Un Amore

Stare con te era come stare in prima linea. Era un continuo piovere di razzi, granate, napalm, un perenne scavare trincee, andare in pattuglia su sentieri minati, lanciare attacchi, ferire e venire feriti, urlare, singhiozzare, chiama il barelliere, dammi il caricatore, comandante non ce la faccio più...

Un Uomo, Oriana Fallaci



[...] il tuo carattere non mi piaceva molto: con le sue smoderatezze, le sue ferocie, le sue sfuriate cattive e senza senso, le sue ebbrezze del primo stadio, secondo stadio, terzo stadio, le sue durezze di roccia, le sue chiusure da ostrica. Più tentavo di aprire l'ostrica per estrarne la perla, più lei mi resisteva colando un liquido nero, più scavavo la roccia in cerca di rubini e smeraldi più trovavo sassi e carbone.
Il tuo bosco era pieno di sterpi, di spine, appena vi coglievo un fiore mi graffiavo, mi insanguinavo. E l'arroganza grazie a cui pareva che tutto ti fosse permesso, la faciloneria con cui liquidavi situazioni e problemi, le contraddizioni in cui precipitavi. Tutte tare per me deplorevoli.
Ma allora perché avevo quell'impulso di correrti dietro, abbracciarti, sentire i tuoi baffi contro la mia guancia, perché ora sentivo il bisogno di raschiarmi la gola e ricacciare indietro le lacrime? [...]
Eppure non ero fisicamente gelosa di te. Non lo ero mai stata, nemmeno all'inizio quando m'ero accorta che accendere desideri solleticava la tua vanità, nemmeno in seguito quando i tuoi riti dionisiaci erano esplosi e t'avevo visto mordere la pipa fissando l'elefantessa e l'efebo secco che danzavano al buzuki. Parlo della gelosia che svuota le vene all'idea che l'essere amato penetri il corpo altrui, la gelosia che piega le gambe, toglie il sonno, distrugge il fegato, arrovella i pensieri, la gelosia che avvelena l'intelligenza con interrogativi, sospetti, paure, e mortifica la dignità con indagini, lamenti, tranelli, facendoti sentire derubato, ridicolo, trasformandoti in poliziotto inquisitore carceriere dell'essere amato.
Forse per cerebralismo, coerenza al principio che i rapporti d'amore debbano essere reinventati e anzitutto scrostati delle scorie, dei fardelli che a lungo andare li rendono soffocanti, m'ero sempre proibita di provare simili sofferenze per te. Saperti desiderato anzi mi lusingava, vederti aperto alle tentazioni mi divertiva, a volte le due cose aizzavano addirittura il gusto di disputarti a un'ingordigia che io stessa nutrivo essendoti compagna. Solo negli ultimi tempi i tuoi eccessi mi avevano addolorato, e non per il fatto di sapermi sostituita un'ora o una notte bensì per il torto che facevi a te stesso esponendoti a pettegolezzi, accettando i costumi di una società che volevi cambiare, adeguandoti alle sozzure di una sottocultura dove il culto del fallo umilia l'intelligenza. Tuttavia neanche allora avevo ceduto all'indignazione che ammutolisce e spinge a chiuderci la porta alle spalle dopo aver lasciato le chiavi sul letto.[...]
Forse non ero innamorata di te, o non volevo esserlo, forse non ero gelosa di te, o non volevo esserlo, forse m'ero detta un mucchio di verità e di menzogne, ma una cosa era certa: ti amavo come non avevo mai amato una creatura al mondo, come non avrei mai amato nessuno.
Una volta avevo scritto che l'amore non esiste, e se esiste è un imbroglio: che significa amare? Significava ciò che ora provavo a immaginarti impietrito, perdio, con lo sguardo di un cane preso a calci perché ha fatto pipì sul tappeto, perdio! Ti amavo, perdio. Ti amavo al punto da non sopportare l'idea di ferirti pur essendo ferita, di tradirti pur essendo tradita, e amandoti amavo i tuoi difetti, le tue colpe, i tuoi errori, le tue bugie, le tue bruttezze, le tue miserie, le tue volgarità, le tue contraddizioni, il tuo corpo con le sue spalle troppo tonde, le sue braccia troppo corte, le sue mani troppo tozze, le sue unghie strappate. E certo l'amore non ha per oggetto un corpo, però anche se eravamo separati da un oceano quel corpo io lo portavo a letto con me, nel ricordo lo abbracciavo come quando abitavamo la casa nel bosco, d'inverno, e la notte faceva freddo e ci scaldavamo così, la mia testa contro la tua testa, il mio ventre contro il tuo ventre, le gambe annodate, oppure quando stavamo distesi nella camera di via Kolokotroni l'estate, i pomeriggi erano afosi e ci scostavamo ridendo, via-roba-calda, ma c'era sempre un momento in cui i tuoi occhietti strani, uno più alto e uno più basso, uno più chiuso e uno più aperto, mi ubriacavano di dolcezza, sicchè mi chinavo a baciare le tue palpebre gonfie, mandorle di carne, accarezzare con la punta dell'indice il tuo naso buffo, i tuoi baffi spinosi, le tue labbra increspate da tante rughine, labbra di vecchio dicevi, e strisciandoti il dito sul mento poi sulla mascella poi sullo zigomo risalivo lentissimamente agli orecchi, perfetti questi, ben disegnati, e tu subivi felice che ti ammirassi almeno gli orecchi: "Che orecchi! Che orecchi!"
E forse il tuo carattere non mi piaceva, né il tuo modo di comportarti, però ti amavo di un amore più forte del desiderio, più cieco della gelosia: a tal punto implacabile, a tal punto inguaribile, che ormai non potevo più concepire la vita senza di te. Ne facevi parte quanto il mio respiro, le mie mani, il mio cervello, e rinunciare a te era rinunciare a me stessa, ai miei sogni che erano i tuoi sogni, alle tue illusioni che erano le mie illusioni, alle tue speranze che erano le mie speranze, alla vita!
E l'amore esisteva, non era un imbroglio, era piuttosto una malattia, e di tale malattia potevo elencare tutti i segni, i fenomeni. Se parlavo di te con gente che non ti conosceva o alla quale non interessavi, mi affannavo a spiegare quanto tu fossi straordinario e geniale e grande; se passavo dinanzi a un negozio di cravatte e camice mi fermavo d'istinto a cercare la cravatta che si sarebbe piaciuta, la camicia che sarebbe andata d'accordo con una certa giacca; se mangiavo in un ristorante sceglievo senza accorgermene i piatti che tu preferivi e non che preferivo io; se leggevo il giornale notavo sempre la notizia che a te avrebbe interessato di più, la ritagliavo e te la spedivo; se mi svegliavi nel cuor della notte con un desiderio o con una telefonata, mi fingevo più desta di un fringuello che canta al mattino.[...]
Ma un amore simile non era neanche una malattia, era un cancro! Un cancro. Come un cancro che a poco a poco invade gli organi col suo moltiplicarsi di cellule, il suo plasma vischioso di male, e più cresce più divieni cosciente del fatto che nessuna medicina può arrestarlo, nessun intervento chirurgico può asportarlo, forse sarebbe stato possibile quand'era un granellino di sabbia, un chicco di riso, una voce che grida egò s'agapò, un amplesso mentre il vento fruscia tra i rami d'olivo, ora invece non è possibile perchè ti ruba ogni tuo organo, ogni tessuto, ti divora al punto che non sei più te stessa ma un impasto fuso con lui, un unico magma che può disfarsi solo con la morte, la sua morte che sarebbe anche la tua morte, così tu mi avevi invaso e mi stavi divorando, ammazzando.
V'è una caratteristica lugubre negli ammalati di cancro: appena capiscono che esso ha vinto o sta per vincere, cessano di opporgli i farmaci, il bisturi, la volontà e si lasciano uccidere con sottomissione, senza maledirlo, neanche rimproverarlo del martirio che esige. Il-mio-male, lo chiamano con affettuosa indulgenza, quasi fosse un amico, un padrone, o un possesso di cui non possono fare a meno, e quel "mio" risuona a volte con accento soave: lo stesso che gorgogliava nella mia voce appena pronunciavo il tuo nome.
Ecco, a tale stadio ero giunta per non averti estirpato quando eri un granellino di sabbia, un chicco di riso, e sebbene l'istinto m'avesse avvertito che chiunque entrasse nella tua sfera perdeva la pace per sempre.
Eppure di occasioni per sfuggirti ne avevo avute [...] ma le avevo sempre respinte e così il cancro aveva proseguito il suo corso per dimostrarmi che amare significa soffrire, che l'unico modo per non soffrire è non amare, che nei casi in cui non puoi fare a meno di amare sei destinato a soccombere. In altre parole il mio problema era insolubile, la mia sopravvivenza impossibile, e la fuga non serviva a nulla.

Un Uomo, Oriana Fallaci


Alla mia amata Oriana

Viaggio per inesplorate acque su una nave
che, come milioni di altre simili, peregrina
per oceani e mari
su rotte regolari
E altre ancora
(molte, davvero molte anche queste)
gettano l’ancora nei porti.

Per anni ho caricato questa nave
con tutto quello che mi davano
e che prendevo con enorme gioia
E poi
(lo ricordo come fosse oggi)
la dipingevo a tinte sgargianti
e stavo attento
che non si macchiasse in nessun punto
La volevo bella per il mio viaggio
E dopo avere atteso tanto –proprio tanto
giunse alla fine il momento di salpare
e salpai…

(Nave io e capitano
ed equipaggio per trovarti
fammi a pezzi
ma non farmi sanguinare il corpo)

Quando mi trovai in mare aperto
onde immense mi travolsero
e mi straziarono per rivelarmi
amare verità che ignoravo
Verità che dovevo imparare
Nell’abbraccio dell’oceano
con un lungo furente fragore
la solitudine
divenne per me faro del pensiero
indicando strade nuove

Il tempo passava e io
iniziavo a tracciare la rotta
ma non come mi avevano insegnato al porto
(anche se la mia nave mi sembrava diversa allora)
Così il mio viaggio
ora lo vedevo diverso
senza più pensare a porti e commerci
Il carico mi appariva ormai superfluo
ma continuavo a viaggiare
conoscendo il valore della nave
conoscendo il valore della merce

E continuo ancora il viaggio
che scricchiolino incessantemente le giunzioni
sperando che non si spezzino
perché sono legni marci da anni
(secoli dovrei dire)
verniciati di recente ma senza
una forza nuova che li tenga uniti
la rotta sempre contro il tempo
nella stiva solo zavorra
Zavorra che mi dissero
merce preziosa, come quella
che di solito si compra nei porti
Ma se dicessi che mi hanno ingannato
non sarei onesto
osservo la bussola
senza sosta
con accanto la mappa
su cui studio la rotta
lontano dai porti che segnalano il passaggio
Quando poi succede che splendano
(che istanti difficili!)
all’orizzonte i porti della terra
l’equipaggio guarda le luci
(luci sirene
che promettono molto
che anche il cuore e la carne pretendono)
sempre aspettando che dica
al timoniere di far virare la nave
e attraccare almeno un poco
Mentre l’ora trascorre e io
osservo silenzioso la carta
tutt’intorno cresce il tumulto
Proposte subdole
vestite con idee
idee vendute che vogliono sempre
Adornare l’inazione con le parole
e minacce
che vogliono passare per consigli
e promesse
che tentano la bestia e la risvegliano…
Quelle sono ore difficili
perché da ognuna di loro
dipende l’intero viaggio
E continuo ancora il viaggio
Desideri radicati nell’anima
sono diventati bussola per la mia nave
la mia mappa
altrettanto misteriosa
Ci sono ore in cui credo
che sia stata fatta
per chi non voglia approdare in nessun porto
e altre ore in cui confido
che il viaggio avvenga perché
su questa carta bisogna trovare
qualche cosa che manca
Così vado alla ricerca
guardando la mappa la bussola il cielo
in cielo, rintracciare segnali
nuove prove che dimostrino
che la bussola non sbaglia nel segnare
Non stupirti, questo non significa
che io abbia dei dubbi sulla mia bussola
E’ solo un’abitudine- una vecchia abitudine
che per secoli accompagnava l’anima
questa compagna
preziosa per i tempi bui
quando c’erano soltanto i semi nell’anima
degli amori che ora sono fioriti

E vado alla ricerca
Guardando la mappa la bussola il cielo
Le onde immense sembra che cerchino
di fare il gioco di chi vuole
che attracchi da qualche parte per un po’
E’ ognuna
di quelle onde un Golgota
e pensa
che la tempesta imperversa ininterrotta
Ma mentre aumenta
temo sempre più
che la spaventosa furia del mare
mi conduca ad avvistare
porti là sulla costa
porti che la mia mappa non indica
Sono ostacoli e momenti difficili
l’abbiamo detto
l’equipaggio comincerà a ribollire
quando quei porti appariranno sulla costa

E continuo il viaggio
alla ricerca ancora
pur sapendo di essere
nell’infinito del tempo un istante
nell’abisso dello spazio un puntino

E continuo il viaggio
anche se sono tenebra
e tutto atorno a me è tenebra
e la tempesta lo rende più spaventoso

E continuo il viaggio
e mi basta
che io tenebra
abbia amato la luce.

Alekos

Un Uomo

Fui sempre, e sono, un combattente che lotta per una Grecia migliore, un domani migliore, una società insomma che creda nell'Uomo. Se io mi trovo qui è perchè credo nell'Uomo. E credere nell'Uomo significa credere nella sua libertà. Libertà di pensiero, di parola, di critica, di opposizione: tutto ciò che il golpe fascista di Papadopulos ha eliminato.
Io non amo la violenza. La odio. Non mi piace nemmeno l'assassinio politico. Quando esso avviene in un paese dove esiste un libero Parlamento e ai cittadini è data la libertà di esprimersi, di opporsi, di pensare in maniera diversa, io lo condanno con disgusto e con ira. Ma quando un governo si impone con la violenza e con la violenza impedisce ai cittadini di esprimersi, di opporsi, addirittura di pensare, allora ricorrere alla violenza è una necessità. Anzi un imperativo. Gesù Cristo e Gandhi ve lo spiegherebbero meglio di me. Non c'è altra via, e che io non vi sia riuscito non conta. Altri seguiranno. E riusciranno. Preparatevi e tremate.

Alexandros "Alekos" Panagulis



Un ruggito di dolore e di rabbia si alzava sulla città, e rintronava incessante, ossessivo, spazzando qualsiasi altro suono, scandendo la grande menzogna. Zi, zi, zi! Vive, vive, vive! Un ruggito che non aveva nulla di umano. Infatti non si alzava da esseri umani, creature con due braccia e due gambe e un pensiero proprio, si alzava da una bestia mostruosa e senza pensiero, la folla, la piovra che a mezzogiorno, incrostata di pugni chiusi, di volti distorti, di bocche contratte, aveva invaso la piazza della cattedrale ortodossa poi allungato i tentacoli nelle strade adiacenti intasandole, sommergendole con l’implacabilità della lava che nel suo straripare divora ogni ostacolo, assordandole con il suo zi, zi, zi! Sottrarsene era illusione. Alcuni tentavano, e si chiudevano nelle case, nei negozi, negli uffici, ovunque sembrasse di trovare un riparo, non udire almeno il ruggito, ma filtrando attraverso le porte, le finestre, i muri, esso gli giungeva ugualmente agli orecchi sicché dopo un poco finivano con l’arrendersi al suo sortilegio. Col pretesto di guardare uscivano, andavano incontro a un tentacolo e ci cadevano dentro, diventavano anche loro un pugno chiuso, un volto distorto, una bocca contratta. Zi, zi, zi! E la piovra cresceva, si spandeva in sussulti, a ciascun sussulto altri mille, altri diecimila, altri centomila. Alle due del pomeriggio erano cinquecentomila, alle tre un milione, alle quattro un milione e mezzo, alle cinque non si contavano più. Non venivano soltanto dalla città, da Atene. Venivano anche da lontano, dalle campagne dell’Attica e dell’Epiro, dalle isole dell’Egeo, dai villaggi del Peloponneso, della Macedonia, della Tessaglia: coi treni, coi battelli, con gli autobus, creature con due braccia e due gambe e un pensiero proprio prima che la piovra li inghiottisse, contadini e pescatori con l’abito della domenica, operai con la tuta, donne coi bambini, studenti. Il popolo insomma. Quel popolo che fino a ieri t’aveva scansato, lasciato solo come un cane scomodo, ignorandoti quando dicevi non lasciatevi intruppare dai dogmi, dalle uniformi, dalle dottrine, non lasciatevi turlupinare da chi vi comanda, da chi vi promette, da chi vi spaventa, da chi vuole sostituire un padrone con un nuovo padrone, non siate gregge perdio, non riparatevi sotto l’ombrello delle colpe altrui, lottate, ragionate col vostro cervello, ricordate che ciascuno è qualcuno, un individuo prezioso, responsabile, artefice di se stesso, difendetelo il vostro io, nocciolo di ogni libertà, la libertà è un dovere, prima che un diritto è un dovere. Ora ti ascoltavano, ora che eri morto. Dirigendosi verso la piovra portavano il tuo ritratto, cartelli di minacce e di sfida, bandiere, ghirlande di alloro, corone a forma di A, di P, di Z, A per Alekos, P per Panagulis, Z per zi, zi, zi. Quintali di gardenie, garofani, rose. E faceva un caldo atroce quel mercoledì 5 maggio 1976, il puzzo dei petali cotti appestava, mi toglieva il respiro quanto la certezza che tutto ciò non sarebbe durato che un giorno, poi il ruggito si sarebbe spento, il dolore si sarebbe dissolto nell’indifferenza, la rabbia nell’ubbidienza, e le acque si sarebbero placate morbide molli obliose sul gorgo della tua nave affondata: il Potere avrebbe vinto ancora una volta. L’eterno Potere che non muore mai, cade sempre per risorgere dalle sue ceneri, magari credi di averlo abbattuto con una rivoluzione o un macello che chiamano rivoluzione e invece rieccolo, intatto, diverso nel colore e basta, qua nero, là rosso, o giallo o verde o viola, mentre il popolo accetta o subisce o si adegua. Per questo sorridevi quel sorriso impercettibile, amaro e beffardo?
La morte si affronta, le torture si subiscono, i silenzi no.
L'abitudine è la più infame delle malattie perchè ci fa accettare qualsiasi disgrazia, qualsiasi dolore, qualsiasi morte. Per abitudine si vive accanto a persone odiose, si impara a portare le catene, a subire ingiustizie, a soffrire.
Ci si rassegna al dolore, alla solitudine, a tutto.
L'abitubine è il più spietato dei veleni perchè entra in noi molto lentamente, silenziosamente, cresce poco a poco, nutrendosi della nostra inconsapevolezza, quando scopriamo di averla addosso ogni fibra di noi si è già adeguata, ogni gesto si è condizionato, non esiste più medicina che possa guarirci.
Come acqua di cannella che goccia monotona, sempre unguale a se stessa,martellando rintocchi ossessivi, nel silenzio della notte vuota,sicchè a forza di udirla ti senti impazzire e inochi un rumore diverso,uno schianto magari, uno sparo che uccida, tutto fuorchè quell'atroce uniformità, quel buio.
Morto un leader se ne inventa un altro, morto un uomo d'azione se ne trova un altro, morto un poeta, invece, eliminato un eroe, si forma un vuoto incolmabile e bisogna attendere che gli dei lo facciano resuscitare, chissà dove, chissà quando.

Un Uomo, Oriana Fallaci
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ΕΚΠΛΗΞΕΙΣ

Κέρδιζα μια ζωή
Ένα εισιτήριο για το θάνατο
Και ταξιδεύω ακόμη
Κάποιες στιγμές
νόμισα πως έφτανα
στου ταξιδιού το τέλος.
Μα έκανα λάθος.
Εκπλήξεις ήταν μόνο
της διαδρομής.

Αλέξανδρος "Αλέκος" Παναγούλης


SORPRESE

Ho guadagnato una vita
un biglietto per la morte
e viaggio ancora
in certi momenti ho creduto
di essere
alla fine del viaggio
mi sbagliavo
erano solo
imprevisti del cammino.

Alexandros "Alekos" Panagulis

Berlusconeide





















Quando c'era Silvio di Beppe Cremagni e Enrico Deaglio
Regia: Ruben H. Oliva
Fotografia: Armando Bolzoni
Musiche: Carlo Boccadoro
con Lella Costa e Jean Blancheart

I furbetti del Lingotto

Solo gli imprenditori e i grandi manager sono riusciti, finora, a scansare il banco degli imputati, assumento il tono severo e l'espressione accigliata dei giudici imparziali. Danno la pagella a tutti gli altri e trovano sempre nel contesto politico-sociale, nazionale e internazionale, le cause del cattivo andamento delle loro imprese. Ma ritenerli l'unica categoria esente da responsabilità sarebbe perlomeno illogico.

La paga dei padroni, Gianni Dragoni e Giorgio Meletti
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Art. 185 - Manipolazione del mercato
1. Chiunque diffonde notizie false o pone in essere operazioni simulate o altri artifizi concretamente idonei a provocare una sensibile alterazione del prezzo di strumenti finanziari, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da euro ventimila a euro cinque milioni.
2. Il giudice può aumentare la multa fino al triplo o fino al maggiore importo di dieci volte il prodotto o il profitto conseguito dal reato quando, per la rilevante offensività del fatto, per le qualità personali del colpevole o per l'entità del prodotto o del profitto conseguito dal reato, essa appare inadeguata anche se applicata nel massimo.
2-bis. Nel caso di operazioni relative agli strumenti finanziari di cui all’articolo 180, comma 1, lettera a), numero 2), la sanzione penale è quella dell’ammenda fino a euro centotremila e duecentonovantuno e dell’arresto fino a tre anni.
Decreto Legislativo 24 febbraio 1998, n. 58
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La legge deve affermarsi sul mercato. Gli imputati hanno sottolineato di aver salvato la Fiat: non escludo che queste persone siano tra le migliori che operano sul mercato. Ma proprio per questo è irrinunciabile la pretesa che i migliori rispettino la legge... Spiegano di aver evitato lo "spezzatino". Ma chi è stato a gettare la Fiat come una mezzena sul bancone del macellaio?

Requisitoria al processo contro i vertici Fiat per reato di aggiotaggio informativo.
Giancarlo Avenati Bassi, Sostituto Procuratore della Repubblica









"La Fiat, un'azienda che pochi anni fa era a un passo dalla vendita oggi sbarca in America e compra la Chrysler, mentre in Germania è a un passo dall'acquisto della Opel, il prestigioso marchio europeo controllato dalla General Motors. Il piano Marchionne ha portato la Fiat al centro dello scenario economico mondiale. L'indebitamento della Fiat consente un'operazione di questa portata? Gli aiuti di Stato al settore dell'auto nei paesi dove la Fiat compra, Germania e Stati Uniti, sono la ragione dell'operazione? Gli stabilimenti italiani della Fiat, come Pomigliano d'Arco e Termini Imerese, rischiano la chiusura? La Fiat è da sempre della famiglia Agnelli. Sarà ancora così o di fatto l'azienda torinese sta uscendo dall'Italia?"
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Il 15 settembre 2005 per il gruppo Fiat andava in scadenza un prestito, un cosiddetto “convertendo”, pari a oltre 3 miliardi di euro. Un "convertendo" è un presito che alla sua maturazione prevede, appunto, l'esercizio di una opzione di conversione del finanziamento in azioni. Quindi, o la Fiat rimborsava il valore nominale del debito alle banche, che a livello aggregato risultava pari ad oltre 3 milardi di euro (corrispondente a 10,28 euro per azione) o le banche entravano nel capitale azionario Fiat, convertendo le obbligazioni in azioni (per circa l’8% del capitale) e facendo in modo che la quota di controllo dell’Ifil (la finanziaria attraverso cui gli Agnelli controllano Fiat) scendesse dal 30 al 22%. Le banche (tra cui Intesa, Unicredit, San Paolo e Mps) sarebbero invece arrivate al 28%, assumendo di fatto il controllo.
Nella primavera 2005 le azioni Fiat scesero ai minimi storici con un prezzo di 4,38 euro. Più a fondo di così non si poteva andare. Il 26 aprile 2005 Exor, una società di diritto lussemburghese di cui Gabetti e Grande Stevens sono rispettivamente Presidente ed Amministratore Delegato, stipulò con la Merrill Lynch un contratto derivato di equity swap. A pronti contro termine la banca si impegnava a rastrellare sul mercato 90 milioni di azioni ordinarie Fiat a 5,5 euro; al termine, in caso di plusvalenza, la Fiat avrebbe incassato il capital gain dalla banca, mentre in caso di minusvalenza avrebbe dovuto rimborsare la banca per coprire la perdita.
In pratica Exor, società controllante di Fiat tramite la sua partecipazione strategica in Ifil (la cassaforte della famiglia Agnelli) prende posizione puntando su un apprezzamento delle quotazioni di quella che è la società operativa in fondo alla sua catena di controllo, la Fiat appunto.
In Italia vige una una legge per cui, se un soggetto, da solo o in accordo con altri, supera la soglia del 30% della proprietà azionaria (come nel caso della Ifil, la finanziaria degli Agnelli) allora deve lanciare una Opa, cioè un'offerta pubblica d’acquisto totalitaria, obbligatoria per tutte le azioni (Decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52. Art. 106: "Chiunque, a seguito di acquisti, venga a detenere una partecipazione superiore alla soglia del trenta per cento promuove un'offerta pubblica di acquisto rivolta a tutti i possessori di titoli sulla totalità dei titoli ammessi alla negoziazione in un mercato regolamentato in loro possesso"). Il tutto sotto controllo da parte dell'autorità di vigilanza sulla Borsa, la Consob.
Le azioni Fiat che stavano a 4,38 euro in primavera, cominciano a salire. Tra aprile, giugno e luglio vanno da 5 a 6 a 7 euro, e i rumors dicono che un compratore sta scalando la Fiat. Quando Merrill Lynch, che compra le azioni per la Exor, oltrepassa la soglia di partecipazione rilevante, fissata al 2% dalla normativa, comunica alla Consob questa variazione nell’assetto azionario della Fiat. Ma le altre comunicazioni alla Consob, in seguito al superamento del 5% e del 7,5% durante la fase di rastrellamento, non vengono fatte nonostante in questa fase le azioni Fiat stiano aumentando il loro valore di mercato senza nessuna notizia rilevante di natura industriale.
Il 21 luglio la Consob chiede a Fiat e Ifil un comunicato di commento. Viene data risposta che “la società non dispone di alcun elemento utile o di informazioni relative a fatti rilevanti tali da influire sulle quotazioni”.
Il 27 agosto dalla Consob contattano Grande Stevens e Gabetti per chiedere: “Non è che per caso state comprando voi?”. E quelli fingono di cadere dalle nuvole: “Noi? nooo, ma che scherzate? Noi non abbiamo preso nessuna iniziativa in relazione alla scadenza del prestito”.
Il 15 settembre, neppure tre settimane dopo, si chiude il cerchio. Si esegue l’aumento di capitale, già annunciato e probabilmente scontato dal mercato, al servizio del prestito convertendo. In questo modo la Ifil perde circa l’8% del capitale in Fiat (precedentemente la partecipazione di Ifil in Fiat era pari al 30,6%) e rischia un take over ostile, perdendo il controllo della società. Per i piccoli azionisti potrebbe andare bene perché potrebbero vedere aumentare il prezzo del titolo a causa della contesa per il controllo, mentre la Ifil rischia di perdere il controllo di fatto della società.
Ma Ifil annuncia "a sorpresa" di aver comprato, a soli cinque giorni dalla scadenza del prestito di "convertendo", dalla Exor - una finanziaria lussemburghese riconducibile sempre agli Agnelli – più di 80 milioni di azioni Fiat!
La Exor a sua volta li aveva comprati, come visto, tramite la Merryll Linch, con un contratto di equity swap, a 5,5 euro l’una. Grande Stevens, infatti, modifica con Merril Lynch il contratto di equity swap riscattando simultaneamente all’aumento di capitale, le azioni oggetto del contratto, anziché incassare la plusvalenza in contanti.
Ifil mantiene così il 30,4% di Fiat senza aver mai rischiato di perdere il controllo della società operativa e senza la necessità di fare una nuova OPA totalitaria, come visto obbligatoria per legge in caso di superamento del 30% del capitale azionario. L’obiettivo dei vertici era infatti mantenere la quota azionaria prima dell’aumento di capitale ed aveva le seguenti alternative: pagare 10,28 euro per azione alle banche per il convertendo o spendere 6,5 euro per azione per acquisire da Exor i titoli necessari a mantenere il controllo di Fiat. La scelta fu scontata quanto scorretta.
Gianni Dragoni nel suo libro conclude: “Così l’Ifil risalì all’istante al 30,4%, spendendo meno di quanto avrebbe fatto se avesse acquistato i titoli sul mercato. L’operazione ha fruttato un guadagno di 8 milioni a Merryll, di 74 alla Exor, che le ha rivendute a Ifil a un prezzo maggiore di quello pagato alla banca. Il guadagno è andato soprattutto agli Agnelli, detentori attraverso l’accomandita di famiglia del 70% di Exor. Quando l’operazione fu svelata, il titolo perse di colpo il 7,9%: per tutti gli altri azionisti il danno fu evidente”.
Gabetti e Grande Stevens sono stati ovviamente rinviati a giudizio e processati a Torino, per il reato di aggiotaggio, mentre la causa civile è arrivata al secondo grado di giudizio, con condanna.
Il pm ha chiesto per Franzo Grande Stevens, 2 anni e 6 mesi di reclusione e una multa di 500.000 euro, e per Gianluigi Gabetti, due anni e 400.000 euro. Per le società coinvolte, l'Ifil e l'accomandita di famiglia, una sanzione di 700.000 euro.
Ma non c'è da preoccuaprsi, se la caveranno tutti. Anche se Grande Stevens e Gabetti dovessero essere riconosciuti colpevoli fino in Cassazione, il tempo non tornerà indietro: Gabetti ha 86 anni, Grande Stevens 81! In caso di condanna, vista la concessione delle attenuanti generiche, la condizionale e l'età avanzata, eviteranno sicuramente la prigione, mentre le multe sono già state assorbite da quelle irrogate a suo tempo dalla Consob.
La Fiat, poi, non rischia proprio nulla, visto che l’iniziativa – per ammissione degli stessi imputati – è stata presa "a titolo personale".
Il 13 dicembre 2007 Luca Cordero di Montezemolo nel corso di una conferenza stampa ha dichiarato che "senza l’operazione finanziaria del 2005 messa in atto dai vertici Fiat, non ci sarebbe stata la Fiat di oggi". Il cerchio s'è chiuso. (D*)




P.s. Dimenticavo... C'era un manager, Giuseppe Monorchio, che rischiava di creare problemi all'operazione, ed è stato prontamente messo alla porta. Mentre ne è stato trovato un altro funzionale alla partita. Il nome? Lo fa Gabetti nel filmato: Sergio "pulloverino" Marchionne. Lo stesso che oggi apre la sua inutile bocca per dargli fiato.

Mi corazón en tus manos



Quizá no fue coincidencia encontrarme contigo,
tal vez esto lo hizo el destino.
Quiero dormirme de nuevo en tu pecho,
y después me despierten tus besos.
Tu sexto sentido sueña conmigo,
se que pronto estaremos unidos,
esa sonrisa traviesa que vive conmigo,
se que pronto estaré en tu camino.

Sabes que estoy colgando en tus manos,
así que no me dejes caer.
Sabes que estoy colgando en tus manos...

Te envió poemas de mi puño y letra,
te envió canciones de 4.40,
te envió las fotos cenando en Marbella
y cuando estuvimos por Venezuela,
y así me recuerdes y tengas presente
que mi corazón esta colgando en tus manos...
Cuidado, cuidado,
que mi corazón esta colgando en tus manos...

No perderé la esperanza de hablar contigo,
no me importa que dice el destino,
quiero tener tu fragancia conmigo,
y beberme de ti lo prohibido.

Sabes que estoy colgando en tus manos,
así que no me dejes caer...
Sabes que estoy colgando en tus manos...

Te envió poemas de mi puño y letra,
te envió canciones de 4.40,
te envió las fotos cenando en Marbella
y cuando estuvimos por Venezuela,
y así me recuerdes y tengas presente
que mi corazón esta colgando en tus manos...
Cuidado, cuidado,
que mi corazón esta colgando en tus manos...

Cuidado, cuidado, mucho cuidado, cuidado,
no perdere la esperanza de estar contigo...
Cuidado, mucho cuidado,
quiero beberme de ti todo lo prohibido...
Cuidado, mucho cuidado,
quiero amanecer besando toda,
toda tu ternura, mi niña, mi vida, te necesito...

Te envió poemas de mi puño y letra,
te envió canciones de 4.40,
te envió las fotos cenando en Marbella
y cuando estuvimos por Venezuela,
y así me recuerdes y tengas presente
que mi corazón esta colgando en tus manos...
Cuidado, cuidado,
que mi corazón esta colgando en tus manos...


Y que jamás reposan

Penetro tu cuerpo tu cuerpo
De carne penetro me hundo
Entre tu lengua y tu mirada pura
Primero con mis ojos
Con mi corazón con mis labios
Luego con mi soledad
Con mis huesos con mi glande
Entro y salgo de tu cuerpo
Como si fuera un espejo
Atravieso pelos y quejidos
No sé cuál es tu piel y cuál la mía
Cuál mi esqueleto y cuál el tuyo
Tu sangre brilla en mis arterias
Semejante a un lucero
Mis brazos y tus brazos son los brazos
De una estrella que se multiplica
Y que nos llena de ternura
Somos un animal que se enamora
Mitad ceniza mitad latido
Un puñado de tierra que respira
De incandescentes materias
Que jadean y que gozan
Y que jamás reposan.

Jorge Eduardo Eielson
























Penetro il tuo corpo il tuo corpo
Di carne penetro sprofondo
Fra la tua lingua e il tuo sguardo puro
Prima con i miei occhi
Il mio cuore le mie labbra
Dopo con la mia solitudine
Con le mie ossa il mio glande
Entro ed esco dal tuo corpo
Come se fosse uno specchio
Passo tra peli e gemiti
Non so quale è la tua pelle o la mia
Quale il mio scheletro o il tuo
Il tuo sangue brilla nelle mie arterie
Simile a una stella
Le mie braccia e le tue braccia sono quelle
Di un astro che si moltiplica
E ci riempie di dolcezza
Siamo un animale che si innamora
Metà cenere e metà battito
Una manciata di terra che respira
Di materie incandescenti
Che ansimano e godono
Senza riposarsi mai.

Jorge Eduardo Eielson

Niños

Día tras día, se niega a los niños el derecho a ser niños. Los hechos, que se burlan de ese derecho, imparten sus enseñanzas en la vida cotidiana. El mundo trata a los niños ricos como si fueran dinero, para que se acostumbren a actuar como el dinero actúa. El mundo trata a los niños pobres como si fueran basura, para que se conviertan en basura. Y a los del medio, a los niños que no son ricos ni pobres, los tiene atados a la pata del televisor, para que desde muy temprano acepten, como destino, la vida prisionera. Mucha magia y mucha suerte tienen los niños que consiguen ser niños.

Patas para arriba: la escuela del mundo al revés. Eduardo Galeano
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Giorno dopo giorno, si nega ai bambini il diritto di essere tali. I fatti, che si burlano di questi diritti, impartiscono i loro insegnamenti nella vita quotidiana. Il mondo tratta i bambini ricchi come se fossero denaro, affinché si abituino ad agire come agisce il denaro. Il mondo tratta i bambini poveri come se fossero rifiuti, affinché diventino dei rifiuti. E quelli che stanno in mezzo, i bambini che non sono né ricchi né poveri, li tiene legati alla gamba del televisore, perché fin da molto piccoli accettino, come destino, una vita prigioniera. I bambini che riescono a essere bambini hanno molta magia e molta fortuna.

A testa in giù: la scuola del mondo alla rovescia. Eduardo Galeano








Día tras día se niega a los niños el derecho de ser niños. El mundo trata a los niños pobres como si fueran basura. El mundo trata a los niños ricos como si fueran dinero. Y a los del medio, a los que no son ni pobres ni ricos, el mundo los tiene bien ataditos a la pata del televisor para que desde muy temprano acepten como destino la vida prisionera.
Hoy voy a contarles a mí modo y manera, algunas historias de niños que les rinden homenaje.

El viaje

Oriol Valls, un médico que se ocupa de los recién nacidos en un hospital de Barcelona, dice que el primer gesto humano es el abrazo. Al principio de sus días los bebés, los recién nacidos, mueven los brazos como… como buscando a alguien. Y otros médicos, especialistas en los ya vividos, dicen que al fin de sus días los viejos mueren moviendo los brazos… como buscando a alguien. Y así, así es la cosa. Por muchas palabras que le pongamos y por muchas vueltas que le demos al asunto… entre dos aleteos, transcurre el viaje.

Ventana sobre lo prohibido

El hijo de Pilar y Daniel Wainberg fue bautizado en la costanera. Y en el bautismo le enseñaron lo sagrado:
Recibió una caracola… “Para que aprendas a amar el agua”;
Abrieron la jaula de un pájaro preso… “Para que aprendas a amar el aire”;
Le dieron una flor de malvón… “Para que aprendas a amar la tierra”;
Y también le dieron una botellita cerrada… “No la abras nunca, nunca, para que aprendas a amar el misterio”.

Duérmete mi niño

Los más famosos cuentos infantiles, la literatura para niños escrita por los adultos, son obras terroristas que bien merecen figurar en el arsenal de los adultos contra las huestes de la gente menuda. Hansel y Gretel te advierten: “Serás abandonado por tus padres”. Caperucita Roja te informa que cada desconocido puede ser un lobo que te comerá. La Cenicienta te obliga a desconfiar de las madrastras y de las hermanastras, y así sucesivamente… los niños siguen siendo desde temprano entrenados para el terror: “Vendrá el ogro, y el ogro te devorará si no obedeces, si haces lo que no debes, si ejercitas tu Libertad”.

El arte para las niñas

Mi buen amigo Onelio Jorge Cardoso, escritor cubano, hombre sabroso, escritor jugoso, me contó lo que le ocurrió una vez, que una madre le pidió desesperada…”Auxilio”, porque la nena, la hija, chiquita, se negaba a comer. Tenía los puñitos cerrados, la boca cerradísima, la nariz fruncida.. y no comía y no había manera de que comiera. Y entonces la madre le dijo: “Onelio, tu que eres escritor, un escritor tan simpático, a ver si consigues que la niña coma. Cuéntale un cuento Onelio, sé bueno, llevo horas aquí con ésta cuchara y la sopa se enfría… y nada…” Y Onelio con toda su sabiduría y su paciencia se acercó a la niña y le contó un cuento al estilo de los cuentos que los adultos contamos a los niños: "Había una vez una pajarita que no quería comer la comidita. Y la mamita le decía: Abre el piquito pajarita para comer la comidita porque sino te vas a quedar cortita y flaquita, en lugar de ser una pajarita bien crecidita… y entonces pajarita, por favor, abre el piquito para comer tu comidita…., pero la pajarita seguía con el piquito cerradito, cerradito y se negaba…" Y ahí la niña interrumpió y dijo: “Qué pajarita de mierdita”.

La cultura del terror

La extorsión, el insulto, la amenaza, el coscorrón, la bofetada, la paliza, el azote, el cuarto oscuro, la ducha helada, el ayuno obligatorio, la comida obligatoria, la prohibición de salir, la prohibición de decir lo que se piensa, la prohibición de hacer lo que se siente y la humillación pública, son algunos de los métodos de penitencia y tortura tradicionales en la vida de familia. Para castigo de la desobediencia y escarmiento de la libertad, la tradición familiar perpetúa una cultura del terror que humilla a la mujer, enseña a los hijos a mentir y contagia la peste del miedo.
En Chile, me comenta, Andrés Rodriguez: “Los derechos humanos, tendrían que empezar por casa”.

Ventana sobre el castigo

Era Navidad, y un señor suizo había regalado un reloj suizo a su hijo suizo. El niño desarmó el reloj sobre la cama… y estaba jugando con las agujas, el resorte, el cristal, la corona… y todos los demás engranajitos, cuando el papá lo descubrió y le propinó tremenda paliza.
Hasta entonces Nicole Ruan y su hermanito habían sido enemigos. Pero desde aquella Navidad, la primera Navidad que ella recuerda, los dos fueron por siempre amigos. Quizás ella supo entonces, que también ella sería castigada a lo largo de sus años… porque en lugar de preguntar la hora a los relojes iba a preguntarles cómo son por dentro.

El pequeño Rey zaparrastroso

Lejos de los demás, lejos de todos, el chiquilin se sentaba cada tarde a la sombra de la enramada y con la espalda apoyada contra el tronco, echado, con su perro siempre al lado acompañándolo… el perro con las orejitas bien paradas… se ponía a mover las manos. Contra el pecho la mano derecha bailaba como rascando el pecho, mientras la otra mano, la izquierda, se abría y se cerraba en pulsaciones rápidas… Así siempre, siempre lo mismo.
Un día le regalaron una guitarra. El la recibió. La miró… lustrosa, linda de tocar… probó las seis cuerdas a lo largo del diapasón y pensó: “Que suerte, ahora tengo dos”.

El maestro

Los alumnos del Sexto Grado, en una Escuela de Montevideo, organizaron un concurso de Novelas. Participaron todos. Todos escribieron novelas en aquél concurso dónde yo fuí uno de los tres jurados; los otros dos eran: el maestro, el maestro Oscar, puños raídos, sueldo de faquir… y una alumna que era la delegada de los concursantes. A la ceremonia de premiación se prohibió la entrada de todos los adultos, con excepción del maestro, yo, que era miembro del jurado y los niños que eran los participantes en el concurso. Todos fueron premiados. Hubo un premio para cada trabajo y con el premio una pequeña explicación de los méritos del trabajo presentado. Y cada premio fue celebrado con una ovación por todos los niños de la clase… y hubo lluvia de confetis y de serpentinas… y al final, me quedé conversando con los chiquilines, y el maestro me dijo, el maestro Oscar me dijo: "Nos llevamos tan bien, que me dan ganas de dejarlos a todos, repetidores".
Y una nena, venida del interior, de un pueblito del interior me dijo que ella cuando llegó en los primeros tiempos era muy callada, no había manera de sacarle una palabra de la boca y ahora, me dijo, el problema es que no me puedo callar, hablo todo el el tiempo… y yo al maestro Oscar lo quiero muuuucho, muuuchísimo, porque él me enseñó a perder el miedo de equivocarme.

La función del arte

Diego no conocía la mar. Y su padre, Santiago Kovadloff, lo llevó a descubrirla. Viajaron al Sur, donde ella, la mar, escondida tras los altos medanos, los estaba esperando. Y cuando el padre y el hijo alcanzaron por fin aquellas cumbres de arena, la mar… estalló ante sus ojos. Y fue tanta su inmensidad y tanto su fulgor, que el niño quedó mudo de hermosura. Y cuando por fin consiguió hablar, tartamudeando, le pidió, al padre le pidió: "Ayudame a mirar".

Pájaros prohibidos

Por increíble que parezca, la principal cárcel de la dictadura militar uruguaya, se llamaba Libertad. Y por increíble que parezca, estaba prohibido en esa cárcel llamada Libertad, que los presos dibujaran o recibieran dibujos de mariposas, estrellas, parejas y pájaros.
Uno de los presos, Didaskó Pérez, maestro de escuela, preso por tener, como dijo el oficial que lo detuvo…preso por tener “ideas ideológicas”, recibió un domingo la visita de su hija Milay de cinco años. La hija le trajo un dibujo de pájaros. Como los pájaros estaban prohibidos, la censura se lo rompió; los censores rompieron el dibujo a la entrada de la cárcel.
Al domingo siguiente Milay trajo un dibujo de árboles, como los árboles no estaban prohibidos el dibujo, pasó. Y el padre le preguntó: "Esas frutas, esas frutas de colores que hay… ¿Qué son?, ¿Naranjas, limones,manzanas?, ¿Qué son?" Y la niña lo hizo callar: "Shhh, bobo, ¿No vés que son ojos? Los ojos de los pájaros que te traje a escondidas".

La abuela

La abuela Raquel estaba ciega cuando murió. Pero algún tiempo después, en el sueño de Elena, la abuela veía. Y en el sueño, la abuela no tenía un montón de años, no era un puñado de cansados huesitos. Era nueva. La abuela era nueva en el sueño de la nieta. Tenía, la abuela, cuatro años. Y era una emigrante entre otros emigrantes, que estaba llegando, al cabo de una larga travesía por la mar, desde la remota Besarabia. Y en el sueño, la abuela pedía a la nieta que la alzara, porque quería ver el puerto de Buenos Aires. Y así, la abuela, en brazos de la nieta, conoció el lugar donde iba a pasar todos los días de su vida.

El monstruo amigo mío

Yo al principio no lo quería, porque creía que me iba a comer un pié. Los monstruos son agarradores de mujeres, que se llevan una mujer en cada hombro, y si son monstruos viejitos, se cansan y tiran a una de las mujeres en la cuneta del camino. Pero este monstruo, el amigo mío, no agarra mujeres ni nada. Todos le tienen miedo porque el pobre no sabe hablar, pero él es bueno. El problema es que es tan, pero tan grande que los gigantes le llegan al tobillo. Viene y me visita. En el cielo no vive, porque si viviera en el cielo como Dios, se caería. Es demasiado grande para vivir en el cielo. Hay otros monstruos, no tan grandes, que viven en Plutón, o en el infinito, o en el piranfinito, pero él vive en el África. Y de ahí viene y me visita. Ahora, cualquier día de estos va a aparecer ¿Eh?. Va a venir, caminando por el mar, va a venir, convertido en un guerrero que más inmenso no puede ser y echando fuego por la boca, y de un solo soplido va a reventar la cárcel donde lo tienen preso a mi papá y me lo va a traer en la uña del dedo chiquito y yo me lo voy a meter a mi cuarto, por la ventana me lo voy a meter y yo le voy a decir: “Hola” y el monstruo se va a volver al África despacito por la mar y entonces mi papá va a salir a comprarme caramelos y chocolatines y una nena. Y se va a conseguir un caballo de verdad y vamos a salir a galope por la tierra. Mi papá y yo. Yo agarrado de la cola del caballo al galope, lejos. Y después, cuando mi papá sea chiquito, yo le voy a contar la historia del monstruo amigo mío, para que mi papá se duerma cuando llegue la noche.

Gracias a todos los niños. Tengo el privilegio de recibir cada día una sonrisa como regalo, o un abrazo, o algún dibujito.
Ellos tienen el alma desnuda en sus ojos, la ingenua alegrìa de los sueños, la curiosidad temeraria en sus pasos, y un arsenal lleno de amor en sus manos.
Feliz dìa a los que tienen la gran suerte de serlo todavìa y, para quienes hemos crecido, aprendamos un poco de ellos.

Eduardo Galeano



Giorno dopo giorno si nega ai bambini il diritto di essere bambini. Il mondo tratta i bambini poveri come se fossero spazzatura. Il mondo tratta i bambini ricchi come se fossero denaro. Ed quelli di mezzo, i quali non sono né poveri né ricchi, il mondo li ha ben legati alla gamba del televisore perché fin da piccoli accettino come destino una vita prigioniera.
Oggi vi racconto a mio modo e alla mia maniera, alcune storie di bambini che rendono loro omaggio.

Il viaggio

Oriol Valls, un medico che si occupa dei neonati in un ospedale di Barcellona, dice che il primo gesto umano è l'abbraccio. Al principio dei loro giorni i bebè, i neonati, muovono le braccia come... come cercando qualcuno. Ed altri medici, specialisti in quanti hanno già vissuto, dicono che al finire dei loro giorni i vecchi muoiono muovendo le braccia... come cercando qualcuno. E così, in questo modo che va la cosa. Per quante parole vogliamo usare e per quanti giri vogliamo dare al tema... in due battiti d'ala, trascorre il viaggio.

Finestra sul proibito

Il figlio di Pilar e Daniel Wainberg fu battezzato sul lungomare. E durante il battesimo gli mostrarono cosa è sacro:
Ricevette in dono una conchiglia... "Affinché impari ad amare l'acqua";
Aprirono la gabbia di un uccello prigioniero... "Affinché impari ad amare l'aria";
Gli diedero un fiore di geranio... "Affinché impari ad amare la terra";
E gli diedero anche una bottiglietta chiusa... "Che non l'apra mai, mai! Affinché impari ad amare il mistero".

Dormi bimbo mio

I più famosi racconti per l'infanzia, la letteratura per i bambini scritta per gli adulti, sono opere terroristiche che ben meritano di figurare nell'arsenale degli adulti contro quanti militano tra la gente minuta. Hansel e Gretel ti avvertono: "Sarai abbandonato dai tuoi genitori". Cappuccetto Rosso ti informa che ogni sconosciuto può essere un lupo che ti mangerà. La Cenerentola ti impone di diffidare delle matrigne e delle sorellastre, e così via... i bambini continuano ad essere abituati fin da piccoli al terrore: "Verrà l'orco, e l'orco ti divorerà se non ubbidisci, se fai quello che non devi, se eserciti la tua Libertà".

L'arte al servizio delle bambine

Il mio buon amico Onelio Jorge Cardoso, scrittore cubano, uomo salace, scrittore succoso, mi raccontò quello che gli accadde una volta che una madre gli chiese disperata... "Aiuto", perché la bimba, la figlia, piccina, si rifiutava di mangiare. Aveva i pugni chiusi, la bocca chiusa, il naso corrugato... e non mangiava e non c'era verso che mangiasse. Ed allora la madre gli disse: "Onelio, tu che sei scrittore, uno scrittore tanto simpático, vediamo se riesci a fare in modo che la bambina mangi. Raccontagli un racconto Onelio, sii buono, sono qui da ore con questa cucchiaio e la zuppa si raffredda... e nulla". E Onelio con tutta la sua saggezza e la sua pazienza si avvicinò alla bambina e gli raccontò un racconto nello stile dei racconti che gli adulti raccontano i bambini: "C'era una volta un'uccellina che non voleva mangiare il cibo. E la mammina gli diceva: apri il becco uccellina per mangiare il cibo perché sennò rimani piccina e magrolina, invece di essere bene un'uccellina ben pasciuta... ed allora uccellina, per favore, apri il becco per mangiare il tuo cibo. Ma l'uccellina continuava a serrare il becco, lo serrava e si negava..." E lì la bambina lo interruppe e disse: "Che uccellina di merdina."

La cultura del terrore

L'estorsione, l'insulto, la minaccia, lo scappellotto, lo schiaffo, la bastonata, la frusta, la stanza buia, la doccia gelata, il digiuno obbligatorio, il cibo obbligatorio, la proibizione di uscire, il divieto di dire quello che si pensa, la proibizione di fare quello che si sente e l'umiliazione pubblica, sono alcuni dei metodi di penitenza e tortura tradizionali nella vita di famiglia. Per punizione della disubbidienza e monito della libertà, la tradizione familiare perpetua una cultura del terrore che umilia la donna, insegna ai figli a mentire e contagia la peste della paura.
In Cile, mi commenta, Andrés Rodriguez: "I diritti umani, dovrebbero incominciare a casa".

Finestra sulla punizione

Era Natale, ed un signore svizzero aveva regalato un orologio svizzero a suo figlio svizzero. Il bambino smontò l'orologio sul letto e stava giocando con le lancette, la molla, il vetro, la corona... e tutti gli altri ingranaggi, quando il papà lo scoprì e gli propinò una tremenda bacchettata.
Fino ad allora Nicole Ruán e suo fratello erano stati nemici. Ma da quel Natale, il primo Natale che lei ricorda, i due furono per sempre amici. Magari fu perché ella seppe allora che anche lei sarebbe stata punita nel corso dei suoi anni.... perché invece di domandare l'ora agli orologi chiedeva loro come sono fatti dentro.

Il maestro

Gli alunni della Sesta Classe, in una Scuola di Montevideo, organizzarono un concorso di novelle. Diffusero a tutti la notizia. Tutti scrissero novelle in quel concorso dove io fui uno dei tre membri della giuria. Gli altri due erano: il maestro, il maestro Oscar, pugni logori, stipendio da fachiro... e un'alunna che era la delegata dei concorrenti. Alla cerimonia di premiazione si proibì l'ingresso a tutti gli adulti, ad eccezione del maestro, io che ero membro della giuria ed i bambini che erano i partecipanti al concorso. Tutti furono premiati. Ci fu un premio per ogni lavoro e col premio una piccola spiegazione dei meriti del lavoro presentato. Ed ogni premio fu celebrato con un'ovazione da tutti i bambini della classe... e ci fu pioggia di coriandoli e di stelle filanti... ed alla fine, rimasi a conversare coi piccini, ed il maestro mi disse, il maestro Oscar mi disse: "Andiamo d'accordo, tanto che mi fanno venir voglia di lasciarli tutti qui, ripetenti".
Ed una bimba, venuta dall'interno, da un villaggio dell'interno, mi disse che lei quando arrivò, i primi tempi era molto silenziosa, non c'era maniera di tirarle fuori una parola dalla bocca, ed ora, mi disse, il problema è che non posso tacere, parlo tutto il tempo.... e io al maestro Oscar voglio mooolto bene, moooltissimo, perché lui mi ha insegnato a perdere la paura di sbagliarmi.

La funzione dell'arte

Diego non conosceva il mare. E suo padre, Santiago Kovadloff, lo portò a scoprirlo. Viaggiarono verso Sud, dove egli, il mare, nascosto dietro le alte dune, stava aspettandoli. E quando il padre e il figlio raggiunsero finalmente quelle dune di sabbia, il mare... esplose davanti ai loro occhi. E fu tanta la sua immensità e tanto il suo fulgore che il bambino rimase muto di meraviglia. E quando finalmente riuscì a parlare, balbettando, gli chiese, chiese al padre: "Aiutami a guardare".

Uccelli proibiti

Per incredibile che possa sembrare, la principale prigione della dittatura militare uruguaiana, si chiamava Libertà. E per incredibile che possa sembrare, era proibito in quella prigione chiamata Libertà che i carcerati disegnassero o ricevessero disegni di farfalle, stelle, coppie ed uccelli.
Uno dei carcerati, Didaskó Pérez, maestro di scuola, carcerato per avere, come disse l'ufficiale che lo fermò, delle "idee ideologiche", ricevette una domenica la visita di sua figlia Milay di cinque anni. La figlia gli portò un disegno di uccelli. Siccome gli uccelli erano proibiti, la censura lo strappò; i censori strapparono il disegno all'entrata della prigione.
La domenica seguente Milay portò un disegno di alberi, e siccome gli alberi non erano proibiti, il disegno, passò. Ed il padre gli domandò: "Questi frutti, questi frutte tanto colorati che si vedono... Che cosa sono?, Arance, limoni, mele?, Che cosa sono?" E la bambina lo fece tacere: "Shhh, stupido, Non vedi che sono occhi? Gli occhi degli uccelli che sono riuscita a portarti di nascosto".

La nonna

La nonna Raquel era cieca quando morì. Ma qualche tempo dopo, nel sogno di Elena, la nonna vedeva. E nel sogno, la nonna non aveva un mucchio di anni, non era un pugno di stanche ossa. Era nuova. La nonna era nuova nel sogno della nipote. Aveva, la nonna, quattro anni. Ed era un'emigrante tra altri emigranti che stavano arrivando, dopo una lunga traversa per la mare, dalla remota Bessarabia. E nel sogno, la nonna chiedeva alla nipote che la sollevasse, perché voleva vedere il porto di Buenos Aires. E così, la nonna, in braccio alla nipote, conobbe il posto dove avrebbe trascorso tutti i giorni della sua vita.

Il mio colossale amico

All'inizio non lo amavo, perché credevo che mi avrebbe mangiato un piede. I mostri sono rapitori di donne, che si portano una su ogni spalla, e se sono mostri vecchi, si stancano e butano una delle donne nella cunetta della strada. Ma questo mostro, il mio amico, non afferra donne né niente. Tutti ne hanno paura perché lui, poverino, non sa parlare, ma è buono. Il problema è che è tanto, ma tanto grande che i giganti gli arrivano alla caviglia. Viene e mi fa visita. Non vive in cielo, perché se vivesse in cielo come Dio, cadrebbe giù. È troppo grande per vivere nel cielo. Ci sono altri mostri, non tanto grandi che vivono su Plutone, o nell'infinito, o nel parainfinito, ma lui vive in Africa. E da lì viene e mi fa visita. Ora, qualche giorno di questi compare, Eh!? Viene, camminando attraverso il mare, viene, trasformato in un guerriero che più immenso non si può e buttando fuoco dalla bocca, e con un solo soffio fa crollare la prigione dove hanno carcerato mio papà e me lo porta sull'unghia del dito mignolo ed io lo metto nella mia stanza, facendolo passare per la finestra e gli dico: "Ciao" ed il mostro se ne torna pian pianino in Africa attraverso il mare ed allora mio papà esce a comprarmi caramelle e cioccolatini ed una bambolina. E si procura un cavallo vero e usciamo al galoppo per la terra. Mio papà ed io. Io afferrato alla coda del cavallo al galoppo, lontano. E dopo, quando mio papà sarà piccolino, io gli racconto la storia del mio colossale amico, affinché mio papà si addormenti quando arrivi la notte.

Grazie a tutti i bambini. Ho il privilegio di ricevere ogni giorno un sorriso come regalo, o un abbraccio, o qualche disegnino.
Essi hanno l'anima nuda nei loro occhi, l'ingenua allegria dei sogni, la curiosità temeraria nei loro passi, e un arsenale pieno d'amore nelle loro mani.
Felice giorno a quanti hanno la gran fortuna di esserlo ancora e pre quelli di noi che siano cresciuti, impariamo un poco da loro.

Eduardo Galeano




Los de arriba, los de abajo y los del medio

En el océano del desamparo, se alzan las islas del privilegio. Son lujosos campos de concentración, donde los poderosos sólo se encuentran con los poderosos y jamás pueden olvidar, ni por un ratito, que son poderosos. En algunas de las grandes ciudades latinoamericanas, los secuestros se han hecho costumbre, y los niños ricos crecen encerrados dentro de la burbuja del miedo. Habitan mansiones amuralladas, grandes casas o grupos de casas rodeadas de cercos electrificados y de guardias armados, y están día y noche vigilados por los guardaespaldas y por las cámaras de los circuitos cerrados de seguridad. Los niños ricos viajan, como el dinero, en autos blindados. No conocen, más que de vista, su ciudad. Descubren el subterráneo en Paris o en Nueva York, pero jamás lo usan en San Pablo o en la capital de México.
Ellos no viven en la ciudad donde viven. Tienen prohibido ese vasto infierno que acecha su minúsculo cielo privado. Más allá de las fronteras, se extiende una región del terror donde la gente es mucha, fea, sucia y envidiosa. En plena era de la globalización, los niños ya no pertenecen a ningún lugar, pero los que menos lugar tienen son los que más cosas tienen: ellos crecen sin raíces, despojados de identidad cultural, y sin más sentido social que la certeza de que la realidad es un peligro. Su patria está en las marcas de prestigio universal, que distinguen sus ropas y todo lo que usan, y su lenguaje es el lenguaje de los códigos electrónicos internacionales. En las ciudades más diversas, y en los más distantes lugares del mundo, los hijos del privilegio se parecen entre sí, en sus costumbres y en sus tendencias, como entre sí se parecen los shopping centers y los aeropuertos, que están fuera del tiempo y del espacio. Educados en la realidad virtual, se deseducan en la ignorancia de la realidad real, que sólo existe para ser temida o para ser comprada.
Fast food, fast cars, fast life: desde que nacen, los niños ricos son entrenados para el consumo y para la fugacidad, y transcurren la infancia comprobando que las máquinas son más dignas de confianza que las personas. Cuando llegue la hora del ritual de iniciación, les será ofrendada su primera coraza todo terreno, con tracción a cuatro ruedas. Durante los años de la espera, ellos se lanzan a toda velocidad a las autopistas cibernéticas y confirman su identidad devorando imágenes y mercancías, haciendo zapping y haciendo shopping. Los ciberniños navegan por el ciberespacio con la misma soltura con que los niños abandonados deambulan por las calles de las ciudades.
Mucho antes de que los niños ricos dejen de ser niños y descubran las drogas caras que aturden la soledad y enmascaran el miedo, ya los niños pobres están aspirando gasolina o pegamento. Mientras los niños ricos juegan a la guerra con balas de rayos láser, ya las balas de plomo amenazan a los niños de la calle.
En América latina, los niños y los adolescentes suman casi la mitad de la población total. La mitad de esa mitad vive en la miseria. Niños son, en su mayoría, los pobres; y pobres son, en su mayoría, los niños. Y entre todos los rehenes del sistema, ellos son los que peor lo pasan. La sociedad los exprime, los vigila, los castiga, a veces los mata: casi nunca los escucha, jamás los comprende.
Después de aprender a caminar, aprenden cuáles son las recompensas que se otorgan a los pobres que se portan bien: ellos y ellas, son la mano gratuita de los talleres y tiendas, o son la mano de obra a precio de ganga de las industrias de exportación que fabrican ropa deportiva para las grandes empresas multinacionales. Son esclavitos o esclavitas de la economía familiar o del sector informal de la economía globalizada, donde ocupan el escalón más bajo de la población activa, donde ocupan el escalón más bajo de la población activa al servicio del mercado mundial:
En los basurales de la ciudad de México, Manila o Lagos, juntan vidrios, latas y papeles, y disputan los restos de comida con los buitres;
Se sumergen en el mar de Java, buscando perlas;
Persiguen diamantes en las minas del Congo;
Son topos en las galerías de las minas del Perú, imprescindible por su corta estatura, y cuando sus pulmones no dan más, van a parar a los cementerios clandestinos;
Cosechan café en Colombia y en Tanzania, y se envenenan con los pesticidas;
Se envenenan con pos pesticidas en las plantaciones de algodón de Guatemala y en las bananeras de Honduras; en Malasia recogen la leche de los árboles de caucho, en jornadas de trabajo que se extienden de estrella a estrella;
Tienden vías de ferrocarril en Birmania.
Al norte de la India, se derriten en los hornos de vidrio, y al sur en los hornos de ladrillos;
En Bangladesh, desempeñan más de trescientas ocupaciones diferentes con salarios que oscilan entre la nada y la casi nada por cada día de nunca acabar;
Corren carreras de camellos para los emires árabes y son jinetes pastores en las estancias del río de la Plata;
Cosen ropa en Tailandia y cosen zapatos de Fútbol en Vietnam;
Cosen pelotas de fútbol y pelotas de béisbol en Honduras y Haití;
Alquilados por sus padres, tejen alfombras en Irán, Nepal y en la India, desde antes del amanecer hasta pasada la medianoche, y cuando alguien llega a rescatarlos, preguntan: ¿es usted mi nuevo amo?
Vendidos a cien dólares por sus padres, se ofrecen en Sudán para labores sexuales y todo trabajo
La prostitución es el temprano destino de muchas niñas y, en menor medida también de unos cuantos niños, en el mundo entero. Por asombroso que parezca, se calcula que hay por lo menos cien mil prostitutas infantiles en los Estados Unidos, según un informe de UNICEF de 1997. En algunas playas del mar Caribe, la próspera industria del turismo sexual ofrece niñas vírgenes a quien pueda pagarlas.
¿ Y los demás niños pobres? De los demás son muchos los que sobran. No son rentables, jamás lo serán...ellos empiezan robando el aire que respiran y después roban todo lo que encuentran Entre la cuna y la sepultura, el hambre o las balas suelen interrumpirles el viaje. El mismo sistema productivo que desprecia a los viejos, teme a los niños. La vejez es un fracaso, la infancia es un peligro. Cada vez hay más y más niños marginados que nacen con tendencia al crimen, al decir de algunos especialistas. Los niños que vienen del campo a la ciudad, y los niños pobres en general, son de conducta potencialmente antisocial. Los gobiernos y algunos expertos comparten la obsesión por los niños enfermos de violencia, orientados al vicio y la perdición. Cada niño contiene una posible corriente de El Niño, y es preciso prevenir la devastación que puede provocar. Son POTENCIALMENTE DELINCUENTE.
¿Qué derecho tienen los nadie? ¿ Y los hijos de los nadie? El hambre los empuja al robo, a la mendicidad y a la prostitución; y la sociedad de consumo los insulta ofreciendo lo que niega. Y ellos se vengan lanzándose al asalto, bandas de desesperados unidos por la certeza de la muerte que espera: según UNICEF, en 1995 había ocho millones de niños abandonados, niños de la calle, en las grandes ciudades latinoamericanas, en 1993 los escuadrones parapoliciales asesinaron a seis niños por día en Colombia y a cuatro por día en Brasil.
Entre una punta y otra, el medio. Entre los niños que viven prisioneros de la opulencia y los niños que viven prisioneros del desamparo, están los niños que tienen bastante más que nada, pero mucho menos que todo. Cada vez son menos libres los niños de la clase media. A los niños les confisca la libertad, ya no hay garantías, se evaporan los empleos, se desvanece el dinero, llegar a fin de mes es una hazaña. La clase media está asfixiada por las deudas y paralizada por el pánico y en el pánico cría a sus hijos. Pánico de vivir, pánico de caer; pánico de perder el trabajo, el auto, la casa, las cosas, pánico de no llegar a tener lo que se de debe tener para llegar a ser.
Atrapados en las trampas del pánico, los niños de la clase media están cada vez más condenados a la humillación del encierro perpetuo. En la ciudad del futuro, que ya está siendo ciudad del presente, los teleniños, vigilados por niñeras electrónicas, contemplarán la calle desde alguna ventana de sus telecasas: la calle prohibida por la violencia o por el pánico a la violencia, la calle donde ocurre el siempre peligroso, y a veces prodigioso, espectáculo de la vida.

Extracto de Patas para arriba: la escuela del mundo al revés. Capitulo: Educando con el ejemplo

Eduardo Galeano


Quelli in alto, quelli in basso e quelli nel mezzo

Dall'oceano dell'abbandono, si levano le isole dal privilegio. Sono lussuosi campi di concentramento, dove i facoltosi si ritrovano solo coi facoltosi e non possono dimenticare mai, nemmeno per un momento che sono facoltosi. In alcune delle grandi città latinoamericane, i sequestri si sono fatti abitudine, e i bambini ricchi crescono rinchiusi dentro la bolla della paura. Abitano magioni circondate da mura, grandi case o gruppi di case circondate da recinzioni elettrificate e da guardie armate, e sono giorno e notte vigilati dalla guardia del corpo e dalle telecamere di sicurezza a circuito chiuso. I bambini ricchi viaggiano, come il denaro, in auto blindate. Non conoscono, se non di vista, la propria città. Scoprono la metropolitana a Parigi o a New York, ma non la usano mai a San Pablo o nella capitale del Messico.
Essi non vivono nella città dove abitano. Gli è precluso quel vasto inferno che è in agguato al loro minuscolo cielo privato. Oltre le frontiere, si estende una regione del terrore dove la gente è molta, brutta, sporca e invidiosa. In piena era della globalizzazione, i bambini non appartengono oramai a nessun posto, ma quelli che hanno meno posto di tutti sono proprio quelli che hanno più cose: essi crescono senza radici, privi di identità culturale, e senza più senso sociale se non la certezza che la realtà è un pericolo. La loro patria sta nelle marche di prestigio universale che contradistinguono i loro vestiti e tutto quello che usano, e il loro linguaggio è il linguaggio dei codici elettronici internazionali. Nelle città più diverse, e nei più distanti posti del mondo, i figli del privilegio si somigliano tra loro, nelle loro abitudini e nelle loro tendenze, come si somigliano tra loro gli shopping centers e gli aeroporti, poiché stanno fuori del tempo e dello spazio. Educati nella realtà virtuale, si diseducano nell'ignoranza della realtà reale che esiste solo per essere temuta o per essere comprata.
Fast food, fast cars, fast life: da quando nascono, i bambini ricchi sono allenati per il consumo e per la fugacità, e trascorrono l'infanzia convincendosi che le macchine sono più degne di fiducia delle persone. Quando arriva l'ora del rituale di iniziazione, sarà loro offerto in dono il primo blindato multi-terreno, con trazione a quattro ruote. Durante gli anni dell'attesa, essi si lanciano a tutta velocità sulle autostrade cibernetiche e confermano la loro identità divorando immagini e merci, facendo zapping e facendo shopping. I ciberniños navigano per il ciberspazio con la stessa scioltezza con cui i bambini abbandonati vagano per le strade delle città.
Molto prima che i bambini ricchi smettano di essere bambini e scoprano le droghe che stordiscono la solitudine e mascherano la paura, già i bambini poveri stanno aspirando benzina o colla. Mentre i bambini ricchi giocano alla guerra a colpi di raggi laser, già le pallottole di piombo minacciano i bambini di strada
In America Latina, i bambini e gli adolescenti raggiungono quasi la metà della popolazione totale. La metà di quella metà vive nella miseria. I bambini sono, nella loro maggioranza, poveri; e i poveri sono, nella loro maggioranza, bambini. E tra tutti gli ostaggi del sistema, essi sono quelli che se la passano peggio. La società li spreme, li vigila, li punisce, a volte li uccide: quasi mai li ascolta, mai li comprende.
Dopo avere imparato a camminare, imparano quali sono le ricompense che si concedono ai poveri che si comportano bene: bambini d'ambo i sessi sono la mano gratuita delle officine e dei negozi, o sono la manodopera a prezzo d'affarone delle industrie di esportazione che fabbricano vestiti sportivi per le grandi imprese multinazionali. Sono schiavi o schiave dell'economia familiare o del settore informale dell'economia globalizzata, dove occupano lo scalino più basso della popolazione attiva, dove occupano lo scalino più basso della popolazione attiva al servizio del mercato mondiale:
Negli immondezzai delle città di Messico, Manila o Lagos, raccolgono vetri, lattine e carta, e disputano gli avanzi di cibo con gli avvoltoi;
Si immergono nel mare di Java, cercando perle;
Cercano diamanti nelle miniere del Congo;
Sono talpe nelle gallerie delle miniere del Perù, indispensabili per la loro bassa statura, e quando i loro polmoni non ce la fanno più, vanno a finire nei cimiteri clandestini;
Raccolgono caffè in Colombia e in Tanzania, e si avvelenano coi pesticidi;
Si avvelenano con pesticidi pos nelle piantagioni di cotone del Guatemala e nelle bananiere del Honduras; in Malesia raccolgono il latte degli alberi di caucciù, in giornate di lavoro che vanno dall'alba al tramonto;
Stendono i binari per la ferrovia in Birmania.
Al nord dell'India, si distruggono nei forni per il vetro, e al sud nelle fornaci per i mattoni;
In Bangladesh, svolgono più di trecento occupazioni differenti con salari che oscillano tra il niente e quasi il niente per ogni giorno che non finisce mai;
Corrono corse di cammelli per gli emiri arabi e sono fantini pastori nei ranch del Río de la Plata;
Cuciono vestiti in Thailandia e cuciono scarpe da football in Vietnam;
Cuciono palloni da calcio e palle da baseball in Honduras e Haiti;
Affittati dai propri genitori, tessono tappeti in Iran, Nepal e India, da prima dell'alba fino a passata la mezzanotte, e quando qualcuno arriva a riscattarli, domandano: è lei il mio nuovo padrone?
Spacciati a cento dollari dai propri genitori, si offrono in Sudan per prestazioni sessuali ed ogni lavoro. La prostituzione è il precoce destino di molte bambine e, in minore misura anche di parecchi bambini, nel mondo intero. Per sorprendente che possa sembrare, si calcola che ci sono per lo meno centomila prostitute bambine negli Stati Uniti, secondo una relazione del UNICEF del 1997. In alcuni spiagge del mar dei Caraibi, la prospera industria del turismo sessuale offre bambine vergini a chi possa pagarle.
E gli altri bambini poveri? Degli altri sono molti quelli che sono superflui. Non sono redditizi, non lo saranno mai... essi incominciano rubando l'aria che respirano e dopo rubano tutto quello che trovano. Tra la culla e la sepoltura, la fame o le pallottole normalmente interrompono il loro viaggio. Lo stesso sistema produttivo che disprezza i vecchi, teme i bambini. La vecchiaia è un fallimento, l'infanzia è un pericolo. Ogni volta sono sempre di più i bambini emarginati che nascono con la tendenza al crimine, secondo alcuni specialisti. I bambini che vengono dalle campagne in città, e i bambini poveri in generale, sono potenzialmente di condotta asociale. I governi ed alcuni esperti condividono l'ossessione per i bambini malati di violenza, predisposti al vizio e alla perdizione. Ogni bambino è portatore di una possibile corrente da El Niño, ed è necessario prevenire la devastazione che può provocare. Sono POTENZIALMENTE DELINQUENTI.
Che diritti hanno i nessuno? E i figli di nessuno? La fame li spinge al furto, alla mendicità e alla prostituzione; e la società dei consumi li insulta offrendo quello che nega. Ed essi si vendicano lanciandosi all'assalto, bande di disperati uniti dalla certezza della morte che li aspetta: secondo l'UNICEF, nel 1995 c'erano otto milioni di bambini abbandonati, bambini di strada, nelle grandi città latinoamericane, nel 1993 gli squadroni paramilitari assassinarono sei bambini al giorno in Colombia e quattro al giorno in Brasile.
Tra una punta ed un'altra, il mezzo. Tra i bambini che vivono prigionieri dell'opulenza e i bambini che vivono prigionieri dell'abbandono, stanno i bambini che hanno abbastanza, meglio che niente, ma molto meno che tutto. I bambini della classe media sono ogni volta meno liberi. Ai bambini si confisca loro la libertà, non ci sono oramai garanzie, si volatilizzano i posti di lavoro, svanisce il denaro, arrivare a fine mese è un'impresa. La classe media è soffocata dai debiti e paralizzata dal panico e nel panico alleva i propri figli. Panico di vivere, panico di cadere; panico di perdere il lavoro, l'auto, la casa, le cose, panico di non arrivare ad avere quello che si deve avere per arrivare ad essere.
Afferrati nelle trappole del panico, i bambini della classe media sono sempre più condannati all'umiliazione della reclusione perpetua. Nella città del futuro che sta per essere ormai città del presente, i teleniños, vigilati da bambinaie elettroniche, contempleranno la strada da qualche finestra della loro telecasa: la strada proibita per la violenza o per il panico della violenza, la strada dove succede sempre il pericoloso, ed a volte prodigioso, spettacolo della vita.

Tratto da A testa in giù: la scuola del mondo alla rovescia. Capitolo: Educando con l'esempio

Eduardo Galeano


La vida según Galeano:
Mujeres

Cadaveri vivi



C'è stato un tempo in cui
noi eravamo cadaveri vivi,
c'è stato un tempo in cui
vivevamo nei cimiteri al fosforo,
camposanti di lusso con
connessione veloce alla rete.
C'è stato un tempo in cui
frequentavamo solo funerali
e tra le bare degli eroi morti in guerra
pomiciavamo con le veline.
C'è stato un tempo in cui
il tempo non era né bello né brutto,
c'è stato un tempo in cui
tutto era lutto.
Ma poi c'è stato il tempo in cui
noi siamo risorti
dal nostro stare fra ossi di seppia
dove eravamo pasto per gli uccelli
e pure i pigri ed i distratti ci hanno visto a noi...

Noi siamo i froci, siamo gli ebrei,
palestinesi dell'intifada,
siamo barboni lungo la strada,
siamo le zecche comuniste.
Noi, noi siamo anarchici,
noi siamo spastici,
noi siamo quelli col cesso a parte,
noi siamo brutti, sporchi ma buoni,
che detto in sintesi significa coglioni.
Noi siamo i negri, meridionali,
siamo gli autonomi dei centri sociali,
siamo l'elogio della pazzia,
siamo un errore di ortografia,
noi siamo i punti dopo le virgole,
siamo drogati, zingari e zoccole.

C'è stato un tempo in cui
noi eravamo cadaveri vivi
c'è stato un tempo in cui,
noi correvamo sempre
restare fermi era vietato,
pure i sassi stavano in divieto di sosta.
Sua Santità Babbo Natale
era ancora vestito di bianco e di rosso,
c'è stato un tempo in cui
ci aveva renne di lusso
ai potenti portava regali
ai servi carbone,
ma poi c'è stato il tempo in cui
noi siamo risorti
dall'happy hour del megaraduno dell'indulgenza
e i vampiri del sangue del santo ci hanno visto a noi...

Noi siamo i froci, siamo gli ebrei,
palestinesi dell'intifada,
siamo i barboni lungo la strada,
siamo le zecche comuniste.
Noi, noi siamo anarchici,
noi siamo spastici,
noi siamo quelli col cesso a parte,
noi siamo brutti, sporchi ma buoni,
che detto in sintesi significa coglioni.
Noi siamo i negri, meridionali,
siamo gli autonomi dei centri sociali,
siamo l'elogio della pazzia,
siamo un errore di ortografia,
noi siamo i punti dopo le virgole,
siamo drogati, zingari e zoccole.

C'è stato un tempo in cui
noi eravamo cadaveri vivi,
e la camorra e la mafia
erano il meglio del made in italy,
avevano ottenuto dal ministero
una certificazione di qualità,
criminalità organizzata,
però d'origine controllata.
C'è stato un tempo in cui
noi eravamo picciotti,
ma poi è arrivato il tempo in cui
noi siamo risorti
dalla tranquillità del mare
dove eravamo rugginosi relitti,
e pure i tristi giornalisti fascisti ci hanno visto a noi...

Ascanio Celestini

La bomba e il suo contrario



Io odio questi popoli del Terzo Mondo che si fanno la bomba atomica, li odio. No, mi scusi, io sono uno che parla chiaro, ehh... Io non c'ho peli sulla lingua, io sono uno che vado al bar, frequento il bar e la politica la vedo dal bar. Tra una granitina, un'aranciata amara, un caffè corretto, un cognac, io capisco coma va il mondo. Io sono uno che parlo terra terra ehh... Io sono quasi come Ferrara.
Le voglio dire che odio questi popoli del Terzo Mondo, poveracci, che si fanno la bomba atomica. E bisogna dirlo con coraggio, con chiarezza, che la guerra è come la caccia! Nel senso che la guerra, come la caccia, è uno sport. E in quanto sport non deve diventare pericoloso per chi lo pratica.
Veda per esempio cosa sono i cacciatori. Lei lo conosce un cacciatore? Il cacciatore è uno che c'ha la panza, le vene varicose, il riporto, che magari durante la settimana fa il geometra del catasto, però la domenica mattina all'alba diventa rambo. Si veste con 'ste tute da buffone, tutte chiazzate, queste mimetiche. Si prende la cartucciera, il fucile, se ne va in ciociaria all'alba, arriva nel boschetto, cerca una papera, trova la papera, sta per sparare alla papera... Ma lei se lo immagina se in quel momento la papera si gira, vede il geometra col riporto vestito da buffone e la papera medesima prende il fucile e spara al geometra-cacciatore!?
No dico, sarebbe uno scandalo... Allora la caccia davvero diventerebbe una cosa pericolosa, violenta! Non sarebbe più uno sport, un divertimento... E la guerra funziona alla stessa maniera. La guerra e la caccia sono la stessa cosa, sono sport.
Se lo immagina io che devo fare la guerra a qualcuno, io che sono un popolo civile democratico... che faccio, la guerra contro la Francia? Ma che scherziamo? Ma che stiamo ancora ai tempi delle trincee? Io se devo fare la guerra contro qualcuno me ne vado in Iran, per dire, no!? Vado a bombardare l'Iran. Perché in Iran ci stanno tutti caprari, pecorai, questi arabi coi vestaglioni... questi si difendono con le pietre, penso io. Ma lei se lo immagina se io arrivo con l'esercito in Iran e invece di trovarci i vestaglioni arabi e i pecorai ci trovo la bomba atomica? No dico, sarebbe come per il cacciatore che trova la papera armata! Sarebbe una cosa veramente scandalosa, terribile! Allora la guerra sì che diventerebbe una cosa violenta, pericolosa, non sarebbe più uno sport...
No, mi scusi, io sono uno che parlo chiaro, ehh... Io sono quasi come Ferrara. Io vado al bar, mi prendo un caffè, un cognac e un brandy e capisco come va il mondo. Ma senta, io le voglio dire che sono d'accordo con 'sta storia di fare l'embargo ai paesi del terzo Mondo che si vogliono fare la bomba atomica. Anche se mo' adesso c'è qualcuno, qualche comunista provocatore, che va dicendo: “beh, se facciamo l'embargo alla Corea perché si vuole fare l'atomica, se facciamo l'embargo all'Iran, dobbiamo fare l'embargo pure all'America, perché l'America l'atomica ce l'ha”. Ma che, stiamo scherzando!? Io gli direi a costui: io sono contro le papere armate, io non voglio che la papera sia armata, ma non voglio mica disarmare il cacciatore!? Capito? L'Iran è una papera, l'America è un cacciatore!
No perché, se facciamo l'embargo per l'America, dobbiamo fare l'embargo contro tutti quelli che c'hanno l'atomica. Contro la Francia, contro l'Inghilterra, contro la Russia... Che fai, l'embargo alla Russia? Contro la Cina? Che fai, l'embargo alla Cina? Contro il Pakistan, l'India, Israele... E poi dovremmo fare l'embargo anche contro quelli che la bomba atomica ce l'hanno perché lì, nel paese loro, gliel'ha portata l'America. No? Tutti i paesi tipo, per esempio, quelli che c'hanno le bombe in Europa... I Paesi Bassi. Fai l'embargo ai Paesi Bassi? Fai l'embargo alla Germania? Fai l'embargo alla Turchia? O all'Italia? No, perché la bomba atomica sta pure in Italia. Ehh.. No dico, io sono uno che parlo chiaro, io sono uno che vado al bar, le cose le so... Tra Pordenone e Brescia ci stanno 90 bombe atomiche che se scoppiassero tutte insieme farebbero un botto 900 volte superiore a quello della bomba in Giappone, di Hiroschima e Nagasaki, capito? Dico che faccio, l'embargo contro i bresciani? Faccio l'embargo a Pordenone, perché c'ha la bomba atomica? Cosa faccio? Vado in trattoria e quando mi prendo l'ammazzacaffè, invece di bermi una bella grappa friulana mi prendo il nocino di mia suocera!? Ma che scherziamo? Ma siamo seri...
Io sono uno serio, uno che parlo chiaro, io sono quasi come Ferrara.. Io voglio dire che mi sta simpatico questo Romano Prodi, che anche se fa un po' il comunista, questo qua sai che ha fatto? Ha preso i voti dei pacifisti, barbuti, con l'orecchino, capelloni... sai, quelli con le bandiere colorate, e poi quando ha fatto la finanziaria ha tolto soldi a tutti, tranne che alle Forze Armate. Anzi, per gli armamenti ha pure rincarato la dose, pure più soldi ci ha messo. Bravo Romano! Questa cosa mi piace!
No, perché toglieteci tutto, ma non la guerra, che è un divertimento. Nella storia con 'sto fatto della libertà e della democrazia c'avete tolto ogni cosa, le cose più belle. Ci avete tolto la schiavitù, che prima c'avevamo i negri e i meridionali che lavoravano per noi. Ci avete tolto la Santa Inquisizione, che era così divertente, folcloristica, andavamo in piazza a bruciare la gente coi preti... Non si può più neanche fumare una sigaretta in un bar... Dico, almeno la guerra ce la potete lasciare, no?
No mi scusi, io sono uno che parlo chiaro, io non sono mica un orsolino, non credo mica alla befana e a babbo natale... Io vado al bar, mi prendo un caffè corretto e... capisco come va il mondo. Io sputo sentenze su tutto, ehh...
Io sono quasi come Ferrara.

Ascanio Celestini


Norte y Sur



El Norte y sus McDonald's, basketball y rock'n roll,
sus topless, sus Madonas y el abdomen de Stallone,
intelectuales del bronceado, eruditos del supermercado,
tienen todo pero nada lo han pagado.

Con 18 eres un niño para un trago en algun bar,
pero ya eres todo un hombre pa' la guerra y pa' matar.
Viva Vietnam y que viva Forrest Gump,
viva Wall Street y que viva Donald Trump,
viva el Seven Eleven...

Polvean su nariz y usan jeringa en los bolsillos,
viajan con marihuana para entender la situacion,
de este juez del planeta que lanza una invitacion
cortaselo a tu marido y ganaras reputacion.

Las barras y las estrellas se adueñan de mi bandera
y nuestra libertad no es otra cosa que una ramera
y si la deuda externa nos robo la primavera,
al diablo la geografia se acabaron las fronteras...

Si el Norte fuera el Sur serian los Sioux los marjinados,
ser moreno y chaparrito seria el look mas cotizado,
Marcos seria el Rambo Mexicano
Y Cindy Crawford la Menchu de mis paisanos,
Reagan seria Somoza, Fidel seria un atleta
corriendo bolsas por Wall Street,
y el Che haria hamburguesas al estilo double meat,
los Yankees de mojados a Tijuana,
y las balsas de Miami a la Habana,
si el Norte fuera el Sur...

Seriamos igual o tal vez un poco peor,
con las Malvinas por Groenlandia
y en Guatemala un Disneylandia
y un Simon Bolivar rompiendo su secreto
ahi les va el 187, fuera los Yankees por decreto.

Las barras y las estrellas se adueñan de mi bandera
y nuestra libertad no es otra cosa que una ramera
y si la deuda externa nos robo la primavera
al diablo la geografia se acabaron las fronteras...

Si el Norte fuera el Sur, seria la misma porqueria
yo cantaria un rap y esta cancion no existiria...


Cómo empezó todo









Buenas tardes, buenas noches. Mi nombre es Marcos, Subcomandante Insurgente Marcos, y estoy aquí para presentarles al Teniente Coronel Insurgente Moisés.
Él es el encargado por parte de la Comandancia General del EZLN del trabajo internacional, lo que llamamos la Comisión Intergaláctica y la Sexta Internacional, porque, de todos nosotros, es el único que les tiene paciencia a ustedes.
Vamos a hablar despacio, para la traducción. We will speak slowly, for the translation. Nous allons parler doucement, pour la traduction.
Queremos agradecerles que hayan venido hasta acá a conocer directamente lo que está sucediendo con el proceso zapatista, no sólo con las agresiones que estamos recibiendo, sino también los procesos que se están construyendo aquí en territorio rebelde, en territorio zapatista.
Esperamos que lo que vean, que lo que escuchen sirva para que puedan llevar esa palabra muy lejos: a Grecia, a Italia, a Francia, a España, al País Vasco, a Estados Unidos y al resto de nuestro país, con nuestros compañeros de La Otra Campaña.
Ojalá y no vayan a hacer como la llamada Comisión Civil Internacional de Observación de los Derechos Humanos, que lo único que vino a hacer aquí, hace unos meses, fue a lavarle las manos al gobierno perredista de Chiapas, al decir que las agresiones que sufrían nuestros pueblos no venían del gobierno estatal, sino del gobierno federal.
Quisiera dar una plática de introducción a lo que va a hablar el Teniente Coronel Moisés. Nos da gusto que haya coincidido con su visita de ustedes acá que él ande por esta zona. Él es el compañero que ha seguido más de cerca el proceso de construcción de la autonomía dentro de las comunidades zapatistas.
Quería explicar, a grandes rasgos, lo que ha sido la historia del EZLN y de las comunidades indígenas zapatistas en este territorio, en Chiapas pues.
Me refiero a los Altos de Chiapas, la zona del Caracol de Oventic; la zona tzotz choj, tzeltal-tojolabal, que es la del Caracol de Morelia; la zona chol que es la de Roberto Barrios, en el norte de Chiapas; la zona tojolabal o Selva Fronteriza, que es el Caracol de La Realidad; y ésta que es la zona tzeltal, que es el Caracol de La Garrucha.
El día de mañana, están invitados a visitar un poblado que tiene muchos años de ser bases de apoyo del EZLN. Van a tener el honor de ser guiados por el Comandante Ismael, que está aquí. Este compañero junto con el Señor Ik - el finado Comandante Hugo o Francisco Gómez, que era su nombre civil -, estuvieron recorriendo estas cañadas, hablando de la palabra zapatista cuando nadie estaba con nosotros.
Él los va a llevar. Van a ir a ver el lugar donde los soldados estaban buscando marihuana. Queremos que ustedes vean si hay marihuana.
Si encuentran, no se la vayan a fumar, sino que hagan la denuncia para destruirla. No, no hay marihuana. Pero no nos creen a nosotros, a lo mejor a ustedes. A ustedes… ¡menos! Ya que los vean, no les van a creer nada.
Está también con nosotros el Comandante Masho, aquí a mi derecha. También es de los compañeros comandantes que acompañaron al Señor Ik, al Comandante Hugo, cuando apenas empezaba el EZLN en esta cañada. Y es parte de la Comisión Sexta del EZLN. Estuvo con nosotros en el noroeste de la República mexicana, recorriendo pueblos indios y compañeros y compañeras de La Otra Campaña en México, en esa parte del país.
¿Cómo empezó todo? Hace 24 años, casi 25, llegó un pequeño grupo de urbanos, o de ciudadanos como les decimos nosotros, no a esta parte de la selva, sino mucho más adentro, lo que ahora se conoce como la Reserva de Montes Azules. En esa zona no había nada, mas que animales salvajes de cuatro patas y animales salvajes de dos patas que éramos nosotros. Y la concepción de ese pequeño grupo - estoy hablando de 1983-1984, o sea hace 24 o 25 años - era la tradicional de los movimientos de liberación en América Latina, es decir: un pequeño grupo de iluminados que se alza en armas contra el gobierno. Y eso provoca que mucha gente los siga, se levante, y se tumbe al gobierno, y se instale un gobierno socialista. Estoy siendo muy esquemático, pero básicamente es lo que se conoce como la teoría del “foco guerrillero”.
Ese pequeño grupo, de los que quedamos entonces, tenía esa concepción tradicional, clásica u ortodoxa, si la quieren llamar así, pero tenía también una carga ética y moral que no tenía precedentes en los movimientos guerrilleros o armados en América Latina. Esta herencia ética y moral venía de otros compañeros que ya habían muerto, enfrentándose al ejército federal y a la policía secreta del gobierno mexicano.
Durante todos esos años, estábamos solos. No había compañeros en los pueblos. Nadie de Grecia venía a vernos. Ni de Italia ni de Francia ni de España ni del País Vasco. Vaya… ¡Ni de México!
Porque éste era el rincón más olvidado de este país. Eso que era algo en contra, más adelante se iba a convertir en una ventaja: el hecho de estar aislados y olvidados nos permitió, entonces, hacer un proceso de involución. Alguno que sea ortodoxo conocerá el libro que dice “la transformación del mono en hombre”. En ese entonces, fue al revés: el hombre se transformó en mono, que era lo que éramos nosotros. Incluso físicamente, por eso uso pasamontañas pues. Es una cuestión de estética y buen gusto que hay que taparse la cara.
Este pequeño grupo sobrevivió a la caída del Muro de Berlín, al derrumbe del campo socialista, a la claudicación de la guerrilla en Centroamérica, primero con el FMLN en El Salvador, luego con aquello que alguna vez se llamó el Frente Sandinista de Liberación Nacional, en Nicaragua. Y más después, la unión revolucionaria de Guatemala, la URNG.
Lo que lo hizo sobrevivir fueron dos elementos, según nosotros: Uno, era la necedad o la terquedad que, probablemente, esa gente traía en el DNA. Y la otra, fue la carga moral y ética que había heredado de los compañeros y compañeras que habían sido asesinados por el ejército, en estas montañas precisamente.
Las cosas se hubieran quedado ahí, con dos opciones: Un pequeño grupo que pasa décadas encerrado en la montaña, esperando algún momento que pasa algo y puede actuar dentro de la realidad social. O terminar, como alguna parte de la izquierda radical en México entonces, como diputados, senadores, o presidentes legítimos de la izquierda institucional en México.
Pasó algo que nos salvó. Nos salvó y nos derrotó en esos primeros años. Y lo que pasó está sentado aquí a mí izquierda, que es el Teniente Coronel Insurgente Moisés, el Comandante Masho, el Comandante Ismael y muchos otros compañeros que convirtieron el EZLN, de un movimiento guerrillero foquista y ortodoxo, en un ejército de indígenas.
No se trataba sólo de que era un ejército mayoritariamente compuesto por indígenas. Mayoritariamente… me estoy cubriendo porque, en realidad, de cada 100 combatientes, 99 eran indígenas y uno era mestizo. No sólo eso, sino que ese ejército y su concepción sufrió una derrota en su planteamiento iluminador, su planteamiento de dirección, caudillista, revolucionario clásico, donde un hombre, o un grupo de hombres, se convierte en el salvador de la humanidad, o del país.
Lo que pasó, entonces, es que ese planteamiento fue derrotado a la hora que confrontamos a las comunidades y nos dimos cuenta, no sólo que no nos entendían, sino que su propuesta era mejor.
Algo había pasado en todos los años previos, décadas previas, siglos anteriores. Nos estábamos enfrentando a un movimiento de vida, que había logrado sobrevivir a los intentos de conquista de España, de Francia, de Inglaterra, de Estados Unidos, y de todas las potencias europeas, incluyendo la Alemania nazi en 1940-1945. Lo que había hecho resistir a esta gente, a estos nuestros compañeros y compañeras primero, y, luego, nuestro jefes y jefas ahora, había sido un apego a la vida que tenía que ver mucho con la carga cultural. La lengua, el lenguaje, la forma de relacionarse con la naturaleza presentaba una alternativa no sólo de vida, sino de lucha. No les estábamos enseñando a nadie a resistir. Nos estábamos convirtiendo en alumnos de esa escuela de resistencia de alguien que llevaba cinco siglos haciéndolo.
Los que venían a salvar a las comunidades indígenas, fueron salvados por ellas. Y encontramos rumbo, destino, camino, compañía y velocidad para nuestro paso. Lo que, entonces y ahora, llamamos “la velocidad de nuestro sueño”.
El EZLN tiene muchas deudas con ustedes, con gente como ustedes, en México y en todo el mundo, pero nuestra deuda fundamental está en nuestro corazón: en el corazón indígena. En esta comunidad y en miles de comunidades como ésta, que están pobladas por compañeros bases de apoyo zapatistas.
En el momento en que el pequeño grupo guerrillero hace contacto con los pueblos, hay un problema y una lucha. Yo tengo una verdad - yo, el grupo guerrillero -, y tú eres un ignorante, te voy a enseñar, te voy a adoctrinar, te voy a educar, te voy a formar. Error y derrota.
A la hora que se empieza a construir el puente del lenguaje, y empezamos a modificar nuestra forma de hablar, empezamos a modificar nuestra forma de pensarnos a nosotros mismos y de pensar el lugar que teníamos en un proceso: Servir.
De un movimiento que se planteaba servirse de las masas, de los proletarios, de los obreros, de los campesinos, de los estudiantes para llegar al poder y dirigirlos a la felicidad suprema, nos estábamos convirtiendo, paulatinamente, en un ejército que tenía que servir a las comunidades. En este caso, las comunidades indígenas tzeltales, que fueron las primeras donde nos instalamos, que fue en esta zona.
El contacto con los pueblos significó un proceso de reeducación más fuerte y más terrible que los electroshocks que acostumbran en las clínicas siquiátricas. No todos lo soportaron, algunos sí lo soportamos, pero nos seguimos quejando todavía a estas alturas del partido.
¿Qué pasó después? Lo que pasa es que el EZLN se convierte en un ejército de indígenas, al servicio de los indígenas, y pasa de los seis con que empezamos el EZLN, a más de seis mil combatientes.
¿Qué es lo que detona el alzamiento del primero de enero de 94? ¿Por qué decidimos alzarnos en armas? La respuesta está en los niños y en las niñas. No fue un análisis de la coyuntura internacional.
Cualquiera de ustedes estará de acuerdo conmigo en que la coyuntura internacional no era propicia para un alzamiento armado. El campo socialista había sido derrotado, todo el movimiento de izquierda en América Latina estaba en una etapa de repliegue. En México, la izquierda estaba llorando la derrota después de que Salinas de Gortari no sólo había hecho un fraude, sino había comprado a buena parte de lo que era la conciencia crítica de la izquierda en México.
Cualquiera mínimamente razonable nos hubiera dicho: no hay condiciones, no se alcen en armas, entreguen las armas, entren a nuestro partido, etcétera, etcétera. Pero hubo algo adentro que hizo que desafiáramos esos pronósticos y esas coyunturas internacionales.
El EZLN entonces se plantea, por primera vez, desafiar el calendario y la geografía de arriba. Los niños y las niñas, les dije. Ocurrió que en esos años, a partir del principio de los noventa, de 1990, hubo una reforma que impedía que los campesinos pudieran acceder a la tierra. La tierra, como van a ver mañana, cuando suban la loma que va hacia el pueblo de Galeana, ésa era la tierra que tenían los campesinos: laderas empinadas, llenas de piedra. Las buenas tierras estaban en manos de los finqueros. En los próximos días, van a ir a ver, también, esas fincas y van a poder ver la diferencia entre la calidad de tierra.
Se acabó la posibilidad de acceder a un terreno de tierra. Y, al mismo tiempo, las enfermedades empezaron a acabar con los niños y con las niñas. De 1990 a 1992, no había niño, en la Selva Lacandona, que llegara a los cinco años. Antes de los cinco años, morían de enfermedades curables. No era el cáncer, no era el SIDA, no eran enfermedades del corazón, eran enfermedades curables: tifoidea, tuberculosis, y, a veces, una simple calentura era la que mataba a niños y a niñas menores de cinco años.
Yo sé que en la ciudad esto puede ser hasta una ventaja: mientras menos burros, más olotes, dicen. Pero en el caso de un pueblo indígena, la muerte de su niñez significa su desaparición como pueblo. O sea, en el proceso natural, los adultos crecen, se hacen ancianos y mueren. Si no hay niños, esa cultura desaparece.
La mortandad de los indígenas, de los niños y de las niñas indígenas, agudizó todavía el problema. Pero la diferencia que había aquí al resto de otros pueblos indios, es que aquí había un ejército rebelde, armado. Fueron las mujeres las que empezaron a empujar esto. No fueron los hombres. Yo sé que la tradición en México - los mariachis, Pedro Infante y todo eso - es que los hombres somos muy machos. Pero no fue así. Quienes empezaron a empujar: hay que hacer algo, ya no, y ya basta, fueron las mujeres, que veían morir a sus hijos y a sus hijas.
Empezó a haber una especie de rumor en todas las comunidades: hay que hacer algo, ya basta, ya basta, en todas las lenguas. Para entonces, ya estábamos también en la zona de los Altos. Y ahí teníamos dos compañeras que habían sido, y son todavía, la columna vertebral en ese trabajo: la finada Comandanta Ramona y la Comandanta Susana.
Por diversas partes empezó a surgir esta inquietud, esta molestia… Vamos a decirlo por su nombre: esta rebeldía en las mujeres zapatistas, que había que hacer algo. Nosotros hicimos lo que teníamos que hacer, entonces, que era preguntarle a todos qué íbamos a hacer. Hubo, entonces, en 1992, una consulta - sin televisión, sin gobierno del Distrito Federal, sin nada de lo que hay ahora -, y pueblo por pueblo se pasó y se realizaron asambleas - como ésta en la que estamos ahorita—. Se planteaba el problema.
La disyuntiva era muy sencilla: si nos alzamos en armas, nos van a derrotar, pero va a llamar la atención y van a mejorar las condiciones de los indígenas. Si no nos alzamos en armas, vamos a sobrevivir, pero vamos a desaparecer como pueblos indios.
La lógica de muerte es cuando nosotros decimos: no nos dejaron otra opción. Ahora, después de catorce, casi quince años, nosotros - los que llevamos más tiempo aquí - decimos: qué bueno que no teníamos otra opción.
Los pueblos dijeron: para eso estás, pelea, pelea con nosotros. No se trataba sólo de una relación formal, de mando. Porque formalmente era al revés: formalmente, el EZLN era el mando y los pueblos eran los subordinados. Pero en los hechos, en la realidad, era al contrario: los pueblos sostenían, cuidaban y hacían crecer al Ejército Zapatista de Liberación Nacional.
En ese entonces, fue importante también la participación de un compañero mestizo, de la ciudad, el Subcomandante Insurgente Pedro, que cae combatiendo el primero de enero del 94.
Cuando llevamos esa disyuntiva y los pueblos dicen “alcémonos en armas”, el cálculo militar que hicimos - el Teniente Coronel Moisés tal vez lo recuerda bien porque fue en esta montaña que está aquí a espaldas del pueblo, allá arriba, en un campamento que teníamos, hubo una reunión de todos los mandos zapatistas -, el planteamiento que yo les hice fue éste: tenemos que pensar lo que vamos a hacer, porque cuando empecemos a echar andar algo no se va a poder dar marcha atrás.
Si nosotros le empezamos a preguntar a la gente si nos alzamos en armas o no, ya no vamos a poder detener. Sabíamos y sentíamos que la respuesta iba a ser sí. Y sabíamos y sentíamos que los que iban a caer éramos los que estábamos reunidos en estas montañas, aquí arriba de La Garrucha.
Pasó lo que pasó. No les voy a contar el primero de enero de 94, porque ustedes empiezan a saber de nosotros - bueno, algunos, porque otros apenas estaban muy chavitos -, y se abre una etapa de resistencia, decimos nosotros, donde se pasa de la lucha armada a la organización de la resistencia civil y pacífica.
Algo pasó en todo este proceso que quiero llamar la atención, que es: el cambio en la posición del EZLN respecto al problema del poder. Y esta definición frente al problema del poder es la que va a marcar de manera más honda la huella en el camino zapatista. Nosotros nos habíamos dado cuenta - y en el nosotros que digo, ya van incluidas las comunidades, no sólo el primer grupo -, nos habíamos dado cuenta que las soluciones, como todo en este mundo, se construyen desde abajo hacia arriba. Y toda nuestra propuesta anterior, y toda la propuesta de la izquierda ortodoxa, hasta entonces, era al revés, era: desde arriba se solucionan las cosas para abajo.
Este cambio de abajo para arriba significaba para nosotros no organizarnos, ni organizar a la gente para ir a votar, ni para ir a una marcha, ni para gritar, sino para sobrevivir y para convertir la resistencia en una escuela. Esto fue lo que hicieron los compañeros, no el EZLN original, aquel pequeño grupo, sino el EZLN ya con este componente indígena. Esto que ahora se conoce a grandes rasgos como la construcción de la autonomía zapatista, es un proceso que les va a detallar ahora el Teniente Coronel Insurgente Moisés.
Antes de eso, quería yo señalar algunas cosas. Se dice, no sin razón, que en los últimos dos años, el 2006, el 2007, el Subcomandante Marcos trabajó, con empeño y con éxito, en destruir la imagen mediática que se había construido en torno a él. Y les llama la atención cómo gente que antes estaba cerca, ahora se han alejado o se han vuelto, definitivamente, anti-zapatistas. Algunos de ellos fueron a sus países a dar pláticas y fueron recibidos como si fueran los que se alzaron en armas. Eran los zapatólogos, dispuestos a viajar con todos los gastos pagados, a recibir los aplausos, las caravanas y alguno que otro favor, cuando viajaban al extranjero.
¿Qué pasó? Les voy a decir cómo lo vemos nosotros. Ustedes tendrán su visión. A la hora que se alza el EZLN, surge… Voy a explicarme: aquí en las zonas indígenas se habla mucho de “los coyotes”. Los coyotes, quiero hacer la diferencia porque para los yaquis y los mayos el coyote es muy chingón, pues, es emblemático. En Chiapas no. El coyote es el intermediario. Es alguien que compra barato a los indígenas, y luego revende caro en el mercado.
Cuando se da el alzamiento zapatista, surgen lo que nosotros llamamos los intermediarios de la solidaridad. O sea, los coyotes de la solidaridad. Esta gente que decía, y aún dice, que tiene la interlocución con el zapatismo, que tienen el teléfono rojo, que son los que saben cómo está la cosa aquí, y eso les significa un capital político. Vienen y traen alguna cosita, o sea pagan barato, y van y se presentan como los emisarios del EZLN: cobran caro.
La aparición de este grupo de intermediarios, donde había políticos, intelectuales, aristas y gente del movimiento social, nos ocultó a nosotros la existencia de otras cosas, de otros abajos. Nosotros intuíamos que la España de abajo estaba ahí; que el País Vasco en rebeldía estaba ahí; que la Grecia rebelde estaba ahí; que la Francia insurrecta estaba ahí; que la Italia de lucha estaba ahí; pero no la veíamos. Y temíamos, entonces, que ustedes tampoco nos vieran a nosotros.
Estos intermediarios organizaban y hacían cosas cuando estábamos de moda, y cobraban su capital político. Así como hay quien organiza conciertos, que dice que son para acá y se queda con una parte: cobra como su salario, o lo que le toca a su organización.
Había otro abajo. Nosotros siempre teníamos esa idea: el zapatismo siempre se ha planteado que no es el único rebelde, ni el mejor. Y nuestra concepción no era crear un movimiento que hegemonizara toda la rebeldía en México, o toda la rebeldía a nivel mundial. Nunca aspiramos a una internacional, a la quinta internacional o ya no sé en cuál vayan - ¿Alejandro? Ya va la Sexta, pero ésta es otra, ésta es La Otra Internacional. El compañero sabe de internacionales -.
¿Qué pasó? Yo les voy a decir algunas cosas que para ustedes no serán novedad. El cuento de una izquierda institucional está perfectamente claro para los españoles, con Rodríguez Zapatero o Felipe González; para el País Vasco - Gora Euskal Herria - más todavía; para la Italia rebelde tampoco debe ser una novedad; y Grecia, bueno, nos puede explicar también mucho de eso; desde Miterrand, el barón, en Francia, igual.
En México, no. Sigue habiendo esa expectativa: que es posible que la izquierda que padecemos ahora, si llega al poder, lo va a hacer impunemente. Quiere decir: va a poder llegar a gobernar sin dejar de ser de izquierda. España, Italia, Francia, Grecia, prácticamente todos los países del mundo, pueden dar cuenta de lo contrario: de gente de izquierda, consecuente - no necesariamente radical -, que en el momento en que llega al poder, deja de serlo. Varía la velocidad, varía la profundidad, pero indefectiblemente, se transforman. Eso es lo que nosotros llamamos “el efecto estómago” del poder: o te digiere o te hace mierda.
Este acercamiento, en México, de la izquierda o de lo que se autodenomina izquierda, al poder - ahorita me estoy acordando que salió en un periódico que yo no estaba aquí, que estaba en la Ciudad de México, en las fiestas de la izquierda, no sabía que había izquierda en la Ciudad de México y hacen fiestas…. Sí hay todavía, pero es Otra izquierda pues -; en el momento en que se presentó la posibilidad del poder, empezó a surgir este proceso de digestión y defecación del poder sobre esa izquierda. A los zapatistas, y a todo aquel que se puso en el centro - perdónenme si rompo algún corazón, pero el centro no está en el centro, está pegado a la derecha. Es el otro lado, a la derecha… bueno, a la derecha de ustedes -…
Entonces, nosotros teníamos que, se nos pedía por este grupo de intelectuales, artistas, líderes sociales, que volviéramos la historia hasta 1984, cuando pensábamos que un grupo, o una persona, si llega al poder, transforma todo hacia abajo. Y que nosotros depositáramos la confianza, el futuro, nuestra vida y nuestro proceso, a un iluminado, a una persona, junto con una banda de 40 ladrones que es la izquierda en México.
Nosotros dijimos que No. No es que nos sea antipático el presidente legitimo, sino simple y sencillamente no creemos en ese proceso. No creemos que alguien, ni siquiera alguien tan guapo como el Subcomandante Marcos, sea capaz de hacer esa transformación - bueno, las piernas -. Nosotros no podíamos hacer eso, y entonces se da la ruptura.
Yo quiero llamarles la atención sobre una cosa: entonces, dijimos lo que iba a pasar. Lo que está pasando ahorita. Cuando nosotros lo dijimos, dijeron que le estábamos haciendo el juego a la derecha. A la hora, ahora, que están repitiendo, hasta con nuestras mismas palabras, lo que dijimos hace dos años, se dice que es para hacerle un servicio a la izquierda.
El zapatismo es incómodo. Como si en el rompecabezas del poder llegara una pieza que no encaja y que hay que deshacerse de ella. De todos los movimientos que hay en México, uno de ellos - no el único -, el zapatismo, es incómodo para esta gente. Es un movimiento que no permite conformarse, que no permite rendirse, que no permite claudicar, que no permite venderse. Y en los movimientos de arriba ésa es la lógica, eso es lo racional. Es la “real politik”, como dicen.
Entonces, se da este distanciamiento que, poco a poco, empieza a permear hacia los sectores internacionales, en América Latina y en Europa, fundamentalmente. En ese trayecto, sin embargo, se construyeron relaciones más sólidas. Por mencionar alguna, la de los compañeros de la CGT de España, el movimiento cultural rebelde del País Vasco, la Italia social y, más recientemente, la Grecia rebelde e insumisa que hemos encontrado.
Este corrimiento a la derecha se oculta de la siguiente forma, se dice: “el EZLN se radicalizó y se hizo más de izquierda”. Disculpen, pero nuestro planteamiento sigue siendo el mismo: no buscamos la toma del poder, pensamos que las cosas se construyen desde abajo. Y lo que ocurrió es que esos sectores, los intermediarios de la solidaridad, los coyotes internacionalistas, o la internacional del coyotaje, se habían corrido a la derecha. Porque el poder no te deja acceder a él impunemente.
El poder es un club exclusivo, que tiene determinados requisitos para entrar a él. Lo que los zapatistas llamamos “la sociedad del poder” tiene reglas. Y sólo se puede acceder a él si se cumplen determinadas reglas. Cualquiera que busque la justicia, la libertad, la democracia, el respeto a la diferencia, no tiene posibilidad de acceder ahí, a menos que claudique de esas ideas.
Cuando nosotros empezamos a ver este corrimiento a la derecha del sector aparentemente más zapatista, empezamos a preguntarnos por qué había abajo, qué había detrás. Para ser sinceros, empezamos al revés: empezamos en el mundo, o sea internacionalmente, y luego nos preguntamos por México.
Por razones que tal vez ustedes puedan explicar, la cercanía del zapatismo fue más fuerte con otros países que con México. Y fue más fuerte en México que con la gente de Chiapas. Como si hubiera una relación inversa en la geografía: quien vivía más lejos, estaba más cerca nuestro, y quien vivía más cerca, estaba más alejado de nosotros.
Llegó la idea de buscarlos, con la intuición y el deseo de que existieran: ustedes, otros como ustedes. Vino la Sexta Declaración, la ruptura definitiva con este sector de los coyotes de la solidaridad. Y la búsqueda, en México y en el mundo, de otros que fueran como nosotros, pero que fueran diferentes.
Además de esta posición frente al poder, hay una característica esencial en el zapatismo - y lo van a ver ahora que estén en estos días aquí, o si hablan con los Consejos Autónomos y con las Juntas de Buen Gobierno, o sea con las autoridades autónomas -: la renuncia a hegemonizar y homogeneizar la sociedad. Nosotros no pretendemos un México zapatista, ni un mundo zapatista. No pretendemos que todos se hagan indígenas. Nosotros queremos un lugar, aquí, el nuestro, que nos dejen en paz, que no nos mande nadie. Eso es la libertad: que nosotros decidamos lo que queremos hacer.
Y pensamos que sólo es posible, si otros como nosotros quieren y luchan por lo mismo. Y se establece una relación de compañerismo, decimos nosotros. Eso es lo que quiere construir La Otra Campaña. Eso es lo que quiere construir la Sexta Internacional. Un encuentro de rebeldías, un intercambio de aprendizajes y una relación más directa, no mediática, sino real, de apoyo entre organizaciones.
Hace unos meses, vinieron aquí compañeros de Corea, de Tailandia, de Malasia, la India, Brasil, España - y no me acuerdo de qué otros lados -, de Vía Campesina. Nosotros los vimos en La Realidad, estábamos ahí con ellos. Y cuando hablamos les dijimos: el encuentro entre dirigentes, para nosotros no vale nada. Ni siquiera la foto que se tomen. Si las dirigencias de dos movimientos no sirven para que los movimientos se encuentren y se conozcan, esas dirigencias no sirven.
Nosotros les decimos lo mismo, ahora, a cualquiera que viene a proponer eso. Lo que nos interesa es lo que está detrás: ustedes, otros como ustedes. No podemos ir a Grecia, pero podemos hacer el cálculo y decir que de los que quisieron venir, no están todos aquí. ¿Cómo podemos hablar con esos otros? Y decirles que no queremos limosna, que no queremos lástima. Que no queremos que nos salven la vida. Que queremos un compañero, una compañera, y unoa compañeroa en Grecia, que luche por lo suyo. En Italia, en el País Vasco, en España, en Francia, en Alemania, Dinamarca, Suecia - no voy a decir todos los países, porque qué tal que me falta uno y viene la protesta -…
¿Para dónde miramos nosotros? Cuando les hago este rápido recorrido, les hablo de una herencia moral y ética de los que nos fundaron. Tiene que ver, sobre todo, con la lucha y el respeto por la vida, por la libertad, por la justicia y por la democracia. Nosotros tenemos una deuda moral con nuestros compañeros. No con ustedes, no con los intelectuales que se alejaron, no con los artistas ni con los escritores, ni los líderes sociales que ahora son anti zapatistas.
Nosotros tenemos una deuda con aquellos que murieron luchando. Y nosotros queremos que llegue el día en que nosotros podamos decirles a ellos y a ellas, a nuestros muertos y a nuestras muertas, tres cosas nada más: no nos rendimos, no nos vendimos, no claudicamos.

Desde las montañas del sureste mexicano.
Subcomandante Insurgente Marcos



Buon pomeriggio, buona sera. Il mio nome è Marcos, Subcomandante Insurgente Marcos, e sono qui per presentarvi il Tenente Colonnello Insurgente Moisés.
Lui è l’incaricato dell’attività internazionale per la Comandancia Generale dell’EZLN, che noi chiamiamo la Commissione Intergalattica e la Sesta Internazionale, perché, rispetto a tutti noi, lui è l’unico che riesce ad essere paziente con voi.
Parleremo lentamente, per permettere la traduzione. We will speak slowly, for the translation. Nous allons parler doucement, pour la traduction.
Vogliamo ringraziarvi di essere venuti fino qua per conoscere direttamente quello che sta accadendo nel processo zapatista, non solo le aggressioni che stiamo subendo, ma anche quanto si sta realizzando qui in territorio ribelle, in territorio zapatista.
Speriamo che ciò che vedrete e che ascolterete possa essere portato lontano: in Grecia, in Italia, in Francia, in Spagna, nei Paesi Baschi, negli Stati Uniti e nel resto del nostro paese, con i nostri compagni dell’Altra Campagna.
Ahimé, speriamo non facciate come la cosiddetta Commissione Civile Internazionale di Osservazione dei Diritti Umani, che la sola cosa che ha fatto venendo qua, alcuni mesi fa, è stata lavare le mani del governo perredista del Chiapas, dicendo che le aggressioni che subiscono le nostre comunità non vengono dal governo statale ma dal governo federale.
Vorrei introdurre quello di cui parlerà il Tenente Colonnello Moisés. Ci fa piacere che la vostra visita abbia coinciso con il suo passaggio da queste parti. Lui è il compagno che ha seguito più da vicino il processo di costruzione dell'autonomia nelle comunità zapatiste.
Vorrei spiegare, a grandi linee, la storia dell'EZLN e delle comunità indigene zapatiste in questo territorio, il Chiapas. Mi riferisco agli Altos del Chiapas, la zona del Caracol di Oventic; la zona tzotz choj, tzeltal-tojolabal, che è quella del Caracol di Morelia; la zona chol che è quella di Roberto Barrios, nel nord del Chiapas; la zona tojolabal o Selva Fronteriza, che è quella del Caracol di La Realidad; e questa che è la zona tzeltal, quella del Caracol di La Garrucha.
Domani siete invitati a visitare un villaggio che da molti anni è base di appoggio dell'EZLN. Avrete l'onore di essere guidati dal Comandante Ismael, che è qui. Questo compagno insieme al Señor Ik - il defunto Comandante Hugo o Francisco Gómez, il suo nome da civile - percorrevano queste gole diffondendo la parola zapatista quando nessuno era con noi. Vi accompagnerà lui. Vedrete il luogo in cui i soldati cercavano marijuana.
Vogliamo che vediate se c’è marijuana. Se la trovate non fumatela, ma denunciate il fatto affinché venga distrutta. No, non c’è marijuana. Ma a noi non credono, forse crederanno a voi. A voi... Almeno! Ora che vedrete anche voi, non crederete più a nulla.
Con noi c’è anche il Comandante Masho, qui alla mia destra. Anche lui è uno dei compagni comandanti che erano con il Señor Ik, il Comandante Hugo, agli inizi dell’EZLN in questa vallata. E fa parte della Commissione Sesta dell’EZLN. Era con noi nel nordovest della Repubblica messicana a visitare comunità indios e compagni e compagne dell'Altra Campagna in Messico, in quella parte del paese.
Com’è cominciata? 24 anni fa, quasi 25, arrivò un piccolo gruppo di urbani, o di cittadini come diciamo noi, non in questa parte della selva, ma molto più all’interno, nella zona che ora è nota come la Riserva dei Montes Azules. In quella zona non c'era niente, solo animali selvaggi a quattro zampe ed animali selvaggi a due zampe, che eravamo noi. E la mentalità di quel piccolo gruppo - sto parlando del 1983-1984, cioè 24 o 25 anni fa - era la mentalità tradizionale dei movimenti di liberazione in America Latina, cioè: un piccolo gruppo di illuminati che si solleva in armi contro il governo. Questo fa sì che molta gente li segua, si ribelli e faccia cadere il governo e si instauri un governo socialista. Sono molto schematico, ma essenzialmente è quello che si conosce come la teoria del "faro guerrigliero".
Quel piccolo gruppo aveva quella mentalità tradizionale, classica od ortodossa, se la volete chiamare così, ma possedeva anche un bagaglio etico e morale che non aveva precedenti nei movimenti guerriglieri o armati in America Latina. Questa eredità etica e morale veniva da altri compagni che erano morti affrontando l'esercito federale e la polizia segreta del governo messicano.
Per tutti quegli anni rimanemmo soli. Non c'erano compagni nei villaggi. Nessuno dalla Grecia veniva a trovarci. Né dall'Italia, né dalla Francia, né dalla Spagna, né dai Paesi Baschi. Nemmeno dal Messico!
Perché questo era l'angolo più dimenticato di questo paese. Quello che era un fattore contro, più avanti si trasformò in un vantaggio: il fatto di essere isolati e dimenticati ci permise, allora, di vivere un processo di involuzione. Qualche ortodosso conoscerà il libro che racconta della "trasformazione della scimmia in uomo". In quel caso avvenne il contrario: l'uomo si trasformò in scimmia, che era quello che eravamo noi. Perfino fisicamente, per questo uso il passamontagna. È per una questione di estetica e di buon gusto che bisogna coprirsi il volto.
Questo piccolo gruppo sopravvisse alla caduta del Muro di Berlino, al crollo del socialismo, ai tentennamenti della guerriglia in America Centrale, prima col FMLN nel Salvador, poi con quello che una volta si chiamava il Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale, in Nicaragua. Ed in seguito, l'unione rivoluzionaria del Guatemala, la URNG.
Ciò che lo fece sopravvivere furono due elementi, secondo noi: uno, la sciocchezza o l'ostinazione che probabilmente quella gente aveva nel DNA. E l'altro, il bagaglio morale ed etico ereditato dai compagni e compagne che erano stati assassinati dall'esercito, proprio in quelle montagne.
Le cose stavano dunque così, con due possibilità: Un piccolo gruppo che passa decenni rinchiuso in montagna aspettando il momento in cui succederà qualcosa per agire nella realtà sociale. O finire, come una parte della sinistra radicale nel Messico di allora, come deputati, senatori, o presidenti legittimi della sinistra istituzionale in Messico.
Accadde qualcosa che ci salvò. In quei primi anni ci salvò e ci sconfisse. Quello che accadde è qui seduto alla mia sinistra, il Tenente Colonnello Insurgente Moisés, il Comandante Masho, il Comandante Ismael e molti altri compagni che trasformarono l'EZLN da un movimento guerrigliero d'avanguardia ed ortodosso, in un esercito di indigeni.
Non si trattava solo del fatto che era un esercito composto in maggioranza da indigeni. In maggioranza… in realtà su 100 combattenti 99 erano indigeni ed uno era meticcio. Non solo questo, ma quell'esercito e la sua mentalità subì la sconfitta nel suo progetto illuminante, il suo progetto di guida, caudillista, rivoluzionario classico, dove un uomo, o un gruppo di uomini, si trasforma nel salvatore dell'umanità, o del paese.
Accadde che quel progetto fu sconfitto nel momento in cui ci confrontammo con le comunità e ci rendemmo conto non solo che non ci capivano, ma che la loro proposta era migliore.
Decenni prima, secoli prima era successo qualcosa. Ci stavamo confrontando con un movimento di vita che era riuscito a sopravvivere ai tentativi di conquista di Spagna, Francia, Inghilterra, Stati Uniti e di tutte le potenze europee, compresa la Germania nazista nel 1940-1945. Quello che aveva fatto resistere questa gente, questi nostri compagni e compagne in primo luogo, e poi, i nostri capi e cape di adesso, era stato l'attaccamento alla vita che aveva molto a che vedere con il loro bagaglio culturale. La lingua, il linguaggio, il modo di rapportarsi con la natura rappresentava un'alternativa non solo di vita, ma di lotta. Non stavamo insegnando a resistere a nessuno. Ci stavamo trasformando in alunni di quella scuola di resistenza di gente che lo stava facendo da cinque secoli.
Quelli che venivano a salvare le comunità indigene, furono salvati da queste stesse. E trovammo rotta, destino, strada, compagnia e velocità per il nostro passo. Quello che allora, ed ora, chiamiamo "la velocità del nostro sogno".
L'EZLN ha molti debiti con voi, con gente come voi, in Messico ed in tutto il mondo, ma il nostro debito fondamentale è nel nostro cuore: nel cuore indigeno. In questa comunità ed in migliaia di comunità come questa popolate da compagni, basi di appoggio zapatiste.
Nel momento in cui il piccolo gruppo guerrigliero entra in contatto con i villaggi, sorge un problema ed un conflitto. Io posseggo la verità - io, il gruppo guerrigliero - e tu sei un ignorante, ti insegno, ti indottrino, ti educo, ti formo. Errore e sconfitta.
Nel momento in cui si inizia a costruire il ponte del linguaggio, ed incominciamo a modificare il nostro modo di parlare, iniziamo a modificare anche il nostro modo di pensare noi stessi e di pensare al nostro posto all'interno di un processo: servire.
Da un movimento che si proponeva di servirsi delle masse, dei proletari, degli operai, dei contadini, degli studenti per arrivare al potere e guidarli alla felicità suprema, ci stavamo trasformando, gradualmente, in un esercito che doveva servire le comunità. In questo caso, le comunità indigene tzeltales, le prime in cui ci stabilimmo in questa zona.
Il contatto con le comunità significò un processo di rieducazione più forte e più terribile dell'elettroshock praticato nelle cliniche psichiatriche. Non tutti lo sopportarono, ma alcuni sì.
Poi, che cosa è successo? Il fatto è che l'EZLN si trasforma in un esercito di indigeni, al servizio degli indigeni, e passa dai sei con i quali è nato l'EZLN, ad oltre seimila combattenti.
Che cosa fa scoppiare l'insurrezione del primo gennaio del '94? Perché decidemmo di sollevarci in armi? La risposta è nei bambini e nelle bambine. Non fu l'analisi della congiuntura internazionale.
Ognuno di voi converrà con me che la congiuntura internazionale non era favorevole per un'insurrezione armata. Il campo socialista era stato sconfitto, tutto il movimento di sinistra in America Latina era in fase di ritirata. In Messico la sinistra stava piangendo la sconfitta dopo che Salinas de Gortari non solo aveva fatto una frode, ma aveva comperato buona parte della coscienza critica della sinistra in Messico.
Chiunque minimamente ragionevole ci avrebbe detto: non ci sono le condizioni, non sollevatevi in armi, consegnate le armi, entrate nel nostro partito, eccetera, eccetera. Ma qualcosa dentro ci disse di sfidare quei pronostici e quelle congiunture internazionali.
L'EZLN dunque si prepara, per la prima volta, a sfidare il calendario e la geografia dell'alto. Ho detto i bambini e le bambine. Successe che in quegli anni, a partire dal principio degli anni '90, fu introdotta una riforma che impediva ai contadini l'accesso alla terra. La terra, come vedrete domani, quando salirete la collina che va verso il villaggio di Galeana, quella era la terra che avevano i contadini: ripidi pendii pieni di pietre. Le buone terre erano nelle mani dei finqueros. Nei prossimi giorni vedrete anche quelle fincas e potrete constatare la differenza di qualità della terra.
Si era cancellata la possibilità ad accedere ad un pezzo di terra. Contemporaneamente le malattie iniziarono ad uccidere i bambini e le bambine. Dal 1990 al 1992 non c'era bambino nella Selva Lacandona che arrivasse a compiere cinque anni. Prima dei cinque anni morivano di malattie curabili. Non era il cancro, non era l'AIDS, non erano malattie di cuore, erano malattie curabili: tifo, tubercolosi e a volte una semplice febbre ammazzava bambini e bambine minori di cinque anni.
Capisco che in città questo può essere perfino un vantaggio: meno asini, più pannocchie, si dice. Ma nel caso di un villaggio indigeno la morte dei suoi bambini significa la scomparsa come popolo. Cioè, nel processo naturale, gli adulti crescono, diventano vecchi e muoiono. Se non ci sono bambini quella cultura scompare.
La moria degli indigeni, dei bambini e delle bambine indigene, acutizzò ancora di più il problema. Ma la differenza rispetto al resto di altri villaggi indios, è che qui c'era un esercito ribelle, armato. Furono le donne a spingere per questa scelta. Non furono gli uomini. So che la tradizione in Messico - i mariachi, Pedro Infante e tutto il resto - è che gli uomini sono molto machi. Ma non è stato così. Chi cominciò a spingere: bisogna fare qualcosa, basta, è ora di finirla, furono le donne che vedevano morire i loro figli e figlie.
Cominciò a diffondersi una voce in tutte le comunità: bisogna fare qualcosa, ora, facciamola finita, in tutte le lingue. In quel momento eravamo presenti ormai anche nella zona degli Altos. E lì avevamo due compagne che erano, e sono ancora, la colonna portante di quell’opera: la defunta Comandante Ramona e la Comandante Susana.
In diverse parti cominciò a nascere questa inquietudine, questo malessere… Chiamiamolo col suo nome: questa ribellione tra le donne zapatiste, secondo le quali bisognava fare qualcosa. Noi allora facemmo quello che dovevamo, domandare a tutti che cosa avremmo fatto. Allora, nel 1992, si svolse una consultazione - senza televisione, senza governo del Distretto Federale, senza niente di quello che c'è adesso - e villaggio per villaggio si fecero assemblee - come quella che stiamo facendo adesso -. Si presentava la questione.
L'alternativa era molto semplice: se ci fossimo ribellati in armi ci avrebbero sconfitto, ma avremmo richiamato l'attenzione e le condizioni degli indigeni sarebbero migliorate. Se non ci fossimo ribellati in armi saremmo sopravvissuti, ma saremmo scomparsi come popoli indios.
La logica di morte è quando diciamo: non ci hanno lasciato altra scelta. Ora, dopo quattordici, quasi quindici, noi - quelli che siamo qui da più tempo - diciamo: che bello non aver avuto altra scelta.
Nei villaggi dissero: sei qui per questo, combatti, combatti con noi. Non si trattava solo di un rapporto formale, di comando. Perché formalmente era il contrario: formalmente l'EZLN era il comando e le comunità i subordinati. Nei fatti, nella realtà, era il contrario: i popoli sostenevano, si prendevano cura e facevano crescere l'Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale.
A quel tempo è stata importante anche la partecipazione di un compagno meticcio, proveniente dalla città, il Subcomandante Insurgente Pedro, che cadde in combattimento il primo gennaio del 1994.
Di fronte a questa alternativa ed alle comunità che dicono "alziamoci in armi", il calcolo militare che facemmo - il Tenente Colonnello Moisés forse lo ricorda bene perché fu su questa montagna che sta alle spalle del villaggio, lassù, dove avevamo un accampamento, che si tenne una riunione di tutti i comandi zapatisti -, il piano che presentai loro fu questo: dobbiamo pensare bene a quello che faremo, perché quando si inizia qualcosa non si può tornare indietro.
Se noi andavamo a chiedere alla gente se ci si doveva sollevare in armi o no, non potevamo poi fermarci. Sapevamo e sentivamo che la risposta sarebbe stata un sì. E sapevamo e sentivamo che quelli che sarebbero morti erano quelli che si stavano riunendo su queste montagne, qui a La Garrucha.
Poi è successo quello che è successo. Non vi racconterò del primo gennaio del '94 perché iniziate a saperne un bel po' su di noi - almeno alcuni di voi, perché altri erano molto piccoli - e si apre una tappa di resistenza, diciamo noi, dove si passa dalla lotta armata all'organizzazione della resistenza civile e pacifica.
Accadde qualcosa in tutto questo processo sul quale voglio richiamare l'attenzione: il cambiamento della posizione dell'EZLN rispetto alla questione del potere. E la posizione rispetto alla questione del potere è quella che segnerà in maniera più profonda il percorso zapatista. Noi ci eravamo resi conto - e per noi vanno intese le comunità, non solo il primo gruppo - ci eravamo resi conto che le soluzioni, come tutto in questo mondo, si costruiscono dal basso verso l'alto. E tutta la nostra proposta precedente, la proposta della sinistra ortodossa, fino ad allora, era stata il contrario: dall'alto si risolvono le cose per il basso.
Questo cambiamento dal basso verso l'alto per noi significava non organizzarci, non organizzare la gente per andare a votare, né per andare ad una marcia, né per gridare, ma per sopravvivere e per trasformare la resistenza in una scuola. Questo è stato quello che hanno fatto i compagni, non l'EZLN originale, quel piccolo gruppo, ma l'EZLN con ormai presente questa componente indigena. Quello che ora si conosce a grandi linee come la costruzione dell'autonomia zapatista è un processo che vi spiegherà ora il Tenente Colonnello Insurgente Moisés.
Prima di questo, volevo segnalare alcune cose. Si dice, non senza ragione, che negli ultimi due anni, il 2006 e 2007, il Subcomandante Marcos ha lavorato con impegno e con successo a distruggere l'immagine mediatica che si era costruita intorno a lui. E si fa osservare come persone che prima erano vicine a lui ora si siano allontanate o diventate addirittura anti-zapatiste. Alcune di queste persone sono andate nei rispettivi paesi a tenere conferenze e sono state ricevute come se fossero stati loro a ribellarsi in armi. Sono gli zapatologi, pronti a viaggiare con tutti i rimborsi spese, a ricevere gli applausi, le carovane e qualche altro favore, quando viaggiano all'estero.
Che cosa è successo? Vi dirò come la vediamo noi. Voi avrete la vostra opinione. Mi spiego: qui nelle zone indigene si parla molto dei "coyote". A differenza che tra gli yaquis ed i mayos per i quali il coyote è molto rispettato ed emblematico, in Chiapas no. Il coyote è l'intermediario. È qualcuno che compra a buon mercato agli indigeni e poi rivende al mercato a caro prezzo.
Quando scoppia l'insurrezione zapatista, nascono quelli che noi chiamiamo gli intermediari della solidarietà. Cioè, i coyote della solidarietà. Questa gente che diceva, ed ancora dice, di avere il contatto diretto con lo zapatismo, di avere il telefono rosso, sono quelli che sanno come stanno le cose qui, e questo per loro rappresenta un capitale politico. Vengono e portano qualche cosa, cioè pagano a buon mercato; se ne vanno e si presentano come emissari dell'EZLN: riscuotono molto.
La comparsa di questo gruppo di intermediari, in cui c'erano politici, intellettuali, artisti e gente del movimento sociale, ci nascondeva l'esistenza di altre cose, di altri in basso. Noi intuivamo che c'era la Spagna del basso; che c'erano i Paesi Baschi in rivolta; che c'era la Grecia ribelle; che esisteva la Francia insorta; che c'era l'Italia della lotta; ma non lo vedevamo. Temevamo, quindi, che neanche loro ci vedessero.
Questi intermediari organizzavano e facevano cose quando eravamo di moda ed incassavano il loro capitale politico. Così come chi organizza concerti e si tiene una quota: riscuote il suo salario, o quello che spetta alla sua organizzazione.
C'era altro in basso. Abbiamo sempre avuto questa idea: lo zapatismo ha sempre detto di non essere l'unico gruppo ribelle, né il migliore. La nostra idea non era creare un movimento che egemonizzasse tutta la ribellione in Messico, o tutta la ribellione a livello mondiale. Non abbiamo mai aspirato ad una internazionale, alla quinta internazionale o non so a che numero sono arrivati - Ora c'è la Sesta. Ma questa è un'altra, questa è L'Altra Internazionale.
Che cosa è successo? Vi dirò alcune cose che per voi non saranno novità. La descrizione della sinistra istituzionale è perfettamente chiara per gli spagnoli, con Rodríguez Zapatero o Felipe González; per i Paesi Baschi - Gora Euskal Herria - ancora di più; anche per l'Italia ribelle non deve essere una novità; ed anche la Grecia può raccontarci molto; in Francia con Miterrand, il barone, è lo stesso.
In Messico, no. Continua ad esserci questa aspettativa: che è possibile che la sinistra che ci ritroviamo adesso, se arriva al potere, lo farà impunemente, cioè: può arrivare a governare senza smettere di essere di sinistra. Spagna, Italia, Francia, Grecia, praticamente tutti i paesi al mondo possono rendere conto del contrario: di gente di sinistra, coerente - non necessariamente radicale - che smette di esserlo nel momento in cui arriva al potere. Varia la velocità, varia la profondità, ma inevitabilmente si trasformano. Questo è quello che noi chiamiamo "l'effetto stomaco" del potere: o ti digerisce o ti trasforma in merda.
In Messico questo avvicinamento della sinistra, o di quello che si autodefinisce sinistra, al potere - mi viene in mente ora che su un giornale è stato scritto che io non ero qui, ma che ero a Città del Messico alle feste della sinistra, ma non sapevo ci fosse una sinistra a Città del Messico e che facesse delle feste…. Sì c'è ancora, ma è un'Altra sinistra - dicevo, nel momento in cui si è presentata la possibilità del potere, è iniziato il processo di digestione e defecazione del potere su questa sinistra. Sugli zapatisti, e su tutto quello che si collocava nel centro - perdonatemi se infrango qualche cuore, ma il centro non sta nel centro, è incollato alla destra. È all'altro lato, alla destra... meglio, alla vostra destra-.
Dunque, noi avremmo dovuto, ce lo chiedeva questo gruppo di intellettuali, artisti, leader sociali, ritornare alla situazione storica presente al 1984, quando pensavamo che un gruppo, o una persona, se arriva al potere, trasforma tutto dall'alto verso il basso. E si voleva che noi depositassimo la fiducia, il futuro, la nostra vita ed il nostro sviluppo ad un illuminato, ad una persona, insieme ad una banda di 40 ladroni che è la sinistra in Messico.
Noi abbiamo detto no. Non è che il presidente legittimo ci sia antipatico, semplicemente non crediamo in questo processo. Non crediamo che qualcuno, nemmeno qualcuno tanto figo quanto il Subcomandante Marcos, sia capace di operare questa trasformazione. Noi non potevamo fare questo, ed allora c'è stata la rottura.
Voglio richiamare l'attenzione su una cosa: allora dicemmo quello che sarebbe successo. Quello che sta succedendo adesso. Quando noi lo dicevamo, dissero che stavamo facendo il gioco della destra. Ora che stanno ripetendo perfino con le nostre stesse parole quello che dicevamo due anni fa, si dice che è per fare un servizio alla sinistra.
Lo zapatismo è scomodo. È come se nel rompicapo del potere ci fosse un pezzo che non si incastra e di cui bisogna disfarsi. Di tutti i movimenti che ci sono in Messico, uno di questi - non l'unico - lo zapatismo, è scomodo per questa gente. È un movimento che non permette di accontentarsi, che non permette di arrendersi, che non permette di tentennare, che non permette di vendersi. E nei movimenti dell'alto questa è la logica, questo è razionale. È la "real politik", come si dice.
Allora si verifica l'allontanamento che, a poco a poco, incomincia a permeare perfino i settori internazionali, in America Latina ed in Europa, fondamentalmente. In questo percorso, tuttavia, si sono costruite relazioni più solide. Per citarne alcune, con i compagni della CGT della Spagna, con il movimento culturale ribelle dei Paesi Baschi, l'Italia sociale e, più recentemente, la Grecia ribelle ed insubordinata che abbiamo conosciuto.
Questo spostamento a destra si nasconde in questo modo, si dice: "L'EZLN si è radicalizzato ed è diventato più di sinistra". Scusate, ma il nostro progetto è sempre lo stesso: non cerchiamo la presa del potere, pensiamo che le cose si costruiscono dal basso. Quello che è successo è che quei settori, gli intermediari della solidarietà, i coyote internazionalisti, o l'internazionale del "coyotaggio", si sono spostati a destra. Perché il potere non ti fa entrare gratis.
Il potere è un club esclusivo e bisogna avere determinati requisiti per accedervi. Quello che gli zapatisti chiamano "la società del potere" ha le sue regole. E vi si può accedere solo se si rispettano determinate regole. Chiunque cerchi giustizia, libertà, democrazia, rispetto per le differenze, non ha possibilità di accedervi, a meno che tentenni su queste idee.
Quando noi abbiamo cominciato a vedere questo spostamento a destra del settore apparentemente più zapatista, ci siamo chiesti che cosa c'era sotto, cosa c'era dietro. Ad essere sinceri siamo partiti dal contrario: abbiamo cominciato dal mondo, cioè a livello internazionale, e poi ci siamo chiesti del Messico.
Per ragioni che forse voi potete spiegare, la vicinanza dello zapatismo è stata più forte con altri paesi che col Messico. Ed è stata più forte in Messico che con la gente del Chiapas. Come se ci fosse un rapporto inverso nella geografia: chi viveva più lontano era più vicino a noi, mentre chi viveva più vicino era più lontano da noi.
È venuta l'idea di cercarli con l'intuizione ed il desiderio che esistessero: voi, altri come voi. È arrivata la Sesta Dichiarazione, la rottura definitiva con quel settore dei coyote della solidarietà. E la ricerca, in Messico e nel mondo, di altri che fossero come noi, ma che fossero diversi.
Oltre a questa posizione rispetto al potere, c'è una caratteristica essenziale nello zapatismo - e lo vedrete ora che siete qui in questi giorni o se parlerete con i Consigli Autonomi e con le Giunte di Buon Governo, ovvero con le autorità autonome -: la rinuncia ad egemonizzare ed omogeneizzare la società. Noi non pretendiamo un Messico zapatista, né un mondo zapatista. Non pretendiamo che tutti diventino indigeni. Noi vogliamo un posto, qui, il nostro, che ci lascino in pace, che non ci comandi nessuno. Questo è la libertà: che noi decidiamo quello che vogliamo fare.
E pensiamo che sia possibile solo se altri come noi lo vogliono e lottano per la stessa cosa. E si stabilisce un rapporto di cameratismo, diciamo noi. Questo è quello che vuole costruire L'Altra Campagna. Questo è quello che vuole costruire la Sesta Internazionale. Un incontro di ribellioni, uno scambio di apprendistati ed un rapporto più diretto, non mediatico, ma reale, di appoggio tra organizzazioni.
Alcuni mesi fa sono venuti qua compagni di Corea, Thailandia, Malesia, India, Brasile, Spagna - e non mi ricordo di che altre parti - di Vía Campesina. Noi li abbiamo incontrati a La Realidad ed abbiamo detto loro: l'incontro tra dirigenti per noi non vale niente. Tanto meno le foto con loro. Se le dirigenze di due movimenti non servono affinché i movimenti si incontrino e si conoscano, queste dirigenze non servono.
Diciamo la stessa cosa a chiunque venga a proporci questo. Quello che ci interessa è quello che c'è dietro: voi, altri come voi. Non possiamo andare in Grecia, ma possiamo fare un calcolo e dire che non sono tutti qua quelli che avrebbero voluto venire. Come possiamo parlare con questi altri? E dire loro che non vogliamo elemosine, che non vogliamo pietà. Che non vogliamo che ci salvino la vita. Che vogliamo un compagno, una compagna, ed unoa compagnoa in Grecia che lotti per le proprie rivendicazioni. In Italia, nei Paesi Baschi, in Spagna, in Francia, in Germania, Danimarca, Svezia - non elenco tutti i paesi perché se ne salto uno poi mi contestano -…
Dove guardiamo noi? Mentre vi espongo questo rapido percorso, vi parlo di un'eredità morale ed etica dalla quale siamo nati. Ha a che vedere soprattutto con la lotta ed il rispetto per la vita, per la libertà, per la giustizia e per la democrazia. Noi abbiamo un debito morale con i nostri compagni. Non con voi, non con gli intellettuali che si sono allontanati, non con gli artisti né con gli scrittori, né con i leader sociali che ora sono antizapatisti.
Noi abbiamo un debito con coloro che sono morti lottando. E noi vogliamo che arrivi il giorno in cui ai nostri morti ed alle nostre morte potremo dire solo tre cose: non ci siamo arresi, non ci siamo venduti, non abbiamo tentennato.



Dalle montagne del Sudest Messicano
Subcomandante Insurgente Marcos