn, Kapthing e Glitnir - offrono alti interessi attraverso un programma presso un fondo offshore chiamato IceSave. I soldi iniziano ad arrivare, specie da Inghilterra e Olanda. Tramite la riserva frazionaria, IceSave crea miliardi di discutibili nuovi prestiti cominciando ad investire in società europee, specialmente in Russia. Tra il 2002 e il 2008 la Borsa islandese sale del 900 per cento, il prodotto interno lordo cresce del 5.5 per cento l'anno. Ritmi impossibili per qualunque altro Paese occidentale. Ma crescono anche i debiti delle banche: nel 2007 arrivano al 900% del PIL islandese. Ed è a quel punto, nel 2008, che il geyser della crisi economica esplode. I banchieri privati avevano creato un'enorme bolla finanziaria.
Gli investitori stranieri chiedono alle banche di rendere loro il denaro. Il governo non ha le risorse per salvarle, e così finiscono in bancarotta. Per gli islandesi si tratta di un danno enorme: il governo è costretto a nazionalizzare gli istituti bancari e a promettere che i cittadini non perderanno gli investimenti in denaro, ma il valore di molti altri investimenti crolla in modo verticale. La Corona perde l'85% del suo valore di cambio sull'euro. Alla fine del 2008 il governo islandese si dichiara insolvente. La moneta crolla e la Borsa sospende tutte le attività: è la bancarotta.
Di fronte alle enormi pressioni politiche interne, i governi britannico ed olandese garantiscono i conti IceSave dei loro cittadini, cercando poi di forzare l'Islanda a ripagarli, a condizioni che finiscono per incrinare la piccola e fragile economia islandese. E' infatti richiesta oltre la metà dell'imposta sul reddito dell'intera nazione solo per pagare gli interessi su questo particolare debito. Ciò finirebbe per trasformare l'Islanda, da una delle nazioni più sviluppate al mondo per rapporto abitanti-reddito-Pil, in una nazione che spende quasi tutto il suo Pil per pagare interessi su prestiti esteri.
Non solo. Molti islandesi si rendono conto presto che anche il capitale dei loro mutui era indicizzato all'inflazione, vedendosi così raddoppiare il proprio debito e triplicare l'importo delle rate.
È a quel punto che la rabbia popolare esplode! E' l'alba della rivoluzione islandese.
I cittadini islandesi scendono in piazza. Non per un giorno o due, ma per 14 settimane! Cingono d'assedio il Parlamento, chiedendo una sola cosa: le dimissioni di un governo, quello conservatore di Geir Haarde, dimostratosi incapace di gestire la crisi e di sbattere la porta in faccia agli organismi internazionali che chiedevano a tutti i cittadini di pagare le colpe di altri.
Il culmine della protesta si raggiunge il 20 gennaio 2009. Mentre a Washington l'America saluta l'entrata in carica del suo primo presidente di colore, a Reykjavik la popolazione segue le parole di un altro uomo dal carisma innegabile. Si chiama Hordur Torfason, di mestiere fa il cantautore.
Torfason mette in scena una protesta solitaria nell'ottobre 2008, all'esplodere della crisi. Nel corso delle settimane diventa un punto di riferimento. Il 20 gennaio è in piazza mentre la popolazione si scontra con la polizia, ed è ancora lì anche il 21, e il 22. Il 23 gennaio il premier annuncia le dimissioni. La gente non se ne va: non ancora. Chiede elezioni immediate e una scena politica nuova. Il 26 gennaio Haarde se ne va. Il 1 febbraio l'Islanda ha una nuova premier. E anche questa è una rivoluzione.
Il nuovo primo ministro si chiama Johanna Sigurdadottir, ha 58 anni. È la prima donna premier dell'Islanda. A metà degli ani '90, quando non venne eletta alla guida del suo partito, urlò: "Minn timi mun koma!", "Verrà il mio momento". Quelle parole sono entrate nell'uso comune, in Islanda. E Johanna ha visto realizzarsi la sua profezia.
Il suo primo passo è di indire le elezioni: le vince. Il secondo, però, è quello di confermare la volontà di pagare i debiti a Olanda e Inghilterra.
Il governo, infatti, fa quello che tutti i governi fanno in casi simili: bussa alle porte del fondo Monetario Internazionale e dell'Unione Europea. Sembra l'unico modo per ripagare i debiti nei confronti degli investitori inglesi e olandesi, che ammontano a 3,5 miliardi di euro. È il gennaio 2009. Per trovare i soldi necessari, il governo studia un prelievo straordinario: ogni cittadino islandese avrebbe dovuto pagare 100 euro al mese per 15 anni, a un tasso di interesse del 5,5% annuo. E il parlamento dà vita a una norma di legge che contiene la supertassa.
E' una spada di Damocle, una ghigliottina a cui i cittadini non intendono sottoporsi: le piazze tornano a riempirsi, il popolo chiede a gran voce di sottoporre a Referendum il provvedimento.
È il febbraio 2010 quando il presidente Grimsson, ascoltando la voce della piazza, si rifiuta di ratificare la legge e indice un referendum. La pressione sull'Islanda è alle stelle. Olanda e Inghilterra minacciano di isolare l'Islanda, se sceglierà di non ripagare i debiti. Il Fondo Monetario Internazionale lega alla decisione il versamento degli aiuti. "Ci dissero che se non avessimo accettato le condizioni della comunità internazionale saremmo diventati la Cuba del Nord", ricorda Grimsson. "Ma se le avessimo accettate saremmo diventati la Haiti del Nord".
Il referendum si tiene a marzo 2010: il 93% dei votanti decide di rischiare di diventare la Cuba del Nord. Il Fondo Monetario congela immediatamente gli aiuti. Il governo risponde mettendo sotto inchiesta i banchieri e i top manager responsabili della crisi finanziaria. L'Interpol emette un mandato di arresto internazionale per l'ex presidente della banca Kaupthing, Einarsson, mentre altri banchieri implicati nel crac fuggono dal Paese. Può essere l'inizio della fine dell'Islanda, vista come un paria a livello internazionale e alle prese con una rivolta continua. Invece è l'inizio della rinascita.
Viene eletta un’Assemblea per redigere una Nuova Costituzione. Un compito che viene affidato al popolo islandese: vengono eletti legalmente 25 cittadini tra i 522 che si sono presentati alle votazioni. Gli unici tre vincoli per la candidatura sono la maggiore età, disporre delle firme di almeno 30 sostenitori e sopratutto non aver alcuna affiliazione politica.
La rivoluzionaria Assemblea Costituzionale inizia così il suo lavoro e presenta una Magna Carta in cui confluiscono le idee elaborate nel corso delle diverse assemblee popolari che hanno avuto luogo in tutto il Paese. La Magna Carta ora dovrà essere sottoposta all’approvazione del Parlamento immediatamente dopo le prossime elezioni legislative.
Ma non finisce qui. Dopo questa eccezionale lezione di civiltà, democrazia diretta e sovranità popolare, gli islandesi stanno lavorando anche ad un altro strumento “rivoluzionario”, l’ ”Icelandic Modern Media Initiative”, un progetto finalizzato alla costruzione di una cornice legale per la protezione della libertà di informazione e d’espressione. L’obiettivo è la creazione di un ambiente sicuro per il giornalismo investigativo, una sorta di “paradiso legale” per le fonti, i giornalisti e gli internet provider che divulgano informazioni giornalistiche.
La Rivoluzione islandese costituisce l'esempio concreto di come i cittadini, prendendo in pugno la situazione, possano riscrivere da zero le leggi del vivere comune imponendo nuove regole al "dissoluto" mondo finanziario. La classe dirigente che aveva portato il paese nel baratro è stata definitivamente allontanata e il popolo sovrano ha posto le basi per un futuro veramente democratico. E' comprensibile che nessuno dei nostrani organi d’informazione principali ne parli, né i quotidiani più importanti nè tanto meno le televisioni. L’opinione pubblica europea, infatti, potrebbe essere "stimolata" a fare altrettanto. O peggio.

* L'Islanda può andare orgogliosa del suo patrimonio democratico. Il suo parlamento (il Thingvellir, dal nome del luogo sacro dove si riuniva annualmente) ha oltre mille anni di storia ed è il più antico in Europa.



I don´t have to be in Greece, Spain, Portugal or any other country to understand what is really going on there. I am very sure that the police are threatening people very badly and unfairly even putting undercover police to look like protesters just to ruin people legitimate actions. To me this is a clear sign that there are many corrupted politicians and at the same time that people who protest are doing the right thing.
Protest. Reason with the authority and never give up.
A government that has its police to attack its citizens is a crooked government and should resign. In a real democracy the government does not attack its citizens. It listens to them, works for them and with them.
It seems to be a global problem that the politicians have lost the sense of their duty and responsibilities. They seem to have forgotten why they were elected. Then it is up to us, the people, to remind them whom they are working for.
A society that does not embrace everyone is no longer a society, it has become like a private club that is dangerous and destructive to all its citizens.
We always have a choice; we can accept a bad situation or fight it. Then the question arises; how do you fight it?
I say with proves, reasons, persistency and without violence. In Iceland 2008/09 we proved it could be done.
It is so important that people don´t use masks or any other thing to cover their faces. Here in Iceland we showed our faces and wore an orange ribbon or just something orange to show solidarity and support no violence.
Never hide the face of freedom.
Being honest is not very popular but it is the only way for the human race to survive.
Anger is a very powerful resource. We must learn to control it and use it to build up not to tear down, not to let it take control of our lives, because then it will destroy us, eat us alive. Let´s us work together be just, flexible and smart. Clearify our claims, be reasonable, and put them forwards to the politicians we have elected. Put together a commitee to talk to the politicians. Make them understand that they are working for us, that we are not their slaves, they are employed by us and if they don´t like it they will have to leave and new ones take their places.
We people from all countries must unite. We are in deep trouble because many politicians we elected and trusted to run our countries failed us.
Each and everyone of us start out as a silent unknown voice and we will remain so as long as we ignore the voice, our heart and wait for a crystalball to tell us to speak up.
Revolutions used to be local now it is global!
Let´s stick together people. - Don´t give up!
One of our strongest weapon is the Internet and we must protect it.
Let us share information and experience.
The world is changing because we are changing it.
The economical system of the world must change – and we are going to change it.
We can do it and we have started.
Sincerly yours,


Hörður Torfason


Non c'è bisogno di essere in Grecia, Spagna, Portogallo o in qualsiasi altro paese per capire cosa stia davvero succedendo lì. Sono sicurissimo che la polizia stia minacciando la gente malamente e ingiustamente, anche mettendo poliziotti in borghese infiltrati tra i manifestanti solo per rovinare le azioni legittime della gente. Per me questo è un chiaro segno che ci sono molti politici corrotti e, al tempo stesso, che le persone che protestano stanno facendo la cosa giusta.
Protesta, ragiona con le autorità e non mollare mai.
Un governo la cui polizia attacca i cittadini è un governo distorto e dovrebbe dimettersi. In una vera democrazia, il governo non attacca i suoi cittadini. Li ascolta, lavora per loro e con loro.
Il fatto che i politici abbiano perso il loro senso del dovere e delle proprie responsabilità sembra essere un problema globale. Sembra abbiano dimenticato il perchè siano stati eletti.
Sta a noi, il popolo, ricordare loro per chi stanno lavorando.
Una società che non include tutti non è più una società degna di tale nome, e diventa come un club privato, pericolosa e distruttiva per tutti i cittadini.
Noi abbiamo sempre una possibilità di scelta; possiamo accettare una brutta situazione o combatterla. Qui la questione si accresce; come fare per combatterla?
Io vi dico con le prove, le ragioni, la perseveranza e senza la violenza. In Islanda 2008/09 abbiamo provato che ciò può essere fatto.
E' così importante che la gente non usi maschere o altra cosa che copra le loro facce. Qui ad Iceland noi abbiamo mostrato i nostri volti e indossato un fiocco arancione o qualcosa di arancione, per dimostrare solidarietà e supporto, non violenza.
Non nascondere la faccia della libertà.
Essere onesto non è molto popolare ma è l'unica strada che consenta alla razza umana di sopravvivere.
La rabbia è una risorsa potente.
Dobbiamo imparare a controllarla e ad usarla per costruire non per demolire, non dobbiamo consentirle di prendere il controllo delle nostre vite, perchè a quel punto ci distruggerebbe, ci mangerebbe vivi.
Facciamo in modo che il nostro lavorare insieme sia giusto, flessibile ed intelligente. Chiariamo le nostre pretese, che siano ragionevoli, e mandiamole incontro ai politici che abbiamo eletto.
Mettiamo insieme un comitato che parli con i politici. facciamo capire loro che stanno lavorando per noi, che non siamo i loro schiavi, che sono loro i nostri dipendenti e se non sono d'accordo con questo andassero via affinché nuova gente onesta possa prendere il loro posto.
Noi popoli di ogni nazione dobbiamo essere uniti. Siamo in un profondo disagio perché molti politici che abbiamo eletto e nei quali abbiamo creduto ci hanno deluso.
Ognuno di noi dà vita ad una voce silenziosa e sconosciuta che resterà tale fino a quando noi ignoreremo quella voce, ignoreremo i nostri cuori aspettando che una palla di cristallo ci dica di parlare.
Le Rivoluzioni che erano locali ora sono globali!
Uniamo la gente. Non molliamo!
Uno dei nostri strumenti più forti e Internet e dobbiamo proteggerlo.
Scambiamo tra noi informazioni ed esperienze.
Il mondo sta cambiando perché noi lo stiamo cambiando.
Il sistema economico del mondo deve cambiare e noi lo cambieremo.
Possiamo farlo ed abbiamo già iniziato.
Sinceramente vostro,

Hörður Torfason

Nail Them Up!


My name is Willie Stark from Mason City yonder. I had a speech... about this state and what it needs. There's no use in me telling you about it, you are the state. You know what you need. Look at the knees of your pants. Look at your crops. Look at your kids. You got holes and rot, and ignorant offspring on account of this state. Well, I had a speech, but I ain't got it no more. Mr. Duffy got it now in his fat little hands. Don't you, Tiny? Go ahead, show the people. Hold it up...
Well, since he got it, I'm gonna have to say something else. It's all right. Because I got something else to say. I got a story about a redneck hick. He's like yourselves, if you please. Well, this fella, a while back, this hick... started thinking about all the other hicks... what he could do for them. Well, one day it came down with the powerful force of God's own hand, when the only brick schoolhouse ever built in his parish, collapsed on account of it was built with politics-rotted brick. And it killed and mangled a batch of poor, young scholars.
Oh, you know this story. You heard it. He fought the politics that built that schoolhouse, with rotten brick and bolts. But he lost. He lost. And it fell. It fell.
Well, it wasrt long before some public officials from the city rode out in their big fine car and told this hick how they wanted him to run for governor. Them in them striped pants, they told me MacMurphy was a limberback... Joe Harrison, he was just a tool of the city machine. And they wanted this nobody, do-gooder hick to step in, give them some honest government. You know who they were? In that big fine car?
They was Joe Harrisors own lickspittles, coming in to split MacMurphy's hick vote! That's right! Your hick vote! There he is! There he is right there. There's the Judas Iscariot lickspittle nose-wiper from the city, right there. Come on, Tiny! Look at him! Joe Harrisors dummy! Come on, take a bow. Come on. No, come on now, people wanna see you. Take a bow, come on. There he goes.
No! No, let him lie! Let him lie! Let that hog lie in his own filth! Let him lie, but listen to me, you hicks. That's right, I'm not the only one here. You hicks too. They fooled you, too, just like they fooled me a thousand times. But it's time I fooled somebody. It's time I fooled them. Them big-city, striped-pants lickspittle hick-haters. I'm running for governor on my own. I'm coming for them and I'm coming for blood!!!
First thing I'm gonna do is build me a road out... across the swamps and alligators and anything else that gets in my way. A thousand miles of concrete, if that's what it takes... so I can come out here and visit with my fellow hicks on a regular basis. Then I'm gonna build me a bridge across that mighty Mississippi. Name it after myself because I'm the one who built it. Then I'm gonna build you all new schools. Send your kids home with free tablets and pencils and books to study and learn on the way to the new university I'm gonna build where every one of them can go. Same as rich folks' kids!!
Now, I hope you're listening, you hicks. Because I don't wanna drive all the way back home... just to drive back out here next week to tell you again. And this is it: IF YOU DON'T VOTE, YOU DON'T MATTER. YOU DON'T MATTER. YOU DON'T MATTER! And then you're just as ignorant as them in the city say you are... ...while they stealing food off your table... ...and every nickel out your pocket, saying, "Thank you"! Because then you are just a bunch of ignorant hicks who got nothing, because you deserve nothing! So listen to me. Listen here. Lift your eyes and look on the God's blessed and unflyblown truth: You are a hick and ain't nobody never helped a hick but a hick hisself. It's up to you to nail these parasites up! Up to you and me and God!!! Amen! Nail up Joe Harrison! Nail him up! Nail up MacMurphy! Nail him up! And nail up any bastard that gets between you and the roads and the bridges and schools and the food you need!! You give me the hammer and I'll do it! I'll nail their hides to the barn door!!
NAIL THEM UP!! NAIL THEM UP!! NAIL THEM UP!!
NAIL THEM UP!! NAIL THEM UP!! NAIL THEM UP!!


Mi chiamo Willie Stark, vengo da Mason City. Io avevo un discorso, su questo Stato e quello che gli serve. E' inutile che ve lo dica io, siete voi lo Stato e voi sapete che cosa vi serve. Guardate i ginocchi dei vostri calzoni, guardate i vostri raccolti, i vostri figli... Avete buchi, e muffa, e figlolanza ignorante a causa di questo stato. Io avevo un discorso, ma non ce l'ho più. E' il sinor Duffy che ce l'ha adesso, nelle sue grasse manine. Vero Tiny? Coraggio, fallo vedere al popolo, sollevalo...
Allora, visto che ce l'ha lui, mi toccherà dire qualcos'altro. Ma va bene così, perché ce l'ho qualcos'altro da dire. Ho una storia, di un contadino zotico, uno come voi, se permettete. Beh, questo tizio, tempo fa, questo zotico, cominciò a pensare a tutti quanti gli altri zotici, a cosa fare per loro... E un giorno la risposta gli arrivò con la prorompente forza della mano stessa di Dio, quando l'unico edificio scolastico della sua contea crollò per via che era stato costruito coi ferri e i mattoni marci della politica, uccidendo e massacrando dei piccoli poveri scolaretti.
Voi la conoscete questa storia? Se n'è parlato! Lui s'era battuto contro la politica che aveva usato questi mattoni marci, ma aveva perso, aveva perso, e ci fu il crollo, ci fu il crollo.
Beh! Non passò molto tempo prima che alcuni funzionari pubblici della capitale arrivassero con un bel macchinone a dire a questo zotico che volevano farlo candidare a Governatore, nelle loro braghe gessate mi dissero che McMurphy era un portaborse, Joe Harrison solo un galoppino di notabili, e che volevano che questo signor nessuno, moralista zotico, subentrasse come onesto Governatore, e sapete chi erano? Quelli nel bel macchinone?
I servi di Joe Harrison, i suoi tirapiedi, sgiunzagliati per togliere a McMurphy metà voti, esatto, il vostro voto di zotici. Eccolo lì! Eccolo, è qui davanti a voi il Giuda Iscariota leccapiedi, scagnozzo venuto dalla capitale! Eccolo lì! Vieni avanti Tiny! Guardatelo il burattino di Joe Harrison! Avanti fatti applaudire, coraggio dai, la gente ti vuole vedere, fatti applaudire dai!
Ehheheh no no no! Lasciatelo lì! Lasciatelo lì! Lasciate che il maiale si rotoli nel suo letame, lasciatelo stare, però ascoltatemi voi zotici, si io non sono il solo zotico qui, lo siete anche voi, hanno fatto fessi anche voi, come hanno fatto fesso me migliaia di volte! Ma è ora che sia io a fare fesso qualcuno, è ora che io faccia fessi loro, questi leccapiedi con le braghe gessate che odiano noi zotici! Mi candido a Governatore da indipendente!! Li affronterò da solo e voglio vedere il loro sangue!!!
Per prima cosa mi costruirò una strada sulla palude, sugli alligatori e su ogni cosa mi si metta di traverso. Mille miglia di asfalto se sarà necessario, così potrò venire a trovare i miei colleghi zotici regolarmente. Poi mi costruirò un ponte sul possente Mississippi e gli darò il mio nome perché l'ho costruito io. E a voi tutti costruirò nuove scuole e i vostri figli avranno gratis quaderni, matite e libri per poter studiare e prepararsi per le nuove Università che costruirò, dove tutti quanti loro potranno andare come i figli dei ricchi!!
Io spero che voi mi stiate a sentire zotici, perché non voglio rifare tutta la strada di casa per tornare qui tra una settimana a dirvelo ancora. A dirvi questo: SE VOI NON VOTATE, VOI NON CONTATE, NON CONTATE, VOI NON CONTATE!! E siete tanto ignoranti, quanto dicono quelli delle città, mentre vi rubano il cibo dalla tavola e gli ultimi spiccioli dalle tasche dicendovi: "grazie mille"! Perché sareste davvero un branco di zotici! E non avete niente, perché non meritate niente! Perciò ascoltatemi, aprite le orecchie, levate lo sguardo e guardate in faccia all'innegabile verità, la divina e pura verità: voi siete zotici! E nessuno aiuta mai uno zotico se non si aiuta da solo. Sta solo a voi inchiodare questi parassiti al muro! Sta a voi, a me e a Dio!! Inchiodiamo Joe Harrison! Inchiodiamo McMurphy! Inchiodiamo chiunque si frapponga tra me, voi e le strade e i ponti e le scuole e il cibo che vi occorre!! Voi datemi il martello e io l'inchioderò! Inchioderò la loro pelle alla porta del granaio!!
INCHIODIAMOLI!! INCHIODIAMOLI!! INCHIODIAMOLI!!
INCHIODIAMOLI!! INCHIODIAMOLI!! INCHIODIAMOLI!!
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* Tutti gli uomini del re (All the King's Men) è un film del 2006 diretto da Steven Zaillian, tratto dall'omonimo romanzo di Robert Penn Warren ispirato alla carriera del governatore della Louisiana Huey P. Long, pubblicato nel 1946 e vincitore del premio Pulitzer.


Huey Pierce Long, personaggio di indubbie capacità politiche e di forte carisma, nacque nel 1893 in una fattoria vicino Winnfield, in Louisiana, studiò legge e praticò da legale all'interno del suo Stato, almeno fino al 1918, anno in cui cominciò la carriera politica con i democratici.
Nel `24 partecipò alle elezioni per governatore della Louisiana, ma senza successo. Quello stesso posto lo conquistò quattro anni dopo e lo conservò fino alla morte, nel 1935. Dal `30 divenne anche senatore democratico.
Long si faceva chiamare Kingfish, "...perché - usava dire scherzando - sono un pesce piccolo a Washington, ma un kingfish in Louisiana". Le aspettative di cambiamento, che l'elezione a presidente degli Usa di Franklin D. Roosevelt avevano creato negli ambienti politici e sociali della sinistra democratica, furono abbastanza presto ridimensionate dalle decisioni consociative e graduali del successore di Hoover.
Nella "fronda" interna al partito si distinse proprio Huey P. Long, che accusò apertamente il presidente Roosevelt di essere passato dalla parte dei banchieri e di non adottare provvedimenti atti a ridistribuire la ricchezza prodotta.
Nel 1930, come già detto, divenne senatore democratico, ma non lasciò l'incarico di governatore della Louisiana. Quando nel `31 andò a Washington per un lungo periodo, Huey Long lasciò al suo posto Paul Cyr, il suo vice, ambizioso ed in rotta con lo stesso governatore. Appena insediato come "supplente", Cyr tentò un colpo di stato per estromettere Long. Quest'ultimo, tornato di corsa in Louisiana, fece intervenire la Guardia nazionale, la polizia di Stato e la polizia stradale per circondare la residenza di Cyr. Costretto alle dimissioni il suo vicegovernatore, Kingfish rioccupò pienamente il suo posto. Ai giornali Huey Long confidò: "Cyr non è più vicegovernatore. Anzi, ora non è più niente".
In breve tempo, il governatore della Louisiana scrisse il programma alternativo a quello presidenziale, chiamandolo Every Man a King: Share our Wealth [Ogni uomo un re: dividiamo la nostra ricchezza] e presentandolo pubblicamente nel 1934. Nel 1935, scrisse il libro autobiografico I miei primi giorni alla Casa Bianca, in cui delineava i suoi orientamenti politici qualora fosse stato eletto come presidente degli Usa.
Nell'agosto dello stesso anno infatti, Huey P. Long annunciò la sua candidatura a presidente Usa per le elezioni del 1936. Le sue apparizioni come oratore pubblico, nelle piazze, nei convegni, in senato, presso le radio, si moltiplicarono.
Il "quasi presidente" venne attaccato da destra come ammiratore delle politiche economiche socialiste, mentre in Louisiana era additato come "fascista" e "dittatore" perché controllava spietatamente tutta l'amministrazione statale, modellandola sulla propria idea personale di governo.
Ma l'8 settembre 1935 fu colpito da una pallottola sparatagli dal dottor Carl Austin Weiss (un giovane trentenne specialista in otorinolaringoiatria, figlio del più noto ed omonimo dottor Weiss, presidente dell'associazione dei medici della Louisiana, e genero del giudice Benjamin Pavy, un potente oppositore di Long) a bruciapelo, nel corridoio del Campidoglio di Baton Rouge, la residenza del governatore. Lo stesso dottor Weiss fu immediatamente ucciso dalle guardie del corpo di Long, che gli scaricarono oltre trenta pallottole in corpo.
Dopo due giorni di agonia, a causa anche di un primo intervento sbagliato all'addome, Huey Kingfish Long morì a soli 42 anni. Il suo posto venne preso dal suo "luogotenente" Gerald L.K. Smith, un predicatore radicale della setta dei Discepoli di Cristo, il quale, in vista delle elezioni presidenziali del `36, fece la scelta "unitaria" di un nuovo partito politico insieme al padre Charles E. Coughlin ed al dottor Francis E. Townsend del movimento pensionati, l'Union party. Alle presidenziali, come è noto, Roosevelt trionfò di nuovo, mentre l'Union party ebbe poco meno dell'uno per cento dei voti.
Cosa sarebbe accaduto se il dottor Weiss (un uomo ferocemente conservatore ed antisocialista) non avesse sparato a Long quell'8 settembre del `35 non è facile dirlo, ma se avesse vinto il governatore della Louisiana alle elezioni presidenziali dell'anno seguente sicuramente si sarebbero acuite le dinamiche di scontro sociale ed economico negli Usa. Il populismo di Huey Long è infatti fuori discussione, come il suo inveterato odio per le maggiori banche e le istituzioni finanziarie che avevano, coscientemente, preparato il crollo di Wall Street e, poi, ne avevano tirato fuori tutti i profitti possibili. Sia dal programma del movimento Share our wealth che dall'autobiografia sui primi giorni da presidente alla Casa Bianca, può essere chiarito in modo esauriente il disegno di Long.
Nel libro pubblicato nel 1935 si tengono le conversazioni immaginarie del neopresidente con i membri più influenti della politica, dell'industria e della finanza statunitense. Dopo un primo momento dedicato al contatto fisico con il nuovo ufficio presidenziale, tra timori reverenziali e paura di non essere all'altezza del compito, Kingfish Long manda il suo messaggio iniziale alla nazione, contenente la lista del suo nuovo governo.
Tra i membri più influenti del suo staff, Long pone nientedimeno che Franklin Delano Roosevelt (segretario alla Marina) ed Herbert Hoover (al Commercio), due ex presidenti provenienti da due partiti opposti, il democratico ed il repubblicano, a simboleggiare lo sforzo unitario nazionale per la ricostruzione del Paese. Anche padre Coughlin viene chiamato alla Casa Bianca dal neopresidente sognatore, per aiutarlo ad attivare la politica di riforma del sistema bancario.
Il sistema vede la confisca delle rendite maggiori di cinque milioni di dollari ed un forte prelievo per scaglioni ed in percentuale sulle rendite tra due milioni e cinque milioni di dollari. Il tutto è azionato centralmente da una potente banca governativa, cui tutte le banche private devono conformarsi.
Per avere il consenso del mondo della finanza e degli imprenditori, il neoinsediato presidente convoca alla Casa Bianca personaggi come John P. Morgan, John D. Rockefeller, Andrei W. Mellon, Pierre S. Du Pont ed altri eminenti banchieri. Kingfish Long offre loro la possibilità di entrare direttamente in una commissione che stabilisca come amministrare il patrimonio confiscato, come ridistribuire questa ricchezza, come creare nuovi posti di lavoro, come contribuire cioè alla rinascita nazionale.
Gli uomini della finanza e dell'industria, naturalmente (tanto, è solo la finzione del libro...), accettano. Solo Henry Ford, imprenditore automobilistico e già sostenitore ufficiale del candidato repubblicano Hoover, rifiuta il diretto coinvolgimento nella commissione, ma accetta le regole che impongono la confisca e la forte tassazione per scaglioni, comprendendo, dopo un lungo colloquio col neopresidente, le ragioni del governo di Long.
Nel suo messaggio al Congresso, il "presidente" Huey Long dice: "Non proponiamo alcuna divisione delle proprietà. Proponiamo solo che nessuno possa possedere troppo e che nessuna famiglia possa avere troppo poco per il proprio sostentamento. C'è un limite alla capacità di bere da parte di un cavallo, alle miglia che un uomo può correre, alla lunghezza del tempo che uno può vivere. C'è anche un limite all'ammontare delle ricchezze che un uomo può possedere. [...] L'importo che consideriamo normale per la ricchezza di una famiglia è di 17.000 dollari. Ciò vuol dire che se uno possiede 1.700.000 dollari, può bastare. Non ne può possedere di più ...". Ugualmente, la sua politica in favore dei pensionati e dei lavoratori è esplicita: "Oltre l'età di 60 anni, tutti hanno diritto ad una onorevole pensione di vecchiaia. [...] Ogni famiglia ed ogni lavoratore hanno necessità di avere una casa, un lavoro fisso, una radio, un'automobile ... e noi glieli daremo."

Umberto Calamita

Os engodos do Mercado


Podemos imaginar a profunda perplexidade que a crise dos mercados mundiais se abateu sobre os ideólogos do neoliberalismo, do Estado mínimo e dos vendedores das ilusões do mercado. A queda do muro do Berlin em 1989 e a implosão da União Soviética provocou a euforia do capitalismo. Reagan e Tatcher, agora sem o contraponto socialista, aproveitaram a ocasião para radicalizar os “valores” do capitalismo, especialmente das excelências do mercado que tudo resolveria. Para facilitar a obra, começaram por desmoralizar o Estado como péssimo gestor e difamar a política como o mundo da corrupção. Naturalmente havia e ainda há problemas nestas instâncias. Mas não se pode abrir mão do Estado e da política se não quisermos regredir à barbárie social. Em seu lugar, dizia-se, devem entrar as ordenações excogitadas no seio dos organismos nascidos em Bretton Woods e dos grandes conglomerados multiraterais. Entre nós, chegou-se a ridicularizar quem falasse em projeto nacional. Agora, sob a globalização, insistiam, vigora o projeto-mundo. E o Brasil deve inserir-se nele, mesmo de forma subalterna. O Estado deve ser reduzido ao mínimo e deixar livre campo para mercado fazer os seus negócios.
Nós que viemos, como tantos outros, do compromisso com os direitos humanos, especialmente, dos mais vulneráveis, demo-nos logo conta de que agora o principal violador destes direitos era o Estado mercantil e neo-liberal. Pois os direitos deixavam de ser inalienáveis. Eram transformados em necessidades humanas cuja satisfação deve ser buscada no mercado. Só tem direitos quem pode pagar e for consumidor Não é mais o Estado que vai garantir os mínimos para a vida. Como a grande maioria da população não participa do mercado, via negado seu direito.
Podemos e devemos discutir o estatudo do Estado-nação. Na nova fase planetaria da humanidade mais e mais se notam as limitações dos Estados e cresce a urgência de um centro de ordenação política que atenda às demandas coletivas da humanidade por alimento, água, saúde, moradia, saúde e segurança. Mas enquanto não chegarmos à implantação deste organismo, cabe ao Estado ter a gestão do bem comum, impor limites à voracidade das multinacionais e implementar um projeto nacional.
A crise econômica atual desmascarou como falsas as teses neoliberais e o combate ao Estado. Com espanto um jornal empresarial escreveu em letras garrafais em sua secção de economia “Mercado Irracional” como se um dia o mercado fosse racional, mercado que deixa de fora 2/3 da humanidade. Uma conhecida comentarista de assuntos econômicos, verdadeira sacerdotiza do mercado e do Estado mínimo, inflada de arrogância escreveu: ”As autoridades americanas erraram na regulação e na fiscalização, erraram na avaliação da dimensão da crise, erraram na dose do remédio; e erram quando têm comportamento contraditório e errático”. E por minha conta, acrescentaria: erraram em não convoca-la como a grande pitoniza que teria a solução adivinhatória para a atual crise dos mercados.
A lição é clara: deixada por conta do mercado e da voracidade do sistema financeiro especulativo, a crise ter-se-ia transformado numa tragédia de proporções planetárias pondo em grave risco o sistema econômico mundial. Logicamente, as grandes vitimas seriam os de sempre: os chamados zeros econômicos, os pobres e excluídos. Foi o difamado Estado que teve que entrar com quase dois trilhões de dólares para, no último momento, evitar o pior. São fatos que nos convidam a revisões profundas ou pelo menos, para alguns a serem menos arrogantes.

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Podemos imaginar la profunda perplejidad que a causa de la crisis de los mercados mundiales se ha abatido sobre los ideólogos del neoliberalismo, del Estado mínimo y de los vendedores de las ilusiones del mercado. La caída del muro de Berlín en 1989 y el desmantelamiento de la Unión Soviética provocó la euforia del capitalismo. Reagan y Tatcher, ahora sin el contrapunto socialista, aprovecharon la ocasión para radicalizar los "valores del capitalismo, especialmente las excelencias del mercado, que lo resolvería todo. Para facilitar la obra, comenzaron por desmoralizar al Estado como pésimo gestor y a difamar de la política como el mundo de la corrupción. Naturalmente había y todavía hay problemas en estas instancias, pero no podemos desentendernos del Estado y de la política si no queremos retroceder a la barbarie completa. En su lugar - se decía - deben entrar los ordenamientos ideados en el seno de los organismos nacidos en Bretton Woods y los grandes conglomerados multilaterales. Entre nosotros los brasileños se llegó a ridiculizar a quien hablara de proyecto nacional. Ahora, bajo la globalización, insistían, se fortalece el proyecto-mundo y Brasil debe insertarse en él, aunque sea en posición subalterna. El Estado debe ser reducido al mínimo y dejar campo libre para que el mercado haga sus negocios.
Los que venimos, como tantos otros, del compromiso con los derechos humanos, especialmente los de los más vulnerables, pronto nos dimos cuenta de que ahora el principal violador de esos derechos era el Estado mercantil y neoliberal, pues los derechos dejaban de ser inalienables y eran transformados en necesidades humanas cuya satisfacción debe ser buscada en el mercado. Sólo tiene derechos quien puede pagar y es consumidor. Ya no es el Estado quien va a garantizar los mínimos para la vida. Como la gran mayoría de la población no participa del mercado, sus derechos se han visto negados.
Podemos y debemos discutir el estatuto del Estado-nación. En la nueva fase planetaria de la humanidad se notan cada ves más las limitaciones de los Estados y crece la urgencia de un centro de ordenación política que atienda las demandas colectivas de la humanidad de alimento, agua, salud, vivienda y seguridad. Pero mientras llegamos a implantar ese organismo corresponde al Estado llevar a cabo la gestión del bien común, imponer límites a la voracidad de las multinacionales e implementar un proyecto nacional.
La crisis económica actual ha desenmascarado como falsas las tesis neoliberales y el combate al Estado. Con miedo, un periódico empresarial ha escrito en letras enormes en su sección de economía "Mercado Irracional, como si alguna vez el mercado hubiese sido racional un mercado que deja fuera de él a dos tercios de la humanidad. Una conocida comentarista de asuntos económicos, verdadera sacerdotisa del mercado y del Estado mínimo, llena de arrogancia, ha escrito: "Las autoridades estadounidenses se equivocaron en la regulación y en la fiscalización, se equivocaron en la valoración de la dimensión de la crisis, se han equivocado en la dosis del remedio y se equivocan cuando tienen un comportamiento contradictorio y errático". Y por mi cuenta añadiría: se han equivocado en no llamarla a ella como la gran pitonisa que habría adivinado la solución a la actual crisis de los mercados.
La lección es clara: dejada por cuenta del mercado y de la voracidad del sistema financiero especulativo la crisis se habría transformado en una tragedia de proporciones planetarias poniendo en grave peligro el sistema económico mundial. Lógicamente las víctimas serían los de siempre: los llamados ceros económicos, los pobres y excluidos. Fue el difamado Estado quien tuvo que entrar con casi dos billones de dólares para evitar en el último momento lo peor. Son hechos que nos invitan a revisiones profundas o por lo menos, a algunos, a ser menos arrogantes.

Leonardo Boff


Possiamo immaginare la profonda perplessità che a causa della crisi dei mercati mondiali si è abbattuta sugli ideologi del neoliberismo e dello Stato minimo e sui venditori delle illusioni del mercato. La caduta del Muro di Berlino nel 1989 e lo smantellamento dell’Unione Sovietica provocò l’euforia del capitalismo. Reagan e la Thatcher, senza il contrappeso socialista, approfittarono dell’occasione per radicalizzare i "valori del capitalismo, specialmente l’eccellenza del mercato che tutto avrebbe risolto. Per facilitare l’opera, iniziarono a screditare lo Stato come pessimo amministratore e a diffamare la politica come mondo della corruzione. Naturalmente c’erano e ancora ci sono problemi in queste istanze, ma non possiamo fare a meno dello Stato e della politica se non vogliamo retrocedere alla barbarie completa. Al suo posto, si diceva, devono entrare gli ordinamenti ideati nel seno degli organismi nati a Bretton Woods e i grandi conglomerati multilaterali. Tra noi si arrivò a ridicolizzare chi parlava di progetto nazionale. Ora, sotto la globalizzazione, insistevano, si rafforza il progetto-mondo e il Brasile deve inserirsi in esso, per quanto in posizione subalterna. Lo Stato deve essere ridotto al minimo e lasciare campo libero perché il mercato faccia i suoi affari.
Noi che veniamo, come tanti, dalla lotta a favore dei diritti umani, soprattutto delle persone più vulnerabili, ci siamo resi conto subito che il principale responsabile della violazione di questi diritti era ora lo Stato mercantile e neoliberista, poiché i diritti non erano più inalienabili ed erano stati trasformati in necessità umane da soddisfare all’interno del mercato. Ha diritti solo chi può pagare ed è consumatore. Non è più lo Stato che garantisce i diritti essenziali per la vita. Poiché la grande maggioranza della popolazione non partecipa al mercato, i suoi diritti vengono negati.
Possiamo e dobbiamo discutere lo statuto dello Stato-nazione. Nella nuova fase planetaria dell’umanità si notano sempre più i limiti degli Stati, mentre cresce l’urgenza di un centro di regolazione politica che risponda alle domande collettive dell’umanità in termini di alimenti, acqua, salute, abitazione e sicurezza. Ma mentre lavoriamo alla nascita di questo organismo, spetta allo Stato portare avanti la gestione del bene comune, imporre limiti alla voracità delle multinazionali e realizzare un progetto nazionale.
La crisi economica attuale ha smascherato la falsità delle tesi neoliberiste e della lotta allo Stato. Un giornale dell’imprenditoria, spaventato, riportava a caratteri cubitali, nella sua sezione economica, il titolo "Mercato irrazionale", come se fosse mai stato razionale un mercato che taglia fuori due terzi dell’umanità. Una nota analista di affari economici, autentica sacerdotessa del mercato e dello Stato minimo, piena di arroganza, ha scritto: "Le autorità statunitensi hanno sbagliato nella regolazione e nella fiscalizzazione, hanno sbagliato nella valutazione delle dimensioni della crisi, hanno sbagliato nelle dosi del rimedio e hanno sbagliato nel tenere un comportamento contraddittorio ed erratico". E da parte mia aggiungerei: hanno sbagliato a non chiamare lei, grande veggente che avrebbe individuato la soluzione all’attuale crisi dei mercati.
La lezione è chiara: lasciata in balìa del mercato e della voracità del sistema finanziario speculativo, la crisi si sarebbe trasformata in una tragedia di proporzioni planetarie, mettendo in grave pericolo il sistema economico mondiale. Logicamente le vittime sarebbero quelle di sempre: i cosiddetti zero economici, i poveri e gli esclusi. È stato il disprezzatissimo Stato a dover intervenire per evitare il peggio all’ultimo minuto. Sono fatti che ci invitano a revisioni profonde o che, perlomeno, invitano alcuni ad essere meno arroganti.

Leonardo Boff

Smokin’ Joe

Io e Ali eravamo forti ma quando salivamo sul ring con lui, lo rispettavamo. La prima cosa che ricordo è quando mi ha mancato, mi sono spaventato così tanto che l'ho colpito sei volte. E anche quando hanno fermato l'incontro, dando a me il titolo, lui era ancora in piedi.

George Foreman
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Ricorderò sempre Joe con rispetto e ammirazione.

Muhammed Alì
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Mi piace essere sempre in moto, arrivare e andarmene presto. A che cosa mi serve avere vicino un altro? A farmi portare in giro in automobile e a lasciare che sia lui a divertirsi? L'unico posto in cui ho bisogno di aiuto è sul ring, e lì vogliono che ci vada da solo.

Joe Frazier


C’è sempre qualcosa d’impuro nella riuscita, una volgarità nella vittoria... Di totalmente grande c’è solo la sconfitta.

Charles Peguy


La boxe è secca nei colpi e negli addii. Joe Frazier è morto l'8 novembre scorso, a 67 anni. Con lui se ne va un altro pezzo di un'epoca della boxe che mollava jab, sputava sangue, ma non indietreggiava di un centimetro. Questo colosso, un carro armato di 110 kg per 1 metro e 85, è stato ucciso da un tumore fulminante al fegato.
Nato a Beaufort, nella Carolina del Sud, dodicesimo di 13 figli, Joe prima di cominciare la carriera pugilistica feceva l'apprendista macellaio a Philadelphia. Stallone nel film "Rocky" l'idea di allenarsi nei macelli la prese proprio dalla vita Frazier (lo so bene io, nipote e figlio di macellaio, i muscoli che vengon su a furia di sollevare quarti e mezzene di manzo!). Una carriera pugilistica fatta di 37 incontri, di cui 32 vittorie (27 per ko), 1 pareggio e 4 sconfitte. Fu anche medaglia d’oro alle Olimpiadi di Tokio nel ’64, dopo una finale giocata con una mano rotta, poi subito ingessata. Nel 1968 diventò campione dei pesi massimi, titolo che l’anno prima era stato tolto a Muhammad Alì per la sua renitenza alla leva.
Di tutta la sontuosa lista di successi, restano però memorabili le quattro sconfitte, per mano di Alì e di George Foreman: perchè Joe Frazier fu un grande sconfitto, un gigantesco, struggente, “numero due”. Che però visse la sua notte di gloria: la sera dell’8 marzo 1971 al Madison Square Garden sconfisse ai punti Alì, il suo rivale di sempre, che tornava sul ring dopo 43 mesi di esilio.
Grazie al suo infinito carisma quest’ultimo era riuscito, a livello psicologico e mass-mediatico, ad invertire i ruoli dello scontro: anche se di fatto egli era lo sfidante, colui che inseguiva il titolo che gli era stato tolto senza alcuna sconfitta sul ring quattro anni prima, alla fine dei conti risultava che era Frazier a inseguire, a cercare di legittimarsi sconfiggendo la fama e poi la persona che gli stava davanti, sempre avanti.
Alì e Frazier, come Mozart e Salieri, come Kennedy e Nixon, il Bello e la Bestia. Ali chiamava Joe il Gorilla, ma tra i due, a parte il battage pubblicitario, c'era stima reciproca. Organizzarono da soli l’incontro. I dettagli furono stabliti in un viaggio in macchina fatto da Filadelfia a New York con Alì che era andato a prendere Frazier nella sua casa in Pennsylvania. Una borsa immensa, i diritti spartiti tra i due pugili senza l’intermediazione dei promoter.
Quella sera tutto il mondo era lì al Madison Square Garden: Ted Kennedy e Aretha Franklin, Bing Crosby e Frank Sinatra, e Burt Lancaster che commentando per una rete televisiva ad un certo punto esclamò: “Frazier non è pugile, ma un carroarmato Sherman!”.
Questo era lo stile, privo di stile, di Joe Frazier: avanzare. Prendere i pugni dell’avversario, anche tanti pugni, ma riuscire a sferrarne uno, uno di quei sinistri devastanti che “sembravano provenire dal pavimento”, come ebbe a dire Alì che al quindicesimo round, dopo averne preso uno che lo aveva letteralmente sollevato dal ring, era finito al tappeto, conoscendo l’umiliazione dell’essere contato, anche se per soli quattro secondi.
Alla fine Frazier si ruppe il polso destro e Alì la mascella. La cantante Diana Ross si mise a terra a piangere, ma Alì con fierezza disse: "Io non piango e non dovrebbero farlo nemmeno i miei amici". Ebbe ragione il più basso, il meno dotato di scherma, ma il più forte fisicamente. Frazier divenne The Champ.
"Frazier era diventato il pugile dell'uomo bianco, Charley tifava per Frazier, e questo significava che in cuor loro i neri lo boicottavano. Poteva essere veleno per il suo morale, perché Frazier era nero il doppio di Clay, e quasi bello quanto lui". Norman Mailer consegna così alle cronache, precisamente per le pagine del settimanale Life, la sua roboante visione dell'incontro del secolo, così è passato alla storia, al Madison Square Garden di New York. Il lungo articolo fu titolato Ego e uscì appena 11 giorni dopo la prima sconfitta sul ring di Muhammad Alì: Joe Frazier lo aveva messo al tappeto!
E la sfida tra i due, con le successive rivincite per il titolo dei pesi massimi - il 28 gennaio 1974 ancora a New York e il 1 ottobre 1975 nelle Filippine per la battaglia finale, "Thrilla in Manila" - è stata la più sanguinosa, sul ring e a parole.
Alì uscì vittorioso dagli ultimi due incontri, ma sfinito. Ferdie Pacheco, il suo inseparabile uomo dell'angolo, si era già convinto che corresse il serio pericolo di subire danni cerebrali se non si fosse ritirato.
In Jamaica Frazier fu a sua volta umiliato per sei volte dal tornado-Foreman, che in due brutalissimi round conquistò il titolo che poi perderà nell’incontro più celebre e incredibile della boxe, quello di Kinshasa del ’74 con Alì (ko all’ottavo round!).
Un po’ come nella vita, le cose si combinano non perfettamente ma misteriosamente: Frazier aveva battuto Alì ma aveva perso con Foreman, mentre Alì avrebbe battuto Foreman in una performance unica e irripetibile.
Tra Alì e Frazier nacque un vero e proprio lungo rapporto di rivalità-amicizia, di stima e contrapposizione profonda, un dualismo fuori e dentro il ring che alimentava il mito dell’epica della boxe. “Io senza di lui non potrei essere quello che sono e viceversa” dirà poi Alì, “insieme abbiamo fatto una bella squadra”.
I tre incontri della “squadra" Alì-Frazier sono rimasti nella storia della noble art che forse proprio il 30 settembre del 1975, nelle Filippine, ha conosciuto il suo canto del cigno. Il terzo, durissimo e ultimo match si tenne infatti a Manila (“the Thrilla in Manila”, secondo le filastrocche di Alì che avrebbe dovuto “to beat the Gorilla”) e finì con l’abbandono di Frazier all’inizio dell’ultimo round. Voleva combattere fino alla fine, ma da due riprese non ci vedeva più. Il suo trainer Eddie Futch con dolcezza gli disse: "Siediti, ragazzo, è finita. Nessuno dimenticherà mai quello che hai fatto oggi".
Così furono i suoi secondi a gettare la spugna, perchè Joe non l’avrebbe mai fatto! “Frazier è capace, se lo butti giù, di rimettersi in piedi prima ancora di toccare terra” pensava con atroce timore Alì mentre cercava di sferrare il colpo del ko a Foreman chiedendosi: “...E se George fosse simile a Joe?”.
Ma Joe era unico; egli era da un certo punto di vista, il vero pugile. Con la sua incredibile arte di incassatore e la tenace e commovente furia che lo spingeva a procedere sempre in avanti, noncurante dei sacrifici da pagare pur di mantenere questa tattica semplice quanto ostinata, Frazier ha incarnato l’idea platonica del pugile molto più dei suoi vincitori.
In questo senso Frazier è molto “più pugile” di Alì, perchè Alì appartiene ad un’altra sfera, quella dell'ottava meraviglia, quella del genio, dell’arte, della bellezza, ma è Smokin’ Joe Frazier (Il soprannome glielo aveva dato il suo manager Yank Durham, che prima dei match aveva sempre l´abitudine di dirgli: "Vai lì fuori e fai uscire fumo da quei guanti") ad appartenere alla boxe, a quello sport che come ebbe a dire George Foreman, è “lo sport verso cui tutti gli altri tendono”. Quando lui picchiava, e sapeva farlo, i campioni dei massimi guadagnavano più dell'inquilino della Casa Bianca. Erano conosciuti e rispettati. Erano il simbolo di come si sta in piedi nella vita: pestati, ma a testa alta!


C'era anche Muhammad Ali, il rivale di tante battaglie, ai funerali di Smokin’ Joe. L'orazione funebre è stata celebrata dal reverendo Jesse Jackson, il quale al termine ha chiesto ai presenti di alzarsi e "mostrare il vostro amore" nei confronti di Smokin' Joe. E' stato il momento in cui anche Alì si è alzato per applaudire e salutare il suo vecchio rivale.

The Next Great Depression


...But even Jefferson realized that the exercise of property rights might so interfere with the rights of the individual that the government, without whose assistance the property rights could not exist, must intervene, not to destroy individualism, but to protect it.
You are familiar with the great political duel which followed; and how Hamilton, and his friends, building toward a dominant centralized power were at length defeated in the great election of 1800, by Mr. Jefferson's party. Out of that duel came the two parties, Republican and Democratic, as we know them today. So began, in American political life, the new day, the day of the individual against the system, the day in which individualism was made the great watchword of American life. [...]
There was, however, a shadow over the dream. To be made real, it required use of the talents of men of tremendous will and tremendous ambition, since by no other force could the problems of financing and engineering and new developments be brought to a consummation.
So manifest were the advantages of the machine age, however, that the United States fearlessly, cheerfully, and, I think, rightly, accepted the bitter with the sweet. It was thought that no price was too high to pay for the advantages which we could draw from a finished industrial system.
This history of the last half century is accordingly, in large measure, a history of a group of financial Titans, whose methods were not scrutinized with too much care, and who were honored in proportion as they produced the results, irrespective of the means they used. The financiers who pushed the railroads to the Pacific were always ruthless, often wasteful, and frequently corrupt; but they did build railroads, and we have them today. [...]
Woodrow Wilson, elected in 1912, saw the situation more clearly. Where Jefferson had feared the encroachment of political power on the lives of individuals, Wilson knew that the new power was financial. He saw, in the highly centralized economic system, the despot of the twentieth century, on whom great masses of individuals relied for their safety and their livelihood, and whose irresponsibility and greed (if it were not controlled) would reduce them to starvation and penury.
The concentration of financial power had not proceeded so far in 1912 as it has today; but it had grown far enough for Mr. Wilson to realize fully its implications.
It is interesting, now, to read his speeches. What is called “radical” today (and I have reason to know whereof I speak) is mild compared to the campaign of Mr. Wilson. “No man can deny,” he said, “that the lines of endeavor have more and more narrowed and stiffened; no man who knows anything about the development of industry in this country can have failed to observe that the larger kinds of credit are more and more difficult to obtain unless you obtain them upon terms of uniting your efforts with those who already control the industry of the country, and nobody can fail to observe that every man who tries to set himself up in competition with any process of manufacture which has taken place under the control of large combinations of capital will presently find himself either squeezed out or obliged to sell and allow himself to be absorbed”.
[...]A glance at the situation today only too clearly indicates that equality of opportunity as we have known it no longer exists. Our industrial plant is built; the problem just now is whether under existing conditions it is not overbuilt.
Our last frontier has long since been reached, and there is practically no more free land. More than half of our people do not live on the farms or on lands and cannot derive a living by cultivating their own property. There is no safety valve in the form of a Western prairie to which those thrown out of work by the Eastern economic machines can go for a new start. We are not able to invite the emmigration from Europe to share our endless plenty. We are now providing a drab living for our own people.
Our system of constantly rising tariffs has at last reacted against us to the point of closing our Canadian frontier on the north, our European markets on the east, many of our Latin American markets to the south. It has forced many of our great industrial institutions who exported their surplus production to such countries, to establish plants in such countries, within the tariff walls. [...]
Recently a careful study was made of the concentration of business in the United States. It showed that our economic life was dominated by some six hundred odd corporations who controlled two thirds of American industry. Ten million small businessmen divided the other third. More striking still, it appeared that if the process of concentration goes on at the same rate, at the end of another century we shall have all American industry controlled by a dozen corporations, and run by perhaps a hundred men. But plainly, we are steering a steady course toward economic oligarchy, if we are not there already.
Clearly, all this calls for a re-appraisal of values. A mere builder of more industrial plants, a creator of more railroad systems, an organizer of more corporations, is as likely to be a danger as a help. The day of the great promoter or the financial Titan, to whom we granted everything if only he would build, or develop, is over. Our task now is not discovery, or exploitation of natural resources, or necessarily producing more goods. It is the soberer, less dramatic business of administering resources and plants already in hand, of seeking to reestablish foreign markets for our surplus production, of meeting the problem of under consumption, of adjusting production to consumption, of distributing wealth and products more equitably, of adapting existing economic organizations to the service of the people. The day of enlightened administration has come.
Just as in older times the central government was first a haven of refuge, and then a threat, so now in a closer economic system the central and ambitious financial unit is no longer a servant of national desire, but a danger.[...]
The exposition need not further be elaborated. It is brief and incomplete, but you will be able to expand it in terms of your own business or occupation without difficulty. I think everyone who has actually entered the economic struggle—which means everyone who was not born to safe wealth—knows in his own experience and his own life that we have now to apply the earlier concepts of American Government to the conditions of today.

Commonwealth Club, San Francisco, 1932, Franklin Delano Roosevelt


...Anche Jefferson si rendeva conto che l'esercizio del diritto di proprietà poteva interferire nei diritti dell'individuo in modo tale che il governo, senza la cui assistenza i diritti di proprietà non potrebbero esistere, doveva intervenire, non per distruggere l'individualismo, ma per proteggerlo.
Voi conoscete bene il grande duello politico che ne seguì; e come Hamilton, e i suoi amici, che lavoravano per il dominio di un potere centralizzato, furono alla fine sconfitti, nella grande elezione del 1800, dal partito di Jefferson. Da quel duello sorsero i due partiti, repubblicano e democratico, come li conosciamo oggi.
Così cominciò, nella vita politica americana, il nuovo giorno; il giorno dell'individuo contro il sistema, il giorno in cui l'individualismo divenne la grande parola-chiave della vita americana. [...]
Tuttavia, un'ombra gravava sul sogno. Per essere attuato, esso richiedeva l'utilizzo dei talenti di uomini dalla terribile volontà e dalla terribile ambizione, dal momento che nessuna altra forza poteva affrontare i problemi della finanza, dell'ingengneria e dei nuovi sviluppi.
Tuttavia i vantaggi dell'età della macchina erano così evidenti che gli Stati Uniti accettarono spavaldamente, allegramente e, ritengo, correttamente, i rischi connessi. Si ritenne che nessun prezzo era troppo alto per i vantaggi che potevamo trarre da un sistema industriale avanzato.
La storia della seconda metà del secolo scorso [1800 ndr] è di conseguenza, in grande misura, la storia di un gruppo di titani della finanza i cui metodi non venivano vagliati con troppa attenzione e che venivano onorati a seconda dei loro risultati senza riguardo per i mezzi utilizzati. I finanzieri che spinsero le ferrovie fino al Pacifico erano sempre spietati, spesso scialacquatori, e frequentemente corrotti; ma essi costruirono le ferrovie, e noi le usiamo ancora oggi. [...]
Woodroow Wilson, eletto nel 1912, vedeva più chiaramente la situazione. Mentre Jefferson aveva temuto il peso del potere politico sulla vita degli individui, Wilson sapeva che il nuovo potere era finanziario. Egi vedeva nel sistema economico altamente centralizzato il despota del ventesimo secolo, da cui grande masse di individui dipendevano per la loro sicurezza e la loro sussistenza; se privo di controllo, la sua irresponsabilità e avidità avrebbe ridotto quelle masse alla fame e alla miseria.
La concentrazione di potere finanziario non era giunta, nel 1912, ai livelli attuali(1932); ma era abbastanza perchè Wilson ne comprendesse tutte le implicazioni.
E' interessate, oggi,leggere i suoi discorsi. Ciò che viene considerato "radicale" oggigiorno è moderato rispetto alla campagna di Wilson: "Nessuno può negare" - affermava - "che gli spazi di iniziativa si sono sempre più ristretti e irrigiditi; chiunque sappia qualcosa sullo sviluppo dell'industria in questo paese non può aver ignorato che i tipi di credito più significativi sono sempre più difficili da ottenere se non unendo i propri sforzi con coloro che già controllano le industrie del paese, e nessuno può ignorare che chiuque cerchi di mettersi in concorrenza con qualche industria sotto il controllo di una grande combinazione di capitali si troverà in realtà schiacciato o obbligato a vendere e a lasciarsi assorbire". [...]
Un'occhiata alla situazione odierna indica fin troppo chiaramente che l'eguaglianza di opportunità che abbiamo conosciuto non esiste più. Il nostro apparato industriale è costruito; il problema attuale è se, nelle attuali condizioni, esso non sia eccessivo.
La nostra ultima frontiera è stata raggiunta da gran tempo e non esistono più praticamente terre libere. Più della metà della nostra popolazione non vive in fattorie o dei frutti della terra, e non può trarre reddito dalla coltivazione di proprietà. Non esiste più una valvola di sicurezza in una prateria occidentale a cui coloro che sono espulsi dall'apparato produttivo orientale possono rivolgersi per una nuova partenza. Noi non possiamo più invitare immigrazione dall'Europa a dividere la nostra abbondanza senza fine. Noi stiamo ormai offrendo una cupa esistenza al nostro popolo.
Il nostro sistema di tariffe costantemente crescenti ci si è, alla fine, rivoltato contro, fino al punto di chiudere la frontiera canadese al nord, i mercati europei all'est, molti dei mercati latino americani al sud. [...] Ciò ha obbligato alcune delle grandi imprese industriali che esportavano le loro eccedenze di produzione in questi paesi a costruirvi stabilimenti, entro i muri delle tariffe. [...]
Recentemente è stato fatto un attento studio della concentrazione degli affari egli Stati Uniti. Esso ha mostrato che la nostra vita economica è dominata da circa seicento grandi società che controllano i due terzi dell'industria americana. Dieci milioni di piccoli uomini d'affari si dividono l'altro terzo. Ancora più sorprendente, è emerso che se il processo di concentrazione procederà allo stesso ritmo, alla fine di un altro secolo tutta l'industria americana sarà controllata da una dozzina di grandi società, e guidata da un centinaio di uomini. Detto chiaramente, noi stiamo procedendo costantemente verso un'oligarchia economica, posto che non ci siamo già arrivati.
Chiaramente tutto ciò richiede una ridefinizione dei valori. Un semplice costruttore di impianti industriali, un creatore di sistemi ferroviari, un organizzatore di grandi società, preso come tale può essere tanto un pericolo quanto un aiuto. Il tempo dei grandi promotori o dei titani finanziari a cui permettevamo tutto purchè costruissero o andassero avanti, è passato. Il nostro compito, oggi, non è quello di scoprire o sfruttare risorse naturali, o di produrre necessariamente più merci. Esso consiste nel più sobrio, meno drammatico, impegno di gestire le risorse e gli impianti già in essere, di affrontare il problema del sottoconsumo, di adeguare la produzione al consumo, di distribuire la ricchezza e i prodotti più equamente, di adattare le organizzazioni economiche esistenti al servizio della gente. E' giunto il tempo dell'amministrazione illuminata.
Come ai vecchi tempi il governo centralizzato, dapprima rifugio, divenne minaccia, così ora in un sistema economico più chiuso l'unità finanziaria centralizzata e ambiziosa non è più al servizio di un'esigenza nazionale ma è un pericolo. [...]
Non occorre elaborare ulteriormente questa esposizione. E' breve e incompleta, ma voi sarete in grado di allargarla secondo i vostri interessi senza difficoltà. Io penso che chiunque sia effettivamente introdotto nella lotta economica sappia per propria diretta esperienza che noi dobbiamo ora applicare gli originali concetti del governo americano alle condizioni di oggi.

Commonwealth Club di San Francisco, 1932, Franklin Delano Roosevelt