Você é assim



Você é assim
Um sonho pra mim
E quando eu não te vejo
Eu penso em você
Desde o amanhecer
Até quando eu me deito

Eu gosto de você
E gosto de ficar com você
Meu riso é tão feliz contigo
O meu melhor amigo é o meu amor

E a gente canta
E a gente dança
E a gente não se cansa
De ser criança
Da gente brincar
Da nossa velha infância...

Seus olhos meu clarão
Me guiam dentro da escuridão
Seus pés me abrem o caminho
Eu sigo e nunca me sinto só

Você é assim
Um sonho pra mim
Quero te encher de beijos
Eu penso em você
Desde o amanhecer
Até quando eu me deito

Eu gosto de você
E gosto de ficar com você
Meu riso é tão feliz contigo
O meu melhor amigo é o meu amor

E a gente canta
E a gente dança
E a gente não se cansa
De ser criança
Da gente brincar
Da nossa velha infância...

Du är det bästa jag har

Du är min renaste tröst,
du är mitt fastaste skydd,
du är det bästa jag har,
ty intet gör ont som du.

Nej, intet gör ont som du.
Du svider som is och eld,
du skär som ett stål min själ,
du är det bästa jag har.
________

Sei la mia consolazione più pura,
sei il mio più fermo rifugio,
tu sei il meglio che ho,
perchè niente fa male come te.

No, niente fa male come te.
Bruci come ghiaccio e fuoco,
tagli come acciaio la mia anima,
tu sei il meglio che ho.

Karin Boye

















Hur kan jag säga om din röst är vacker.
Jag vet ju bara, att den genomtränger mig
och kommer mig att darra som ett löv
och trasar sönder mig och spränger mig.

Vad vet jag om din hud och dina lemmar.
Det bara skakar mig att de är dina,
så att för mig finns ingen sömn och vila,
tills de är mina.
__________

Come posso dire se la tua voce è bella.
So soltanto che mi penetra
e mi fa tremare come una foglia
e mi lacera e mi dirompe.

Cosa so della tua pelle e delle tue membra.
Mi scuote soltanto che sono tue,
così che per me non c’è sonno né riposo,
finché non saranno mie.

Karin Boye

Sozaboy



Non lo sai che qualsiasi sozasoldato che scappa via dal campo di battaglia è un sozadisertore e, se lo prendono, devono sparargli come a un montone? E tutto quello che sto facendo ora per te, come darti del cibo e farti le iniezioni, non sai forse che è soltanto per farti diventare bello grasso come un montone, cosicché possano ammazzarti e tu raggiunga il tuo amico Pallottola?
Sozaboy, dammi soltanto un po’ di tempo. Ti farò sputare sangue. Verrà quel giorno. Io sono Manmuswak, L’uomo-deve-vivere, e tu devi avere paura di me. Come devono aver paura di me tutti quelli che hanno sentito il mio nome sul fronte di guerra. Perché io sono un sozasoldato e io sono la guerra. Non ho nessun amico e posso combattere ben-bene contro chiunque.

Sozaboy, Ken Saro-Wiwa


Così, da quella volta, in qualsiasi posto vado, tutti mi chiamano “Sozaboy”, “Sozaboy”. Anzi, sono diventato proprio famoso a Dukana. Tutti i ragazzi dicono che sono un tipo in gamba. Sposando, come niente fosse, una bella ragazza di Lagos e poi preparandomi per andare ad arruolarmi nell’esercito. Dicono che, dopo un po’ di tempo, mi daranno un ruolo veramente importante nell’esercito. Per conto mio, ero molto orgoglioso. Quando mi chiamano “Sozaboy”, rispondo all’istante. E addirittura dico in giro, perfino, che Sozaboy è il mio nome. Se vado a casa di qualcuno e busso alla porta e chiedono chi è, rispondo “Sozaboy”. Quel nome mi piace proprio.

Sozaboy, Ken Saro-Wiwa

Not the Jail not the Death

Io non mi arrendo,
mi avrete soltanto con un colpo alle spalle.
Io non dimentico e non mi arrendo.
Io non mi arrendo,
è nell’indifferenza che un uomo,
un uomo vero, muore davvero.


A sangue freddo (Il teatro degli orrori)




Abitare sul delta del Niger, nell'area sudorientale della Nigeria, può significare una scommessa con la morte. Qui non ci sono mine antiuomo pronte a esplodere, ma solo petrolio. Molto petrolio. La sua scoperta risale al 1958, anno in cui la Shell inizia a trivellare con successo l'Ogoniland, un territorio abitato da mezzo milione di Ogoni, che a partire da quel momento vedono il proprio ambiente devastato dall'azione intrusiva delle multinazionali e diventano sempre più poveri nonostante l'immane ricchezza sotto ai loro piedi. Un paradosso, quest'ultimo, ormai tristemente assurto a paradigma della "malaglobalizazione".
Un uomo, lo scrittore Ken Saro-Wiwa, decide di denunciare il degrado ambientale, l'esodo obbligato degli Ogoni privati della propria terra, lo strapotere della Shell, appoggiata dalla dittatura di turno. Ma il "patto scellerato" a tutela del profitto e del reciproco sostegno, chiaramente, tiene botta, persino alla marcia di trecentomila Ogoni all'inizio del 1993, fomentati da Ken Saro-Wiwa, per protestare contro la Shell e i gerarchi nigeriani.
Ken Saro-Wiwa, come ricordava Roberto Saviano nello speciale La bellezza e l'inferno, è riuscito a costruire il nostro immaginario sui bambini africani col ventre gonfio, le gambe magre magre, i volti affamati, i bambini nella guerra del Biafra che devastò la Nigeria dal 1967 al 1970.
Ken Saro-Wiwa è uno scrittore, ed è stato il suo impegno letterario a fare paura al potere. Non era un marginale, aveva ricoperto incarichi instituzionali all’interno del governo federale della Nigeria negli anni '70, per arrivare a conoscere e poi a denunciare con la potenza della parola letteraria la politica corrotta asservita alle multinazionali del petrolio nel Delta del Niger. Nel 1990 fondò il MOSOP (Movement for the Survival of Ogoni People, Movimento per la Sopravvivenza del Popolo Ogoni).
Lo scrittore è ben cosciente del rischio che corre. Segue la sua incarcerazione, la lotta dal carcere, fino all'impiccagione il 10 novembre del 1995. Stessa sorte subiscono gli altri otto attivisti del MOSOP, il movimento per la sopravvivenza degli Ogoni. Prima di morire disse: "Io sono un uomo di pace, di idee. Provo sgomento per la vergognosa povertà del mio popolo che vive su una terra molto generosa di risorse; provo rabbia per la devastazione di questa terra".
Ma il dato più inquietante della sua storia è sicuramente quello del patteggiamento operato dalla Shell per evitare di comparire nell’imbarazzante processo post-mortem aperto nel 1996 dall’avvocato Jenny Green per conto del Center for Constitutional Rights al fine di dimostrare il coinvolgimento e la responsabilità penale della multinazionale nelle esecuzioni capitali. A maggio 2009, tredici anni dopo, la Shell ha patteggiato accettando di pagare 15,5 milioni di dollari.
Una multinazionale processata per l'impiccagione di un poeta, uno scrittore che ha fatto con la parola quello che non sono riusciti a fare prima ambientalisti e guerriglieri: paura al potere.
A volte non siamo in grado di cogliere il nuovo dell’esperienza; ciò che di originale e irripetibile vi è in essa viene immediatamente catalogato entro il dominio del “già noto” prima che la sua apparizione possa esser giudicata degna, di per sé, di valore.
I carnefici di Ken Saro-Wiwa sono certamente il governo nigeriano e la Shell, ma c'è un loro grande complice, un correo, un compartecipe: l’Indifferenza. E con il termine "indifferenza" non intendo chiamare in causa una divinità abscondita ed astratta e reificarla per comodità espressiva.
L’indifferenza esiste perché, al contrario dell’eroismo, alberga prepotentemente in ciascuno di noi. E' nell’indifferenza che un uomo, un uomo vero, muore davvero. L’indifferenza, non altro, può dirsi l’elemento sovraindividuale che accomuna l’odierna passività politica. Per quale motivo? Perché ciò che frena, ciò che è sempre in agguato, è la paura di morire.
In assenza di riferimenti, ad occhi chiusi, se mi chiedessero di definire un eroe, la prima cosa che immaginerei d’istinto è qualcuno che muore per la causa in cui crede. E non perché la morte sia in sé qualcosa di eroico. A questa idea romantica si potrebbe infatti facilmente obiettare che in fondo si tratta di un evento molto naturale, inscritto nel destino di ciascuno, a prescindere dalla modalità in cui si consuma, e che la maggior parte di coloro che muoiono eroicamente non sceglie e non desidera farlo. E’ altresì vero che la morte di qualcuno che ha sacrificato la vita - per come ha vissuto nel momento in cui viveva, dunque vivendo e non morendo - la morte di qualcuno che ha vissuto per qualcosa di più grande dell’autosostentamento, funge spontaneamente da monito per chi resta.
Per questo tipo di essere umano la morte non è solo la livella, non è ciò che lo rende uguale agli altri, ma ciò che lo rende diverso. E' essa, infatti, che permette ai superstiti di individuare un orizzonte di senso entro la sfera del mero accadimento con cui quell’esistenza individuale, indifferentemente dalle altre, sarebbe altrimenti venuta a coincidere.
La morte di chi si è dedicato a una nobile causa è, in altre parole, ciò che risveglia (dovrebbe risvegliare) l’opinione pubblica dall’indifferenza. Perché ciò contro cui dobbiamo scagliare il nostro risentimento è l’indifferenza, che rende necessaria la morte, e la consacrazione post-mortem, di chi in vita non ha voluto fare l’eroe, ma ha cercato piuttosto di combattere pur sapendo di non poter sostenere questo compito in solitudine.
L’eroe che è in Ken Saro-Wiwa, se tale lo si può definire, non è l’uomo ingiustamente condannato che ha stentato a morire per l'incapacità del plotone d’esecuzione, ma colui che ha cercato di risvegliare la dignità e il senso di appartenenza della propria gente ad una comunità, che ha tentato di mettere sotto gli occhi dell’opinione pubblica nazionale e internazionale il saccheggio ambientale ed economico praticato abusivamente, per anni, sulla propria terra.
Per questo motivo Roberto Saviano rifiuta di definirlo un eroe. Una simile consacrazione, al di là dei confini dell’umano, ubriaca in un primo tempo le coscienze intorpidite dall’indifferenza, ma in essa le risprofonda al termine dell’ebbrezza. Come a dire che, se riuscissimo a realizzare che colui che parla, scrive, mobilita, non è un eroe o un alieno ma piuttosto un uomo, ci renderemmo conto che i suoi gesti - e non “le gesta” - altro non sono che il tentato dialogo di un essere umano verso quanto di più "umano" c’è nell’uomo.
Solo facendo propria fino in fondo, senza mezze misure, la prospettiva terenziana del “Nihil humano a me alienum puto”, è possibile risemantizzare i due concetti di eroe e di uomo con la radicalità e, insieme, l’orizzontalità che meritano. Sarebbe eroica allora, nella sua paradossalità, la fuga del Sozaboy (il ragazzo-soldato protagonista dell’omonimo romanzo di Saro-Wiwa) dal teatro di guerra nel quale lui stesso ha voluto combattere, dopo aver pagato persino una mazzetta al capitano per ottenere un posto nell’esercito. Sarebbe eroica anche se è una fuga e fuggendo si rischia di esser colpiti alle spalle, ciò che per l’eroe classico è sintomo di codardia e motivo supremo d’onta. Sarebbe eroica perché è la fuga dall’orrore di ciò che da umano - troppo umano! - si è trasformato in disumano.
E’ nel riconoscimento della follia e contemporaneamente nel disconoscimento di essa, nel possederla e nel respingerla, come intima alienità che portiamo in noi stessi, è nello sfiorare e nel sostenere questo paradosso, che la reazione all'indifferenza, come la diserzione di Sozaboy, si trasformano infine in eroismo puro.







Nè la prigione nè la morte

Signor Presidente, tutti noi siamo di fronte alla Storia. Io sono un uomo di pace, di idee. Provo sgomento per la vergognosa povertà del mio popolo che vive su una terra molto generosa di risorse; provo rabbia per la devastazione di questa terra; provo fretta di ottenere che il mio popolo riconquisti il suo diritto alla vita e a una vita decente. Così ho dedicato tutte le mie risorse materiali ed intellettuali a una causa nella quale credo totalmente, sulla quale non posso essere zittito. Non ho dubbi sul fatto che, alla fine, la mia causa vincerà e non importa quanti processi, quante tribolazioni io e coloro che credono con me in questa causa potremo incontrare nel corso del nostro cammino. Né la prigione né la morte potranno impedire la nostra vittoria finale. Non siamo sotto processo solo io e i miei compagni. Qui è sotto processo la Shell. Ma questa compagnia non è oggi sul banco degli imputati. Verrà però certamente quel giorno e le lezioni che emergono da questo processo potranno essere usate come prove contro di essa, perché io vi dico senza alcun dubbio che la guerra che la compagnia ha scatenato contro l'ecosistema della regione del delta sarà prima o poi giudicata e che i crimini di questa guerra saranno debitamente puniti. Così come saranno puniti i crimini compiuti dalla compagnia nella guerra diretta contro il popolo Ogoni.

Testamento di Ken Saro-Wiwa



La vera prigione

Non è il tetto che perde
Non sono nemmeno le zanzare che ronzano
Nella umida, misera cella.
Non è il rumore metallico della chiave
Mentre il secondino ti chiude dentro.
Non sono le meschine razioni
Insufficienti per uomo o bestia
Neanche il nulla del giorno
Che sprofonda nel vuoto della notte
Non è
Non è
Non è.
Sono le bugie che ti hanno martellato
Le orecchie per un'intera generazione
E' il poliziotto che corre all'impazzata in un raptus omicida
Mentre esegue a sangue freddo ordini sanguinari
In cambio di un misero pasto al giorno.
Il magistrato che scrive sul suo libro
La punizione, lei lo sa, è ingiusta
La decrepitezza morale
L'inettitudine mentale
Che concede alla dittatura una falsa legittimazione
La vigliaccheria travestita da obbedienza
In agguato nelle nostre anime denigrate
È la paura di calzoni inumiditi
Non osiamo eliminare la nostra urina
E' questo
E' questo
E' questo
Amico mio, è questo che trasforma il nostro mondo libero
In una cupa prigione.

Ken Saro-Wiwa




Parte precedente: Dall'Inferno alla Bellezza
Parte successiva: Città dell'uomo - Paradiso dei fiori


Soñar o lo que es lo mismo... ¡Luchar!

Los sueños cambíaron el destíno de los hombres y de las nacíones.



Y si seguiremos
Si dicen perdido yo digo buscando,
Si dicen no llegas de puntillas alcanzamos,
Y sí seguiremos.
Si dicen caíste yo digo me levanto
Si dicen dormido es mejor soñando

Entre unos y otros ahí estás tú
Somos los mismos somos distintos
Pero nos llaman multitud.
Perdonen que no me levante
Cuando digan de frente y al paso
No somos tropas no somos soldados
Mejor gotas sobre olas flotando.

Y si seguiremos
Si dicen perdido yo digo buscando,
Si dicen no llegas de puntillas alcanzamos,
Y sí seguiremos.
Si dicen caíste yo digo me levanto
Si dicen dormido es mejor soñando

Perdonen que no me aclere
En medio de este mar enturbiado
Nos hicieron agua trasparente
No me ensucien mas,
Yo ya me he manchado.
y es que hay una gran diferencia
entre pensar y soñar
yo soy de lo segundo
En cada segundo vuelvo a empezar.

Y sí seguiremos
Si dicen perdido yo digo buscando,
Si dicen no llegas de puntillas alcanzamos,
Y sí seguiremos.
Si dicen caíste yo digo me levanto
Si dicen dormido es mejor soñando

Hoy sabemos que lo importante es soñar, liberar nuestro inconsciente, el filtro de censura del pensamiento, creemos que al soñar perdemos un tercio de nuestra vida, y nos equivocamos.

Y si seguiremos
Si dicen perdido yo digo buscando,
Si dicen no llegas de puntillas alcanzamos,
Y sí seguiremos.
Si dicen caíste yo digo me levanto
Si dicen dormido es mejor soñando
Si dicen caíste yo digo me levanto
Si dicen dormido es mejor soñando

Hoy sabemos que lo importante es soñar...

Qui ad Atene...



Qui ad Atene noi facciamo così.
Qui il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi: e per questo viene chiamato democrazia.
Qui ad Atene noi facciamo così. Le leggi qui assicurano una giustizia eguale per tutti nelle loro dispute private, ma noi non ignoriamo mai i meriti dell’eccellenza.
Quando un cittadino si distingue, allora esso sarà, a preferenza di altri, chiamato a servire lo Stato, ma non come un atto di privilegio, come una ricompensa al merito, e la povertà non costituisce un impedimento.
Qui ad Atene noi facciamo così. La libertà di cui godiamo si estende anche alla vita quotidiana; noi non siamo sospettosi l’uno dell’altro e non infastidiamo mai il nostro prossimo se al nostro prossimo piace vivere a modo suo.
Noi siamo liberi, liberi di vivere proprio come ci piace e tuttavia siamo sempre pronti a fronteggiare qualsiasi pericolo.
Un cittadino ateniese non trascura i pubblici affari quando attende alle proprie faccende private, ma soprattutto non si occupa dei pubblici affari per risolvere le sue questioni private.
Qui ad Atene noi facciamo così. Ci è stato insegnato di rispettare i magistrati, e ci è stato insegnato anche di rispettare le leggi e di non dimenticare mai che dobbiamo proteggere coloro che ricevono offesa.
E ci è stato anche insegnato di rispettare quelle leggi non scritte che risiedono nell’universale sentimento di ciò che è giusto e di ciò che è buon senso.
Qui ad Atene noi facciamo così. Un uomo che non si interessa allo Stato noi non lo consideriamo innocuo, ma inutile; e benchè in pochi siano in grado di dare vita ad una politica, beh tutti qui ad Atene siamo in grado di giudicarla.
Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla via della democrazia.
Noi crediamo che la felicità sia il frutto della libertà, ma la libertà sia solo il frutto del valore.
Insomma, io proclamo che Atene è la scuola dell’Ellade e che ogni ateniese cresce sviluppando in sé una felice versalità, la fiducia in se stesso, la prontezza a fronteggiare qualsiasi situazione ed è per questo che la nostra città è aperta al mondo e noi non cacciamo mai uno straniero.
Qui ad Atene noi facciamo così!

Paolo Rossi

Pericle - Discorso agli Ateniesi. Libera versione da Tucidide, La Guerra del Peloponneso, libro II, cap. I, 35 ss
____________

Aquí a Atenas nosotros hacemos así.
Aquí nuestro gobierno favorece los muchos en lugar de los pocos: y por éste es llamado democracia.
Aquí a Atenas nosotros hacemos así. Aquí las leyes aseguran una justicia igual por todo en sus disputas privadas, pero nosotros no ignoramos nunca los méritos de la excelencia.
Cuando un ciudadano se distingue, entonces ello será, a preferencia de otros, llamado a servir el Estado, pero no como un acto de privilegio, como una recompensa al mérito, y la pobreza no constituye un impedimento.
Aquí a Atenas nosotros hacemos así. La libertad de que gozamos también se extiende a la vida cotidiana; nosotros no somos sospechosos el uno del otro y no fastidiamos nunca a nuestro prójimo si a nuestro prójimo gusta vivir a su modo.
Nosotros estamos libres, libres de vivir justo como nos gusta y sin embargo siempre estamos listos a enfrentar cualquier peligro.
Un ciudadano ateniense no descuida los públicos asuntos cuando espera a los mismos asuntos privados, pero sobre todo no se ocupa de los públicos asuntos para solucionar sus cuestiones privadas.
Aquí a Atenas nosotros hacemos así. Allí ha sido enseñado de respetar a los magistrados, y allí también ha sido enseñado de respetar las leyes y de no olvidar nunca que tenemos que proteger a los que reciben ofensa.
Y allí también ha sido enseñado de respetar aquellas leyes no escritas que residen en el universal sentimiento de lo que es justo y de lo que es sentido común.
Aquí a Atenas nosotros hacemos así. Un hombre que no se interesa en el Estado no nos lo consideramos inocuo, pero inútil; y aunque en poco estén capaz de dar vida a una política, beh todo aquí a Atenas estamos capaz de juzgarla.
Nosotros no consideramos la discusión como un obstáculo sobre la calle de la democracia.
Nosotros creemos que la felicidad es el fruto de la libertad, pero la libertad sea sólo el fruto del valor.
Entonces, yo proclamo que Atenas es la escuela del Ellade y que cada ateniense crece desarrollando en si un feliz versalità, la confianza en él mismo, la prontitud a enfrentar cualquiera situación y es por éste que nuestra ciudad nos es abierta al mundo y a no cazamos nunca a un extranjero.
¡Aquí a Atenas nosotros hacemos así!

Paolo Rossi

Péricles - Descurso a los Atenienses. Libre versión de Tucidide, Guerra del Peloponneso, libro II, cap. I, 35 ss

Necesito tu sonrisa



No dejes que este mundo roto
Estropee tú sonrisa leré
No dejes que este mundo roto
Estropee tú sonrisa leré

Si la vida es un momento,
Penitas pa´fuera; échalas al viento,
Suéltale un soplío, vacila otra vez tú caminar.

Cicatrices, grietas
Del mundo que nos lleva.
Mientras tanto, mi niña,
Tu giras mis antenas,
Realidades desbordadas
Imponen soledad.
Mientras tanto, mi niña,
Tu mano en mi mano va.
Sonidos dormidos:
Los tuyos silencios vivos;
Tu oro, solere pa´mi lerele

No dejes que este mundo roto
Estropee tú sonrisa leré
No dejes que este mundo roto
Estropee tú sonrisa leré

Si la vida es un momento,
Penitas pa´fuera; échalas al viento,
Suéltale un soplío, vacila otra vez tú caminar.

El ruido de afuera
A mi no me dice ná.
Mientras tanto, mi niña,
Tu sonrisa me da verdad.
Entre calma y tormenta,
La marea así nos lleva.
Mientras tanto, mi niña,
Tu alzaste mi vela.
Tus respuestas sin palabras,
Soplidos de esperanza
Que giran la veleta
De mi solerelere

Y hoy en mi balanza,
Se mecen las distancias.
Como en mundo roto puedes tú
Coser los retales de mi esbozo.

No dejes que este mundo roto
Estropee tú sonrisa leré
No dejes que este mundo roto
Estropee tú sonrisa leré

Si la vida es un momento,
Penitas pa´fuera; échalas al viento,
Suéltale un soplío, vacila otra vez tú caminar.

No dejes que este mundo roto
Estropee tú sonrisa leré
No dejes que este mundo roto
Estropee tú sonrisa leré

Qué las grietas no nos apaguen la llama!
Iluminando ditancias,
Rearmando lo que se separa
Todos dicen...

Un homme libre

Pour l'impérialisme il est plus important de nous dominer culturellement que militairement. La domination culturelle est la plus souple, la plus efficace, la moins coûteuse. Notre devoir consiste à décoloniser notre mentalité.
Thomas Sankara

Per l'imperialismo è più importante dominarci culturalmente che militarmente. La dominazione culturale è la più flessibile, la più efficace, la meno costosa. Il nostro compito consiste nel decolonizzare la nostra mentalità.
Thomas Sankara



Thomas Sankara, ex-presidente del Burkina Faso, paese tra i più poveri dell'Africa ed ex-colonia francese. In soli 4 anni di governo riuscì a risollevare il suo paese oppresso dalla fame e dalla povertà e lo fece sfruttando le esigue risorse che questo poteva offrire.
Nel suo "discorso sul debito", pronunciato in occasione della conferenza dell'OUA, l'Organizzazione dell'Unità Africana, ad Addis-Abeba il 29 luglio 1987, espresse una forte opposizione al pagamento del debito che tutt'oggi opprime la libertà e lo sviluppo dei paesi africani.
Questo discorso gli costò l'inimicizia di Francia e Stati Uniti che meno di tre mesi dopo, il 15 ottobre, lo fecero assassinare. Thomas Sankara morì così all'età di soli 38 anni, lasciando moglie e figli e un paese che sarebbe presto ritornato nella povertà.




Monsieur le président, messieurs les chefs des délégations, je voudrais qu’à cet instant nous puissions parler de cette autre question qui nous tiraille : la question de la dette, la question de la situation économique de l’ Afrique. Autant que la paix, elle est une condition importante de notre survie. Et c’est pourquoi j’ai cru devoir vous imposer quelques minutes supplémentaires pour que nous en parlions.
Le Burkina Faso voudrait dire tout d’abord sa crainte. La crainte que nous avons c’est que les réunions de l’OUA se succèdent, se ressemblent mais qu’il y ait de moins en moins d’intéressement à ce que nous faisons.
Monsieur le président, combien sont-ils les chefs d’Etat qui sont ici présents alors qu’ils ont dument appelés à venir parler de l’Afrique en Afrique?
Monsieur le président, combien de chefs d’Etats sont prêt à bondir à Paris, à Londres, à Washington lorsque là-bas on les appelle en réunion mais ne peuvent pas venir en réunion ici à Addis-Abeba en Afrique? Ceci est très important
.[applaudissements]
Je sais que certains ont des raisons valables de ne pas venir. C’est pourquoi je voudrais proposer, Monsieur le président, que nous établissions un barème de sanctions pour les chefs d’Etats qui ne répondent pas présents à l’appel. Faisons en sorte que par un ensemble de points de bonne conduite, ceux qui viennent régulièrement, comme nous par exemple,
[Rires] puissent être soutenus dans certains de leurs efforts. Exemple : les projets que nous soumettons à la Banque africaine de développement (BAD) doivent être affectés d’un coefficient d’africanité.[applaudissements] Les moins africains seront pénalisés. Comme cela tout le monde viendra aux réunions.
Je voudrais vous dire, Monsieur le président, que la question de la dette est en question que nous ne saurions occulter. Vous-même vous en savez quelque chose dans votre pays où vous avez du prendre des décisions courageuses, téméraires même. Des décisions qui ne semblent pas du tout être en rapport avec votre age et vos cheveux blancs.
[Rires] Son Excellence le président Habib Bourguiba qui n’a pas pu venir mais qui nous a fait délivrer un important message donné cet autre exemple à l’Afrique, lorsque en Tunisie, pour des raisons économiques, sociales et politiques, il a du lui aussi prendre des décisions courageuses.
Mais, Monsieur le président, allons-nous continuer à laisser les chefs d’Etats chercher individuellement des solutions au problème de la dette avec le risque de créer chez eux des conflits sociaux qui pourraient mettre en péril leurs stabilités et même la construction de l’unité africaine ? Ces exemples que j’ai cités, il y en a bien d’autres, méritent que les sommets de l’OUA apportent une réponse sécurisante à chacun de nous quant à la question de la dette.
Nous estimons que la dette s’analyse d’abord de par son origine. Les origines de la dette remontent aux origines du colonialisme. Ceux qui nous ont prêtés de l’argent, ce sont eux qui nous ont colonisés. Ce sont les mêmes qui géraient nos économies. Ce sont les colonisateurs qui endettaient l’Afrique auprès des bailleurs de fond, leurs frères et cousins. Nous sommes étrangers à la dette. Nous ne pouvons donc pas la payer.
La dette c’est encore le néo-colonialisme ou les colonialistes qui se sont transformés en " assistants techniques ". En fait, nous devrions dire en assassins technique. Et ce sont eux qui nous ont proposé des sources de financement, des " bailleurs de fonds ". Un terme que l’on emploie chaque jour comme s’il y avait des hommes dont le "bâillement" suffirait à créer le développement chez d’autres. Ces bailleurs de fonds nous ont été conseillés, recommandés. On nous a présenté des dossiers et des montages financiers alléchants. Nous nous sommes endettés pour cinquante ans, soixante ans et même plus. C’est-à-dire que l’on nous à amenés à compromettre nos peuples pendant cinquante ans et plus.
La dette sous sa forme actuelle, est une reconquête savamment organisée de l’Afrique, pour que sa croissance et son développement obéissent à des paliers, à des normes qui nous sont totalement étrangers. Faisant en sorte que chacun de nous devienne l’esclave financier, c’est-à-dire l’esclave tout court, de ceux qui ont eu l’opportunité, la ruse, la fourberie de placer des fonds chez nous avec l’obligation de rembourser. On nous dit de rembourser la dette. Ce n’est pas une question morale. Ce n’est point une question de ce prétendu honneur que de rembourser ou de ne pas rembourser.
Monsieur le président, nous avons écouté et applaudi le premier ministre de Norvège lorsqu’elle est intervenue ici même. Elle a dit, elle qui est européenne, que toute la dette ne peut pas être remboursée. Je voudrais simplement la compléter et dire que la dette ne peut pas être remboursée. La dette ne peut pas être remboursée parce que d’abord si nous ne payons pas, nos bailleurs de fonds ne mourront pas. Soyons-en surs. Par contre si nous payons, c’est nous qui allons mourir. Soyons-en surs également. Ceux qui nous ont conduits à l’endettement ont joué comme au casino. Tant qu’ils gagnaient, il n’y avait point de débat. Maintenant qu’ils perdent au jeu, ils nous exigent le remboursement. Et on parle de crise. Non, Monsieur le président, ils ont joué, ils ont perdu, c’est la règle du jeu. Et la vie continue
[Applaudissements] Nous ne pouvons pas rembourser la dette parce que nous n’avons pas de quoi payer. Nous ne pouvons pas rembourser la dette parce que nous ne sommes pas responsables de la dette. Nous ne pouvons pas payer la dette parce qu’au contraire les autres nous doivent ce que les plus grandes richesses ne pourront jamais payer, c’est-à-dire la dette de sang. C’est notre sang qui a été versé.
On parle du Plan Marshall qui a refait l’Europe économique. Mais l’on ne parle pas du Plan africain qui a permis à l’Europe de faire face aux hordes hitlériennes lorsque leurs économies étaient menacés, leurs stabilités étaient menacées. Qui a sauvé l’Europe ? C’est l’Afrique. On en parle très peu. On parle si peu que nous ne pouvons, nous, être complices de ce silence ingrat. Si les autres ne peuvent pas chanter nos louanges, nous en avons au moins le devoir de dire que nos pères furent courageux et que nos anciens combattants ont sauvé l’Europe et finalement ont permis au monde de se débarrasser du nazisme.
La dette, c’est aussi la conséquence des affrontements. Lorsque on nous parle de crise économique, on oublie de nous dire que la crise n’est pas venue de façon subite. La crise existe de tout temps et elle ira en s’aggravant chaque fois que les masses populaires seront de plus en plus conscientes de leurs droits face aux exploiteurs.
Il y a crise aujourd’hui parce que les masses refusent que les richesses soient concentrées entre les mains de quelques individus. Il y a crise parce que quelques individus déposent dans des banques à l’étranger des sommes colossales qui suffiraient à développer l’Afrique. Il y a crise parce que face à ces richesses individuelles que l’on peut nommer, les masses populaires refusent de vivre dans les ghettos et les bas-quartiers. Il y a crise parce que les peuples partout refusent d’être dans Soweto face à Johannesburg. Il y a donc lutte et l’exacerbation de cette lutte amène les tenants du pouvoirs financier à s’inquiéter.
On nous demande aujourd’hui d’être complices de la recherche d’un équilibre. Equilibre en faveur des tenants du pouvoir financier. Equilibre au détriment de nos masses populaires. Non ! Nous ne pouvons pas être complices. Non ; nous ne pouvons pas accompagner ceux qui sucent le sang de nos peuples et qui vivent de la sueur de nos peuples. Nous ne pouvons pas les accompagner dans leurs démarches assassines.
Monsieur le président, nous entendons parler de clubs - club de Rome, club de Paris, club de Partout. Nous entendons parler du Groupe des Cinq, des Sept, du Groupe des Dix, peut être du Groupe des Cent. Que sais-je encore ? Il est normal que nous ayons aussi notre club et notre groupe. Faisons en sorte que dès aujourd’hui Addis-Abeba devienne également le siège, le centre d’ou partira le souffle nouveau du Club d’ Addis-Abeba contre la dette. Ce n’est que de cette façon que nous pourrons dire aujourd’hui, qu’en refusant de payer, nous ne venons pas dans une démarche belliqueuse mais au contraire dans une démarche fraternelle pour dire ce qui est.



Du reste les masses populaires en Europe ne sont pas opposées aux masses populaire en Afrique. Ceux qui veulent exploiter l’Afrique sont les mêmes qui exploitent l’Europe. Nous avons un ennemi commun. Donc notre club parti d’Addis-Abeba devra également dire aux uns et aux autres que la dette ne saura être payée. Quand nous disons que la dette ne saura payée ce n’est point que nous sommes contre la morale, la dignité, le respect de la parole. Nous estimons que nous n’avons pas la même morale que les autres. La Bible, le Coran, ne peuvent pas servir de la même manière celui qui exploite le peuple et celui qui est exploité. Il faudra qu’il y ait deux éditions de la Bible et deux éditions du Coran.
[applaudissements]
Nous ne pouvons pas accepter leur morale. Nous ne pouvons pas accepter que l’on nous parle de dignité. Nous ne pouvons pas accepter que l’on nous parle du mérite de ceux qui paient et de perte de confiance vis-à-vis de ceux qui ne paieraient pas. Nous devons au contraire dire que c’est normal aujourd’hui que l’on préfère reconnaître que les plus grands voleurs sont les plus riches. Un pauvre quand il vole ne commet qu’un larcin, une peccadille tout juste pour survivre et par nécessité. Les riches, ce sont eux qui volent le fisc, les douanes. Ce sont eux qui exploitent le peuple.
Monsieur la président, ma proposition ne vise pas simplement à provoquer ou à faire du spectacle. Je voudrais dire ce que chacun de nous pense et souhaite. Qui, ici, ne souhaite pas que la dette ne soit purement et simplement effacée ? Celui qui ne le souhaite pas peut sortir, prendre son avion et aller tout de suite à la Banque mondiale payer.
[applaudissements]
Je ne voudrais pas que l’on prenne la proposition du Burkina Faso comme celle qui viendrait de la part de jeunes sans maturité, sans expérience. Je ne voudrais pas non plus que l’on pense qu’il n’y a que les révolutionnaires à parler de cette façon. Je voudrais que l’on admette que c’est simplement l’objectivité et l’obligation.
Je peux citer dans les exemples de ceux qui ont dit de ne pas payer la dette, des révolutionnaires comme des non-révolutionnaires, des jeunes comme des vieux. Je citerai par exemple : Fidel Castro. Il a déjà dit de ne pas payer. Il n’a pas mon âge même s’il est révolutionnaire. Egalement François Mitterrand a dit que les pays africains ne peuvent pas payer, que les pays pauvres ne peuvent pas payer. Je citerai Madame le premier ministre de Norvège. Je ne connais pas son âge et je m’en voudrais de le lui demander. Rires et applaudissements. Je voudrais citer également le président Félix Houphouët Boigny. Il n’a pas mon âge. Cependant il a déclaré officiellement et publiquement qu’au moins pour ce qui concerne son pays, la dette ne pourra être payée. Or la Côte d’Ivoire est classée parmi les pays les plus aisés d’Afrique. Au moins d’Afrique francophone. C’est pourquoi, d’ailleurs, il est normal qu’elle paie plus sa contribution ici.
[applaudissements]
Monsieur le président, ce n’est donc pas de la provocation. Je voudrais que très sagement vous nous offriez des solutions. Je voudrais que notre conférence adopte la nécessité de dire clairement que nous ne pouvons pas payer le dette. Non pas dans un esprit belliqueux, belliciste. Ceci, pour éviter que nous allions individuellement nous faire assassiner. Si le Burkina Faso tout seul refuse de payer la dette, je ne serai pas là à la prochaine conférence! Par contre, avec le soutient de tous, donc j’ai grand besoin,
[applaudissements] avec le soutien de tous, nous pourrons éviter de payer. Et en évitant de payer nous pourrons consacrer nos maigres ressources à notre développement.
Et je voudrais terminer en disant que nous pouvons rassurer les pays auxquels nous disons que nous n’allons pas payer la dette, que ce qui sera économisé n’ira pas dans les dépenses de prestige. Nous n’en voulons plus. Ce qui sera économisé ira dans le développement. En particulier nous éviterons d’aller nous endetter pour nous armer car un pays africain qui achète des armes ne peut l’avoir fait que contre un Africain. Ce n’est pas contre un Européen, ce n’est pas contre un pays asiatique. Par conséquent nous devons également dans la lancée de la résolution de la question de la dette trouver une solution au problème de l’armement.
Je suis militaire et je porte une arme. Mais Monsieur le président, je voudrais que nous nous désarmions. Parce que moi je porte l’unique arme que je possède. D’autres ont camouflé les armes qu’ils ont
.[rires et applaudissements]
Alors, chers frères, avec le soutien de tous, nous pourrons faire la paix chez nous.
Nous pourrons également utiliser ses immenses potentialité pour développer l’Afrique parce que notre sol et notre sous-sol sont riches. Nous avons suffisamment de quoi faire et nous avons un marché immense, très vaste du Nord au Sud, de l’Est à l’Ouest. Nous avons suffisamment de capacité intellectuelle pour créer ou tout au moins prendre la technologie et la science partout où nous pouvons les trouver.
Monsieur le président, faisons en sorte que nous mettions au point ce Front uni d’Addis-Abeba contre la dette. Faisons en sorte que ce soit à partir d’Addis-Abeba que nous décidions de limiter la course aux armements entre pays faibles et pauvres. Les gourdins et les coutelas que nous achetons sont inutiles. Faisons en sorte également que le marché africain soit le marché des Africains. Produire en Afrique, transformer en Afrique et consommer en Afrique. Produisons ce dont nous avons besoin et consommons ce que nous produisons au lieu de l’importer.
Le Burkina Faso est venu vous exposer ici la cotonnade, produite au Burkina Faso, tissée au Burkina Faso, cousue au Burkina Faso pour habiller les Burkinabé. Ma délégation et moi-même, nous sommes habillés par nos tisserands, nos paysans. Il n’y a pas un seul fil qui vienne d’Europe ou d’Amérique
.[applaudissements] Je ne fais pas un défilé de mode mais je voudrais simplement dire que nous devons accepter de vivre africain. C’est la seule façon de vivre libre et de vivre digne.
Je vous remercie, Monsieur le président.
La patrie ou la mort, nous vaincrons !
[longs applaudissements]

Discours prononcé à l'occasion de la vingt-cinquième conférence au sommet des pays membres de l'OUA à Addis-Abeba le 29 juillet 1987

Capitaine Thomas Isidore Noël Sankara





Signor presidente, signori capi delle delegazioni, vorrei che in questo istante potessimo parlare di quest'altra questione che ci preme: la questione del debito, la questione realtiva alla situazione economica dell'Africa. Poiché questa, tanto quanto la pace, è una condizione importante della nostra sopravvivenza. Ecco perché ho creduto di dovervi imporre alcuni minuti supplementari affinché ne parliamo.
Il Burkina Faso vorrebbe esprimere innanzitutto il suo timore. Il timore che abbiamo è che le riunioni dell'OUA (Organizzazione dell'Unità Africana) si susseguano, si somiglino, ma che alla fine ci sia sempre meno interesse a ciò che facciamo.
Signor presidente, quanti sono i capi di stato qui presenti che sono stati giustamente chiamati a venire a parlare dell'Africa in Africa? Signor Presidente, quanti capi di stato sono pronti a volare a Parigi, a Londra, a Washington quando laggiù li si chiama in riunione ma non possono venire qui ad Addis-Abeba in Africa? Questo è molto importante. [applausi]
So che alcuni hanno delle valide ragioni per non venire. Perciò vorrei proporre, signor presidente, che stabilissimo delle misure di sanzione per i capi di stato che non rispondono all’appello. Facciamo in modo che attraverso un sistema di punti di buona condotta, quelli che vengono regolarmente, come noi per esempio [risa], possano essere sostenuti in alcuni dei loro sforzi. Per esempio: ai progetti che presentiamo alla Banque Africaine de Développement (BAD, Banca Africana di Sviluppo) deve essere attribuito un coefficiente di africanità.[applausi] I meno africani saranno penalizzati. Così tutti verranno qui alle riunioni.
Vorrei dirvi, signor presidente, che il problema del debito è una questione che non possiamo eludere. Voi stesso ne sapete qualche cosa nel vostro paese dove avete dovuto prendere delle decisioni coraggiose, perfino temerarie. Delle decisioni che non sembrano essere tutte in rapporto con la vostra età e i vostri capelli bianchi. [risa] Sua Eccellenza il presidente Habib Bourguiba che non è potuto venire ma che ci ha fatto pervenire un importante messaggio, ha dato un altro esempio all'Africa, quando in Tunisia, per le ragioni economiche, sociali e politiche, ha anch'egli dovuto prendere delle decisioni coraggiose.
Ma, signor presidente, vogliamo continuare a lasciare i capi di stato cercare individualmente delle soluzioni al problema del debito col rischio di creare nei loro paesi dei conflitti sociali che potrebbero mettere in pericolo la loro stabilità ed anche la costruzione dell'unità africana? Questi esempi che ho citato, e ce ne sono altri, meritano che i vertici dell'OUA portino una risposta rassicurante a ciascuno di noi in quanto alla questione del debito.
Noi pensiamo che il debito si analizza prima di tutto dalla sua origine. Le origini del debito risalgono alle origini del colonialismo. Quelli che ci hanno prestato denaro, sono gli stessi che ci avevano colonizzato. Sono gli stessi che gestivano i nostri stati e le nostre economie. Sono i colonizzatori che indebitavano l’Africa con i finanziatori internazionali che erano i loro fratelli e cugini. Noi non c’entravamo niente con questo debito. Quindi non possiamo pagarlo.
Il debito è ancora il neocolonialismo, con i colonizzatori trasformati in assistenti tecnici anzi dovremmo invece dire "assassini tecnici". Sono loro che ci hanno proposto dei canali di finanziamento, dei "finanziatori". Un termine che si impiega ogni giorno come se ci fossero degli uomini che solo "sbadigliando" possono creare lo sviluppo degli altri [gioco di parole in francese sbadigliatore/finanziatore, bâillement/bailleurs de fonds ]. Questi finanziatori ci sono stati consigliati, raccomandati.
Ci hanno presentato dei dossier e dei movimenti finanziari allettanti. Noi ci siamo indebitati per cinquant'anni, sessant'anni anni e più. Cioè siamo stati portati a compromettere i nostri popoli per cinquant'anni e più.
Il debito nella sua forma attuale, controllata e dominata dall’imperialismo, è una riconquista dell’Africa sapientemente organizzata, in modo che la sua crescita e il suo sviluppo obbediscano a delle norme che ci sono completamente estranee. In modo che ognuno di noi diventi schiavo finanziario, cioè schiavo tout court, di quelli che hanno avuto l’opportunità, l’intelligenza, la furbizia, di investire da noi con l’obbligo di rimborso. Ci dicono di rimborsare il debito. Non è un problema morale. Rimborsare o non rimborsare non è un problema di onore.
Signor presidente, abbiamo prima ascoltato e applaudito il primo ministro della Norvegia intervenuta qui. Ha detto, lei che è un'europea, che il debito non può essere rimborsato tutto. Il debito non può essere rimborsato prima di tutto perché se noi non paghiamo, i nostri finanziatori non moriranno, siamone sicuri. Invece se paghiamo, saremo noi a morire, ne siamo ugualmente sicuri. Quelli che ci hanno condotti all’indebitamento hanno giocato come al casinò. Finché guadagnavano non c’era nessun problema; ora che perdono al gioco esigono il rimborso. E si parla di crisi. No, Signor presidente. Hanno giocato, hanno perduto, è la regola del gioco. E la vita continua. [applausi]
Non possiamo rimborsare il debito perché non abbiamo di che pagare. Non possiamo rimborsare il debito perché non siamo responsabili del debito. Non possiamo pagare il debito perché, al contrario, gli altri ci devono ciò che le più grandi ricchezze non potranno mai ripagare: il debito del sangue. E’ il nostro sangue che è stato versato. Si parla del Piano Marshall che ha rifatto l’Europa economica. Ma non si parla mai del Piano africano che ha permesso all’Europa di far fronte alle orde hitleriane quando la sua economia e la sua stabilità erano minacciate. Chi ha salvato l’Europa? E’ stata l’Africa. Se ne parla molto poco. Così poco che noi non possiamo essere complici di questo silenzio ingrato. Se gli altri non possono cantare le nostre lodi, noi abbiamo almeno il dovere di dire che i nostri padri furono coraggiosi e che i nostri combattenti hanno salvato l’Europa e alla fine hanno permesso al mondo di sbarazzarsi del nazismo.
Il debito è anche conseguenza degli scontri. Quando ci parlano di crisi economica, dimenticano di dirci che la crisi non è venuta all’improvviso. La crisi è sempre esistita e si aggraverà ogni volta che le masse popolari diventeranno più coscienti dei loro diritti di fronte allo sfruttatore. Oggi c’è crisi perché le masse rifiutano che le ricchezze siano concentrate nelle mani di pochi individi. C’è crisi perché pochi individui depositano nelle banche estere delle somme colossali che basterebbero a sviluppare l’Africa intera. C’è crisi perché di fronte a queste ricchezze individuali che hanno nomi e cognomi, le masse popolari si rifiutano di vivere nei ghetti e nei bassi fondi. C’è crisi perché i popoli rifiutano dappertutto di essere dentro una Soweto di fronte a Johannesburg. C’è quindi lotta, e l’esacerbazione di questa lotta preoccupa chi ha il potere finanziario.
Ci si chiede oggi di essere complici della ricerca di un equilibrio. Equilibrio a favore di chi ha il potere finanziario. Equilibrio a scapito delle nostre masse popolari.
No! Non possiamo essere complici. No! Non possiamo accompagnare quelli che succhiano il sangue dei nostri popoli e vivono del sudore dei nostri popoli nelle loro azioni assassine.
Signor presidente, sentiamo parlare di club – club di Roma, club di Parigi, club di dappertutto. Sentiamo parlare del Gruppo dei cinque, dei sette, del Gruppo dei dieci, forse del Gruppo dei cento o che so io. E’ normale allora che anche noi creiamo il nostro club e il nostro gruppo. Facciamo in modo che a partire da oggi anche Addis Abeba diventi la sede, il centro da cui partirà il vento nuovo del Club di Addis Abeba. Abbiamo il dovere di creare oggi il fronte unito di Addis Abeba contro il debito. E’ solo così che potremo dire oggi che rifiutando di pagare non abbiamo intenzioni bellicose ma al contrario intenzioni fraterne.
Del resto le masse popolari in Europa non sono contro le masse popolari in Africa. Ma quelli che vogliono sfruttare l’Africa sono gli stessi che sfruttano l’Europa. Abbiamo un nemico comune. Quindi il club di Addis Abeba dovrà dire agli uni e agli altri che il debito non sarà pagato. Quando diciamo che il debito non sarà pagato non vuol dire che siamo contro la morale, la dignità, il rispetto della parola. Noi pensiamo di non avere la stessa morale degli altri. Tra il ricco e il povero non c’è la stessa morale. La Bibbia, il Corano, non possono servire nello stesso modo chi sfrutta il popolo e chi è sfruttato. C’è bisogno che ci siano due edizioni della Bibbia e due edizioni del Corano. [applausi]
Non possiamo accettare che ci parlino di dignità. Non possiamo accettare che ci parlino di merito per quelli che pagano e perdita di fiducia per quelli che non dovessero pagare. Noi dobbiamo dire al contrario che oggi è normale si preferisca riconoscere come i più grandi ladri siano i più ricchi. Un povero, quando ruba, non commette che un peccatucolo per sopravvivere e per necessità. I ricchi, sono quelli che rubano al fisco, alle dogane. Sono quelli che sfruttano il popolo.
Signor presidente, non è quindi provocazione o spettacolo. Dico solo ciò che ognuno di noi pensa e vorrebbe. Chi non vorrebbe qui che il debito fosse semplicemente cancellato? Quelli che non lo vogliono possono subito uscire, prendere il loro aereo e andare dritti alla Banca Mondiale a pagare! [applausi]
Non vorrei poi che si prendesse la proposta del Burkina Faso come fatta da "giovani", senza maturità e esperienza. Non vorrei neanche che si pensasse che solo i rivoluzionari parlano in questo modo. Vorrei semplicemente che si ammettesse che è una cosa oggettiva, un fatto dovuto.
E posso citare tra quelli che dicono di non pagare il debito dei rivoluzionari e non, dei giovani e degli anziani. Per esempio Fidel Castro ha già detto di non pagare.
Non ha la mia età, anche se è un rivoluzionario. Ma posso citare anche François Mitterrand che ha detto che i Paesi africani non possono pagare, i paesi poveri non possono pagare. Posso citare la signora Primo Ministro di Norvegia. Non conosco la sua età e mi dispiacerebbe chiederglielo È solo un esempio. Vorrei anche citare il presidente Félix Houphouët Boigny. Non ha la mia età, eppure ha dichiarato pubblicamente che quanto al suo Paese, la Costa d’Avorio, non può pagare.
Ma la Costa d’Avorio è tra i paesi che stanno meglio in Africa, almeno nell’Africa francofona. Ed è per questo d’altronde normale che paghi un contributo maggiore qui... [applausi]
Signor Presidente, la mia non è quindi una provocazione. Vorrei che molto saggiamente lei ci offrisse delle soluzioni. Vorrei che la nostra conferenza adottasse la risoluzione di dire chiaramente che noi non possiamo pagare il debito. Non in uno spirito bellicoso, bellico. Questo per evitare di farci assassinare individualmente.
Se il Burkina Faso da solo rifiuta di pagare il debito, non sarò qui alla prossima conferenza! Invece, col sostegno di tutti, [applausi] di cui ho molto bisogno, col sostegno di tutti potremo evitare di pagare. Ed evitando di pagare potremo consacrare le nostre magre risorse al nostro sviluppo.
E vorrei terminare dicendo che ogni volta che un paese africano compra un’arma è contro un africano. Non contro un europeo, non contro un asiatico. E’ contro un africano. Perciò dobbiamo, anche sulla scia della risoluzione sul problema del debito, trovare una soluzione al problema delle armi.
Sono militare e porto un’arma. Ma signor presidente, vorrei che ci disarmassimo. Perché io porto l’unica arma che possiedo. Altri hanno nascosto le armi che pure portano. [risa e applausi]
Allora, cari fratelli, col sostegno di tutti, potremo fare la pace a casa nostra.
Potremo anche usare le sue immense potenzialità per sviluppare l’Africa, perché il nostro suolo e il nostro sottosuolo sono ricchi. Abbiamo abbastanza braccia e un mercato immenso, da Nord a Sud, da Est a Ovest. Abbiamo abbastanza capacità intellettuali per creare, o almeno prendere la tecnologia e la scienza in ogni luogo dove si trovano.
Signor presidente, facciamo in modo di realizzare questo fronte unito di Addis Abeba contro il debito. Facciamo in modo che a partire da Addis Abeba decidiamo di limitare la corsa agli armamenti tra paesi deboli e poveri. I manganelli e i macete che compriamo sono inutili. Facciamo in modo che il mercato africano sia il mercato degli africani. Produrre in Africa, trasformare in Africa, consumare in Africa. Produciamo quello di cui abbiamo bisogno e consumiamo quello che produciamo, invece di importarlo.
Il Burkina Faso è venuto a mostrare qui la cotonnade, prodotta in Burkina Faso, tessuta in Burkina Faso, cucita in Burkina Faso per vestire i burkinabé. La mia delegazione ed io stesso siamo vestiti dai nostri tessitori, dai nostri contadini. Non c’è un solo filo che venga d’Europa o d’America. Non faccio una sfilata di moda ma vorrei semplicemente dire che dobbiamo accettare di vivere africano. E’ il solo modo di vivere liberi e degni.
La ringrazio Signor presidente.
Patria o morte, vinceremo! [lungo applauso]

Discorso pronunciato in occasione della venticinquesima conferenza dei paesi membri dell'OUA ad Addis-Abeba il 29 luglio 1987.

Capitano Thomas Isidore Noël Sankara



A la luz del amanecer...



Te busco en la noche
te encuentro entre sueños
te advierto que traigo
desnudos
el alma y el cuerpo.

Anclada en tus manos
me gasto en tus besos
no hay nada ni el aire
más puro
se cuela tan dentro.

Y vamos volando
sin alas
y vamos restando
silencios
si no me despiertas
te debo este sueño.

A la luz del amanecer
me voy despertando
y sigo soñando
de tanto querer.

A la luz del amanecer
me quedo este sueño
y sigo soñando
que vas a volver.

Le vamos robando
trocitos al tiempo
y así comprendemos
lo mucho
que vale un momento.

Sentada en el aire
colgados del viento
miramos el mundo
que es distinto
si tú no estás dentro.

Y vamos volando
sin alas
y vamos restando
silencios
si no me despiertas
te debo este sueño.

A la luz del amanecer
me voy despertando
y sigo soñando
de tanto querer.

A la luz del amanecer
me quedo este sueño
y sigo soñando
que vas a volver.

A la luz del amanecer
me voy despertando
y sigo soñando
de tanto querer.

A la luz del amanecer
me quedo este sueño
y sigo soñando
que vas a volver.

Te busco en la noche...


Te espero


A ti sólo se llega
por ti. Te espero.

Yo sí que sé dónde estoy,
mi ciudad, la calle, el nombre
por el que todos me llaman.
Pero no sé dónde estuve contigo.
Allí me llevaste tú.

¿Como iba a aprender el camino
si yo no miraba a nada más que a ti,
si el camino era tu andar,
y el final fue cuando tú te paraste?
¿Que más podía haber ya
que tú ofrecida, mirándome?

Pero ahorae, ¡qué desterrado,
qué ausente
es estar donde uno está!
Espero, pasan los trenes,
los azares, las miradas.
Me llevarían adonde nunca he estado.
Pero yo no quiero los cielos nuevos.
Yo quiero estar donde estuve.
Contigo, volver.
¡Qué novedad tan immensa
eso, volver otra vez,
repetir lo nunca igual
de aquel asombro infinito!

Y mientras no vengas tú
yo me quedaré en la orilla
de los vuelos, de los sueños,
de las estelas, inmovíl.
Porque sé que adonde estuve
ni alas, ni ruedas, ni velas llevan.
Todas van extraviadas.
Porque sé que adonde estuve
sólo se va contigo, por ti.


Pedro Salinas






















A te si arriva solo
attraverso te. Ti aspetto.

Io sì che so dove mi trovo,
la mia città, la via, il nome
con cui tutti mi chiamano.
Però non so dove sono stato con te.
Là mi hai portato tu.

Come avrei imparato la strada
se non guardavo nient'altro che te,
se la strada era dove tu andavi,
e la fine fu quando ti sei fermata?
Che altro poteva esserci
più di te che ti offrivi, guardandomi?

Però adesso che esilio,
che mancanza,
e lo stare dove si sta.
Aspetto, passano i treni,
i destini, gli sguardi.
Mi porterebbero dove non sono stato mai.
Ma io non cerco nuovi cieli.
Io voglio stare dove sono stato.
Con te, ritornarci.
Che intensa novità,
ritornare un'altra volta,
ripetere mai uguale
quello stupore infinito.

E fino a quando non verrai tu
io resterò sulla sponda
dei voli, dei sogni,
delle stelle, immobile.
Perché so che dove sono stato
non portano né ali, né ruote, né vele.
Esse vagano smarrite.
Perché so che dove sono stato con te
si va solo con te, attraverso te.

Pedro Salinas

El soldado rebelde

If tyranny and oppression come to this land, it will be in the guise of fighting a foreign enemy... The loss of liberty at home is to be charged to the provisions against danger, real or imagined, from abroad.
________

Si la tirania y la opresion llegase a esta tierra, sera bajo el disfraz de lucha contra un enemigo extranjero... La pérdida de la libertad doméstica será cargada de provisiones contra el peligro extranjero, real o imaginario.
_______

Se la tirannia e l'oppressione si abbatteranno su questa terra, sarà con il pretesto della lotta contro un nemico straniero... La perdita della sovranità nazionale e quella delle libertà individuali saranno a causa delle disposizioni interne, contro il pericolo esterno, reale o immaginario.
James Madison




I tried hard to be proud of my service but all I could feel was shame and racism could no longer mask the occupation. These were people. There were human beings. I've since been plagued by guilt anytime I see an elderly man, like the one who couldn't walk and we rolled onto a stretcher, told the Iraqi police to take him away. I feel guilt anytime I see a mother with her children like the one who cried hysterically and screamed that we were worse than Saddam as we forced her from her home.
I feel guilt anytime I see a young girl like the one I grabbed by the arm and dragged into the street. We were told we were fighting terrorists, but the real terrorist was me and the real terrorism is this occupation. Racism within the military has long been an important tool to justify the destruction and occupation of another country.
It has long been used to justify the killing, subjugation, and torture of another people. Racism is a vital weapon deployed by this government. It is a more important weapon than a rifle, a tank, a bomber or a battleship. It is more destructive than an artillery shell, or a bunker buster, or a tomahawk missile.
While all of those weapons are created and owned by this government, they are harmless without people willing to use them. Those who send us to war do not have to pull a trigger or lob a mortar round. They do not have to fight the war. They merely have to sell the war. They need a public who is willing to send their soldiers into harm's way and they need soldiers who are willing to kill or be killed without question.
They can spend millions on a single bomb, but that bomb only becomes a weapon when the ranks in the military are willing to follow orders to use it. They can send every last soldier anywhere on earth, but there will only be a war if soldiers are willing to fight, and the ruling class: the billionaires who profit from human suffering care only about expanding their wealth, controlling the world economy, understand that their power lies only in their ability to convince us that war, oppression, and exploitation is in our interests. They understand that their wealth is dependent on their ability to convince the working class to die to control the market of another country. And convincing us to kill and die is based on their ability to make us think that we are somehow superior.
Soldiers, sailors, marines, airmen, have nothing to gain from this occupation. The vast majority of people living in the US have nothing to gain from this occupation. In fact, not only do we have nothing to gain, but we suffer more because of it. We lose limbs, endure trauma, and give our lives. Our families have to watch flag draped coffins lowered into the earth. Millions in this country without healthcare, jobs, or access to education must watch this government squander over $450 million a day on this occupation.
Poor and working people in this country are sent to kill poor and working people in another country to make the rich richer, and without racism soldiers would realize that they have more in common with the Iraqi people than they do with the billionaires who send us to war. I threw families onto the street in Iraq only to come home and find families thrown onto the street in this country in this tragic, tragic and unneccesary forclosure crisis; only to wake up and realize that our real enemies are not in some distant land. But not people whose names we don't know, and cultures we don't understand. The enemy is people we know very well and people we can identify. The enemy is a system that wages war when it's profitable. The enemy is the CEOs who lay us off our jobs when it's profitable; it's the insurance companies who deny us health care when it's profitable; it's the banks who take away our homes when it's profitable. Our enemies are not 5000 miles away, they are right here at home.
If we organize and fight with our sisters and brothers, we can stop this war, we can stop this government, and we can create a better world.


Mike Prysner
________

Ho cercato di essere orgoglioso della mia missione ma ciò che riesco a provare è solo vergogna. Il razzismo oramai non poteva piu mascherare la realtà della nostra occupazione ancora a lungo, erano persone, esseri umani... Da allora ho rimorsi, a volte vedo un uomo anziano come quello che non poteva camminare, lo facemmo rotolare per farlo salire su una barella della polizia irakena che lo portò via. Provo senso di colpa ogni volta che vedo una madre con i suoi figli, come quella che piangeva istericamente gridando che eravamo peggio di Saddam mentre la obbligavamo ad uscire da casa sua.
Provo senso di colpa ogni volta che vedo una ragazzina, come quella che ho preso per un braccio e arrestato per strada. Ci è stato detto che lottavamo contro i terroristi, il vero terrorista ero io. Ed il vero terrorismo era questa occupazione, il razzismo dentro l’esercito è stato a lungo una scusa per giustificare la distruzione ed occupazione di altri Paesi.
Per molto tempo è stato usato per giustificare gli omicidi, la nostra colpa e le torture su altre persone. Il razzismo è un’arma vitale utilizzata da questo governo. È un’arma più potente di un fucile, di un carro armato, di un bombardiere o di una nave corazzata. È più distruttivo di un proiettile di artiglieria o di uno spezza-bunker o di un missile tomahawk.
Mentre queste armi sono create e di proprietà del governo, restano inoffensive se ci sono persone che si rifiutano di usarle, quelli che ci mandano in guerra non devono premere il grilletto o usare i mortai, non devono lottare in guerra, solo devono venderla, la guerra! Hanno bisogno di un pubblico disposto ad inviare e a mettere in pericolo i propri soldati, hanno bisogno di soldati disposti ad uccidere ed essere uccisi senza obiettare.
Possono spendere milioni per una bomba, ma quella bomba diventa un’arma solo se i ranghi militari sono disposti a eseguire ordini per usarla. Possono inviare l’ultimo soldato in qualsiasi parte del mondo, ma ci sarà guerra solo se i soldati saranno disposti a lottare. E' la classe dominante, sono i miliardari che ottengono benefici dalla sofferenza umana. Si preoccupano solo di espandere la loro ricchezza, di controllare l’economia mondiale. Capite che il loro potere risiede solo nell’abilità del riuscire a convincerci che la guerra, l’oppressione e l'esplosione è nel nostro interesse. Loro capiscono che la loro ricchezza dipende dalla loro abilità di convincere la classe operaia a morire per controllare il mercato di altri paesi, e il convincerci ad uccidere o morire si basa nella loro abilità di farci pensare che in qualche modo siamo superiori.
Soldati, marines, uomini della marina, piloti non ci guadagnano niente con questa occupazione. La maggior parte delle persone che vive negli USA non guadagna niente da questa occupazione. E' un dato di fatto che, non solo non ci guadagniamo niente, ma soffriamo ancora di più a causa della guerra. Perdiamo compagni e diamo la nostra vita in maniera traumatica. Le nostre famiglie devono contemplare le casse coperte con la bandiera scendere dall’aereo. Milioni di persone in questo paese sono senza lavoro, assistenza medica, educazione. Dobbiamo guardare come questo governo butta 450 milioni di dollari al giorno per questa operazione.
Cittadini, lavoratori e poveri di questo Paese inviati ad uccidere cittadini poveri e lavoratori di altri Paesi per rendere i ricchi ancora più ricchi! Senza il razzismo, i soldati si renderebbero conto che hanno più in comune con il popolo irakeno che con i miliardari che ci mandano in guerra. Ho buttato per strada famiglie intere in Iraq, solo per tornare a casa e trovarmi con famiglie buttate per strada in questo Paese, con questa tragica ed inutile crisi ipotecaria. Dobbiamo svegliarci e renderci conto che i nostri veri nemici non si trovano in un Paese lontano. E non sono persone i cui nomi ci sono ignoti, né culture che non comprendiamo. I veri nemici sono persone che conosciamo molto bene, che possiamo identificare. Il nemico è un sistema che dichiara guerra quando essa è redditizia. I nemici sono i managers che ci licenziano dal lavoro quando è redditizio. Sono le compagnie assicurative che ci negano assistenza medica quando non è redditizia. Sono le banche che ci espropriano delle nostre case quando è redditizio. Il nostro nemico non è a 5.000 miglia di distanza, è qui in casa!
Se ci organizziamo e lottiamo insieme con i nostri mezzi, fratelli e sorelle, possiamo fermare questa guerra, possiamo fermare questo governo. E possiamo creare un mondo migliore.

Mike Prysner


I’ve toppled statues and vandalized portraits, while wearing an American flag on my sleeve, and struggling to learn how to understand… I joined the army as soon as I was eligible – turned down a writing scholarship to a state university, eager to serve my country, ready to die for the ideals I fell in love with. Two years later I found myself moments away from a landing onto a pitch black airstrip, ready to charge into a country I didn't believe I belonged in, with your words (from the Oscars) repeating in my head. My time in Iraq has always involved finding things to convince myself that I can be proud of my actions; that I was a part of something just. But no matter what pro-war argument I came up with, I pictured my smirking commander-in-chief, thinking he was fooling a nation.

Mike Prysner, mail to Michael Moore from Irak
__________

He derribado estatuas y destrozado retratos mientras usaba una bandera norteamericana en mi manga, y luchaba por aprender a entenderlo. Me uní al ejército en cuanto tuve el mínimo de edad -rechacé una beca de escritura en una universidad estatal para servir a mi país, listo a morir por los ideales que aprendí a amar. Dos años después me encontré a punto de desembarcar en una pista aérea negra como la noche, listo a atacar a un país en el cual yo no creía que debía estar Durante todo el tiempo que he estado en Irak he estado buscando ideas para convencerme de que puedo sentirme orgulloso de mis actos, que yo era parte de algo justo. Pero no importa qué argumento encontraba a favor de la guerra me venía a la cabeza la imagen de mi comandante en jefe que sonríe con presunción mientras piensa que ha engañado a un país.

Mike Prysner, de una carta que escribió desde Irak a Michael Moore
_________

Ho abbattuto statue e distrutto ritratti, mentre portavo una bandiera a stelle e strisce sulla manica dell'uniforme, e lottavo per sforzarmi di comprendere. Mi arruolai nell'esercito non appena raggiunta l'età minima - rifiutai una borsa di studio di scrittura presso un'Università statale per servire il mio Paese, pronto a morire per gli ideali che avevo imparato ad amare. Due anni dopo mi ritrovai ad atterrare su una pista aerea nera come la notte, pronto ad attaccare un paese nel quale io non credevo di dover stare. Per tutto il tempo che sono stato in Iraq ho cercato idee per convincermi che posso sentirmi orgoglioso delle mie azioni, che io ero giusta parte di qualcosa. Ma non importa che argomento trovassi a favore della guerra, mi veniva sempre in mente l'immagine del mio comandante in capo che sorride con presunzione mentre pensa di aver ingannato un paese.

Mike Prysner, da una lettera scritta dall'Irak a Michael Moore



Pero solo pude sentir vergüenza. El racismo ya no podía enmascarar la realidad de la ocupación por más tiempo, eran personas, eran seres humanos, desde entonces me plafa la culpa, puede que vea a un hombre mayor, como el que no podía caminar y lo rodamos sobre una camilla para que la policía Iraquí se lo llevara, siento culpabilidad cada vez que veo una madre con sus hijos como la que sollozaba histericamente gritandonos que èramos peores que Saddam, mientras la obligábamos a salir de su casa.
Siento culpabilidad cada vez que veo a una niña joven como la que agarré por el brazo y arrastré hacia la calle. Se nos dijo que luchábamos contra los terroristas, el verdadero terrorista era yo, el verdadero terrorismo era esta ocupación, el racismo dentro de lo militar ha sido durante largo tiempo una herramienta para justificar la destrucción y ocupación de otro país.
Durante mucho tiempo se ha usado para justificar las matanzas, la subyugación y torturas de otras gentes, el racismo es un arma vital empleada por este gobierno, es un arma mas importante que un rifle, un tanque, un bombardero, o que un barco acorazado, es mas destructiva que el proyectil de artillería o un rompe bunker o un misil tomahawk.
Mientras que esas armas son creadas y de la propiedad de este gobierno son inofensivas, mientras haya personas que se nieguen a usarlas. Aquellos que nos envían a la guerra, no tienen que apretar el gatillo o tirar una ronda de moteros. No tienen que luchar en la guerra, solo tienen que vender la guerra. Necesitan a un público dispuesto a enviar y a poner a sus soldados en peligro. Necesitan a soldados dispuestos a matar y a ser matados sin cuestionarlo.
Pueden despilfarrar millones en una sola bomba, pero esa bomba solo se convierte en arma cuando los rangos militares están dispuestos a seguir ordenes para usarla. Pueden enviar al ultimo soldado a cualquier parte del mundo, pero solo habrá guerra si los soldados están dispuestos a luchar. Y la clase dominante, los billionarios que optienen beneficio del sufrimiento humano solo se preocupan en expandir su riqueza, en controlar la economía mundial, comprendan que su poder solo yace en su habilidad para convencernos de que la guerra, la opresión y la explotación, es por nuestro interés, ellos entienden que su riqueza depende de su habilidad en convencer a la clase obrera a que mueran para controlar el mercado de otro país y de convencernos a que matemos o muramos se basa en su habilidad de hacernos pensar de que de alguna forma, somos superiores.
Soldados, marineros, marines, aviadores, no tienen nada que ganar con esta ocupación, la mayoria de gente viviendo en E.E.U.U no tienen nada que ganar con esta ocupación de hecho no tenemos nada que ganar que incluso sufrimos mas, debido a ella perdemos miembros y damos nuestras vidas de forma traumática. Nuestras familias deben contemplar nuestros féretros abanderados siendo bajados a la tierra, millones de personas en este país, sin asistencia médica, sin trabajo, sin acceso a la educación, debemos mirar como este gobierno derrocha 450 millones de dólares diarios en esta ocupación.
Gente trabajadora y pobre de este país, es enviada a matar gente trabajadora y pobre de otro país para convertir a los ricos mas ricos aún, sin el racismo los soldados se darían cuenta de que tienen mas que ver con el pueblo Iraquí de lo que lo tienen con los billionarios que nos envian a la guerra. Tiré a familias enteras a la calle en Irak solo para volver a casa y encontrarme con famílias siendo tiradas a la calle en este país, con esta trágica e innecesaria crisis hipotecaria, debemos despertarnos y darnos cuenta de que nuestros verdaderos enemigos no se encuentran en un país lejano y no son personas cuyos nombres desconocemos ni culturas que no comprendemos, el enemigo son personas que conocemos muy bien, personas que podemos identificar, el enemigo es un sistema que declara la guerra cuando es rentable, el enemigo son los jefes Ejecutivos que nos despiden de nuestros puestos de trabajo cuando es rentable son las compañias Aseguradoras que nos niegan la asistencia medica cuando es rentable, son los bancos que nos expropian nuestros hogares cuando es rentable, nuestro enemigo está aquí en casa, no a 5000 millas de distancia.
Si nos organizamos y luchamos juntos con nuestros hermanos y hermanas podemos detener esta guerra podemos detener a este gobierno y podemos crear un mundo mejor.

Mike Prysner




To Hell With War! >>>


¡Oximoron!



El huevo del serpiente

En la incubadora del neoliberismo se esconden las raíces de un nuevo fascismo. Y de la moderna injusticia social: pego a personas tienen más riquezas producidas de más personas con menos riquezas. Es el oxímoron de la globalización.

Nuestro siguiente programa:

¡Oximoron!
(La Derecha intelectual y el Fascismo liberal)

En la figura que se llama oximoron,
se aplica una palabra un epíteto que parece contradecirla;
así los gnósticos hablaron de una luz oscura;
los alquimistas, de un sol negro.

Jorge Luis Borges


Advertencia, introducción y promesa

Ojo: Si usted no ha leído el epígrafe, más vale que lo haga ahora porque si no, no va a entender algunas cosas.
Un hecho irrefutable: la globalización está aquí. No la califico (todavía), simplemente señalo una realidad. Pero, puesto que oximoron, hay que señalar que se trata de una globalización fragmentada.
La globalización ha sido posible, entre otras cosas, por dos revoluciones: la tecnológica y la informática. Y ha sido y es dirigida por el poder financiero. De la mano, la tecnología y la informática (y con ellas el capital financiero) han desaparecido las distancias y han roto las fronteras. Hoy es posible tener información sobre cualquier parte del mundo, en cualquier momento y en forma simultánea. Pero también el dinero tiene ahora el don de la ubicuidad, va y viene en forma vertiginosa, como si estuviera en todas partes al mismo tiempo. Y más, el dinero le da una nueva forma al mundo, la forma de un mercado, de un mega-mercado.
Sin embargo, a pesar de la "mundialización" del planeta, o más bien precisamente por ella, la homogeneidad está muy lejos de ser la característica de este cambio de siglo y de milenio. El mundo es un archipiélago, un rompecabezas cuyas piezas se convierten en otros rompecabezas y lo único realmente globalizado es la proliferación de lo heterogéneo.
Si la tecnología y la informática han unido al mundo, el poder financiero que las usa lo ha roto usándolas como armas, como armas en una guerra. Antes hemos dicho (el texto se llama "7 Piezas sueltas del rompecabezas mundial", EZLN, 1997) que en la globalización se lleva a cabo una guerra mundial, la cuarta, y que se desarrolla un proceso de destrucción/despoblamiento y reconstrucción/reordenamiento (estoy tratando de resumir apretadamente, sed benévolos) en todo el planeta. Para la construcción del "nuevo orden mundial" (Planetario, Permanente, Inmediato e Inmaterial, siguiendo a Ignacio Ramonet), el poder financiero conquista territorios y derriba fronteras, y lo consigue haciendo la guerra, una nueva guerra. Una de las bajas de esta guerra es el mercado nacional, base fundamental del Estado-Nación. Éste último está en vías de extinción, o cuando menos, lo está el Estado-Nación tradicional o clásico. En su lugar, surgen mercados integrados o, mejor aún, tiendas departamentales del gran "mall" mundial, el mercado globalizado.
Las consecuencias políticas y sociales de esta globalización son una figura de oximoron reiterada y compleja: menos personas con más riquezas, producidas con la explotación de más personas con menos riquezas, "la pobreza de nuestro siglo es incomparable con ninguna otra. No es, como lo fuera alguna vez, el resultado natural de la escasez, sino de un conjunto de prioridades impuestas por los ricos al resto del mundo" (John Berger. Cada vez que decimos adiós. Ediciones de la flor. Argentina, 1997, pp. 278-279.); para unos cuantos poderosos el planeta se abrió de par en par, para millones de personas el mundo no tiene lugar y vagan errantes de uno a otro lado; el crimen organizado forma la columna vertebral de los sistemas judiciales y de los gobiernos (los ilegales hacen las leyes y "guardan el orden público"); y la "integración" mundial multiplica las fronteras.
Así que, si resaltáramos algunas de las principales características de la época actual, diríamos: supremacía del poder financiero, revolución tecnológica e informática, guerra, destrucción/despoblamiento y reconstrucción/reordenamiento, ataques a los Estados-Nación, la consiguiente redefinición del poder y de la política, el mercado como figura hegemónica que permea todos los aspectos de la vida humana en todas partes, mayor concentración de la riqueza en pocas manos, mayor distribución de la pobreza, aumento de la explotación y del desempleo, millones de personas al destierro, delincuentes que son gobierno, desintegración de territorios. En resumen: globalización fragmentada.
Bien, según este planteamiento, en el caso de los intelectuales (puesto que tienen que ver con la sociedad, el poder y el Estado) cabría preguntarse: ¿han padecido el mismo proceso de destrucción/despoblamiento y reconstrucción/reordenamiento?; ¿qué papel les asigna el poder financiero?; ¿cómo usan (o son usados por) los avances tecnológicos e informáticos?; ¿qué posición tienen en esta guerra?; ¿cómo se relacionan con esos golpeados Estados-Nación?; ¿cuál es su vínculo con ese poder y en esa política redefinidos?, ¿qué lugar tienen en el mercado?, y ¿qué posición toman frente a las consecuencias políticas y sociales de la globalización? En suma: ¿cómo es que se insertan en esa globalización fragmentada?
El mundo habría cambiado por y para esta guerra. Si así fuera, los intelectuales "clásicos" no existirían más, ni sus antiguas funciones. En su lugar, una nueva generación de "cabezas pensantes" (para usar un término acuñado por el comandante zapatista Tacho) habría emergido (o está por emerger) y tendrían nuevas funciones en su quehacer intelectual.
Aunque aquí nos trataremos de limitar a los intelectuales de derecha, serán evidentes algunos señalamientos sobre los intelectuales en general y sobre su relación con el poder. Como el propósito de este texto es participar y alentar la polémica entre intelectuales de derecha e izquierda, queda una reflexión más profunda (sobre los intelectuales y el poder, y sobre los intelectuales y la transformación) para futuros e improbables escritos.
Vale. Salud y tenga a la mano su control remoto. En un momento comenzamos...


I. La mundialización: pay per view

En la bisagra del calendario, el dos mil se balancea aún entre los siglos XX y XXI, y entre el segundo y tercer milenio. No sé qué tan importante sea esta cuenta del tiempo, pero me parece que es, también, un momento adecuado para que por todos lados surja OXIMORON. Para no ir muy lejos, se puede decir que esta época es el principio del fin o el fin del principio de "algo". "Algo", irresponsable forma de eludir un problema. Pero ya se sabe que nuestra especialidad no es la solución de problemas, sino su creación. ¿"Su creación"? No, es muy presuntuoso, mejor su proposición. Sí, nuestra especialidad es proponer problemas.
Allá arriba todo parece haber ocurrido ya antes, como si una vieja película se repitiera con otras imágenes, otros recursos cinematográficos, incluso actores diferentes, pero el mismo argumento. Como si la "modernidad" (o "post modernidad", dejo la precisión para quien se tome la molestia) de la globalización se vistiera con su OXIMORON y se nos presentara como una modernidad arcaica, rancia, antigua.
Si esto que digo les parece una mera apreciación subjetiva, póngalo a cargo de nuestro estar en la montaña, resistiendo y en rebeldía, pero concédanos el privilegio de la lectura y vea si se trata en efecto de un síntoma más del "mal de montaña", o usted comparte esta sensación de dejà vu que fluye por el hipercinema que es el mundo globalizado.
El mundo no es cuadrado, cuando menos esto es lo que se enseña en la escuela. Pero, en el filo cortante de la unión de dos milenios, el mundo tampoco es redondo. Ignoro cuál sea la figura geométrica adecuada para representar la forma actual del mundo, pero, puesto que estamos en la época de la comunicación digital audiovisual, podríamos intentar definirla como una gigantesca pantalla. Usted puede agregar "una pantalla de televisión", aunque yo optaría por "una pantalla de cine". No sólo porque prefiero al cinematógrafo, también (y sobre todo) porque me parece que hay frente a nosotros una película, una vieja película, modernamente vieja (para seguir con oximoron).
Es, además, una de esas pantallas donde se puede programar la presentación simultánea de varias imágenes (picture in picture la llaman). En el caso del mundo globalizado, de imágenes que se suceden en cualquier rincón del planeta. No son todas las imágenes. Y no se debe a que falte espacio en la pantalla, sino a que "alguien" ha seleccionado esas imágenes y no otras. Es decir, estamos viendo una pantalla con diversos recuadros que presentan imágenes simultáneas de diferentes partes del mundo, es cierto, pero no todo el mundo está ahí.
Al llegar a este punto, uno se pregunta, inevitablemente: "¿quién tiene el control remoto de esta pantalla audiovisual? y ¿quién hace la programación?" Buenas preguntas, pero aquí no encontrará usted las respuestas. Y no sólo porque no las sabemos a ciencia cierta, sino también porque no son el tema de este escrito.
Puesto que no podemos cambiar de canal o de cinema, veamos algunos de los diferentes recuadros que nos ofrece la mega pantalla de la globalización.
Vayamos al continente americano. Ahí tiene usted, en aquel rincón, la imagen de la Universidad Nacional Autónoma de México (UNAM) ocupada por un grupo paramilitar del gobierno: la llamada Policía Federal Preventiva. No parece que estén estudiando esos hombres uniformados de gris. Más allá, enmarcada por las montañas del sureste mexicano, una columna de grises tanquetas blindadas cruza una comunidad indígena chiapaneca. En el otro lado, la imagen gris presenta a un policía norteamericano que detiene, con lujo de violencia, a un joven en un lugar que puede ser Seattle o Washington.
En el recuadro europeo proliferan también los grises. En Austria es Joer Heider y su fervor pro-nazi. En Italia, con la ayuda desinteresada de D´Alema, Silvio Berlusconi se arregla la corbata. En el Estado Español, Felipe González le maquilla la cara a José María Aznar. En Francia es Le Pen quien nos sonríe.
Asia, África y Oceanía presentan el mismo color repitiéndose en sus respectivos rincones.
Mmh... Tantos grises... Mmh... Podemos protestar... Después de todo, nos prometieron un programa a todo color... Cuando menos subamos el volumen y tratemos de entender así de qué se trata...


II. Un olvido memorable

Al igual que la globalización fragmentada, los intelectuales están ahí, son una realidad de la sociedad moderna. Y su "estar ahí" no se limita a la época actual, se remonta a los primeros pasos de la sociedad humana. Pero la arqueología de los intelectuales escapa a nuestros conocimientos y posibilidades, así que partimos del hecho de que "están ahí". En todo caso, lo que tratamos de descubrir es la forma que adquiere ahora su "estar ahí".
"Los intelectuales como categoría son algo muy vago, ya se sabe. Diferente es, en cambio, definir la "función intelectual". La función intelectual consiste en determinar críticamente lo que se considera una aproximación satisfactoria al propio concepto de verdad; y puede desarrollarla quien sea, incluso un marginado que reflexione sobre su propia condición y de alguna manera la exprese, mientras que puede traicionarla un escritor que reaccione ante los acontecimientos con apasionamiento, sin imponerse la criba de la reflexión." (Umberto Eco. Cinco escritos morales. Ed. Lumen. Traducción Helena Lozano Miralles, pp. 14-15). Si esto es así, entonces el quehacer intelectual es, fundamentalmente, analítico y crítico. Frente a un hecho social (por limitarnos a un universo), el intelectual analiza lo evidente, lo afirmativo y lo negativo, buscando lo ambiguo, lo que no es ni una cosa ni otra (aunque así se presente), y exhibe (comunica, devela, denuncia) lo que no sólo no es lo evidente, sino incluso contradice a lo evidente.
Es de suponer que las sociedades humanas tengan personas que se dediquen profesionalmente a este análisis crítico y a comunicar su resultado (en palabras de Norberto Bobbio: "Los intelectuales son todos aquellos para los cuales transmitir mensajes es la ocupación habitual y conciente [...] y para decirlo en un modo que puede parecer brutal, casi siempre representa también el modo de ganarse el pan." Quedémonos con esta aproximación al intelectual, al profesional del análisis crítico y la comunicación.
Ya hemos sido advertidos de que el intelectual no siempre ejerce la función intelectual. "La función intelectual se ejerce siempre con adelanto (sobre lo que podría suceder) o con retraso (sobre lo que ha sucedido); raramente sobre lo que está sucediendo, por razones de ritmo, porque los acontecimientos son siempre más rápidos y acuciantes que la reflexión sobre los acontecimientos" (Umberto Eco, op cit, p. 29).
Por su función intelectual, este profesional del análisis crítico y su comunicación sería una especie de conciencia incómoda e impertinente de la sociedad (en esta época, de la sociedad globalizada) en su conjunto y de sus partes. Un inconforme con todo, con las fuerzas políticas y sociales, con el Estado, con el gobierno, con los medios de comunicación, con la cultura, con las artes, con la religión, con el etcétera que el lector agregue. Si el actor social dice "¡ya está!", el intelectual murmura con escepticismo: "le falta, le sobra".
Tendríamos entonces que el intelectual en su papel es un crítico de la inmovilidad, unpromotor del cambio, un progresista. Sin embargo, este comunicador de ideas críticas está inserto en una sociedad polarizada, enfrentada entre sí de muchas formas y con variados argumentos, pero dividida en lo fundamental entre quienes usan el poder para que las cosas no cambien y entre quienes luchan por el cambio. "El intelectual debe, por un elemental sentido del ridículo, comprender que no se le otorga un papel de brujo del espíritu en torno al cual va a girar el ser o no ser de lo histórico, pero que evidentemente él tiene saberes [...] que lo pueden alinear en un sentido o en otro de lo histórico. Lo pueden alinear en la búsqueda de la clarificación de las injusticias presentes en el mundo actual o en la complicidad con la paralización e instalación en el Limbo." (Manuel Vázquez Montalbán. Panfleto desde el planeta de los simios. Ed. Drakontos. Barcelona, 1995, p. 48)
Y es aquí donde el intelectual opta, elige, escoge entre su función intelectual y la función que le proponen los actores sociales. Aparece así la división (y la lucha) entre intelectuales progresistas y reaccionarios. Unos y otros siguen trabajando con la comunicación de análisis críticos pero, mientras los progresistas siguen en la crítica a la inmovilidad, a la permanencia, a la hegemonía y a lo homogéneo; los reaccionarios enarbolan la crítica al cambio, al movimiento, a la rebelión y a la diversidad. El intelectual reaccionario "olvida" su función intelectual, renuncia a la reflexión crítica, y su memoria se recorta de modo que no hay pasado ni futuro, el presente y lo inmediato es lo único asible y, por ende, incuestionable.
Al decir "intelectuales progresistas y reaccionarios", nos referimos a los intelectuales "de izquierda y de derecha". Aquí conviene agregar que el intelectual de izquierda ejerce su función intelectual, es decir, su análisis crítico, también frente a la izquierda (social, partidaria, ideológica), pero en la época actual su crítica es fundamentalmente frente al poder hegemónico: el de los señores del dinero y quienes los representan en el campo de la política y de las ideas.
Dejemos ahora a los intelectuales progresistas y de izquierda, y vayamos a los intelectuales reaccionarios, la derecha intelectual.


III. El pragmatismo intelectual

En el principio, los gigantes intelectuales de derecha fueron progresistas. Y hablo de los grandes intelectuales de derecha, los "think tanks" de la reacción, no de los enanos que fueron ingresando a sus clubes "pensantes". Octavio Paz, excelente poeta y ensayista, el más grande intelectual de derecha de los últimos años en México, declaró: "Vengo del pensamiento llamado de izquierda. Fue algo muy importante en mi formación. No sé ahora... lo único que sé es que mi diálogo -a veces mi discusión- es con ellos (los intelectuales de izquierda). No tengo mucho que hablar con los otros." (Braulio Peralta. El poeta en su tierra. Diálogos con Octavio Paz. Ed. Grijalbo. México, 1996, p. 45). Y casos como el de Paz se repiten en la mega pantalla global.
El intelectual progresista, en tanto que comunicador de análisis críticos, se convierte en objeto y objetivo para el poder dominante. Objeto a comprar y objetivo a destruir. Multitud de recursos se ponen en juego para una y otra cosa. El intelectual progresista "nace" en medio de este ambiente de seducción persecutoria. Algunos se resisten y defienden (casi siempre en solitario, la solidaridad intergremial no parece ser la característica del intelectual progresista), pero otros, tal vez fatigados, buscan entre su bagaje de ideas y sacan aquellas que sean a la vez coartada y razón para legitimar al poder. Lo nuevo exige mucho, lo viejo ahí está, así que basta enarbolar el argumento de "lo inevitable" para que el sistema le ofrezca un cómodo sillón (a veces en forma de beca, puesto, premio, espacio) a la vera del Príncipe ayer tan criticado.
"Lo inevitable" tiene nombre hoy: globalización fragmentada, pensamiento único (es decir, "la traducción en términos ideológicos y con pretensión universal de los intereses de un conjunto de fuerzas económicas, en particular las del capital internacional." Ignacio Ramonet. Un mundo sin rumbo. Crisis de fin de siglo. Editorial Debate. Madrid), fin de la historia, omnipresencia y omnipotencia del dinero, reemplazo de la política por la policía, el presente como único futuro posible, racionalización de la desigualdad social, justificación de la sobreexplotación de seres humanos y recursos naturales, racismo, intolerancia, guerra.
En una época marcada por dos nuevos paradigmas, comunicación y mercado, el intelectual de derecha (y ex de izquierda) entiende que ser "moderno" significa cumplir la consigna: ¡adaptaos o perded vuestros privilegiados lugares!
Ni siquiera tiene que ser original, el intelectual de derecha ya tiene la cantera de la que habrá que picar las piedras que adornen la globalización fragmentada: el pensamiento único. La asepsia no importa mucho, el pensamiento único tiene sus principales "fuentes" en el Banco Mundial, el Fondo Monetario Internacional, la Organización para el Comercio y el Desarrollo Económico, la Organización Mundial de Comercio, la Comisión Europea, el Bundesbank, el Banco de Francia "que, mediante su financiamiento, enrolan al servicio de sus ideas a través de todo el planeta a numerosos centros de investigación, universidades y fundaciones, los cuales, a su vez, perfilan y difunden la buena nueva" (Ignacio Ramonet, op cit, p. 111).
Con tal abundancia de recursos, es fácil que florezcan élites que, "desde hace años, se emplean a fondo en hacer los elogios del "pensamiento único"; que ejercen un auténtico chantaje contra toda reflexión crítica en nombre de la "modernización", del "realismo", de la "responsabilidad" y de la "razón"; que afirman el "carácter ineluctable" de la evolución actual de las cosas; que predican la capitulación intelectual, y arrojan a las tinieblas de lo irracional a todos los que se niegan a aceptar que "el estado natural de la sociedad es el mercado." (ibid, p. 114).
Lejos de la reflexión, del pensamiento crítico, los intelectuales de derecha se convierten en los pragmáticos por excelencia, destierran la función intelectual y se transforman en ecos, más o menos estilizados, de los spots publicitarios que inundan el mega mercado de la globalización fragmentada.
Refuncionalizados en la globalización fragmentada, los intelectuales de derecha modifican su ser y adquieren nuevas "virtudes" (entre ellas reaparece oximoron): una audaz cobardía y una profunda banalidad. Ambas brillan en sus "análisis" del presente globalizado y sus contradicciones, sus revisitaciones al pasado histórico, sus clarividencias. Se pueden dar el lujo de la audaz cobardía y de la profunda banalidad, puesto que la hegemonía universal casi absoluta del dinero los protege con torres de cristal blindado. Por esto, la derecha intelectual es particularmente sectaria y tiene, además, el respaldo de no pocos medios de comunicación y gobiernos. El ingreso a esas altas torres intelectuales no es fácil, hay que renunciar a la imaginación crítica y autocrítica, a la inteligencia, a la argumentación, a la reflexión, y optar por la nueva teología, la teología neoliberal.
Puesto que la globalización se vende como el mejor de los mundos posibles, pero carece de ejemplos concretos de sus ventajas para la humanidad, se debe recurrir a la teología y suplir con dogmas y fe neoliberales la falta de argumentos. El papel de los teólogos neoliberales incluye el señalar y perseguir a los "herejes", a los "mensajeros del mal", es decir, a los intelectuales de izquierda. Y qué mejor forma de combatir a los críticos que acusarlos de "mesianismo".
Frente al intelectual de izquierda, el de derecha impone la etiqueta lapidaria de "mesianismo trasnochado". ¿Quién puede cuestionar un presente pleno de libertades, donde cualquiera puede decidir qué compra, sean artículos de primera necesidad, ideologías, propuestas políticas y conductas para toda ocasión?
Pero paradoja no perdona. Si en algún lado hay mesianismo, es en la derecha intelectual. "El Gran Circo de Intelectuales Neoliberales Químicamente Puros o Ex Marxistas Arrepentidos o la Trilateral pueden ser mesiánicos cuando prefiguran la fatalidad de un universo basado en la verdad única, el mercado único y el ejército gendarme único vigilando el fogonazo de flash que acompaña la foto final de la Historia, pulsado ante los mejores paisajes de las mejores sociedades abiertas." (Manuel Vázquez Montalbán, op cit, p. 47).
La foto final. O la escena culminante del filme de la globalización fragmentada.


IV. Los clarividentes ciegos

Parafraseando a Régis Debray (Croire, Voir, Faire. Ed. Odile Jacob. París, 1999), el problema aquí no es por qué o cómo la globalización es irremediable, sino por qué o cómo todo el mundo, o casi, está de acuerdo en que es irremediable. Una posible respuesta: La tecnología del hacer-creer [...]. El poder de la información... Inf-formar: dar forma, formatear. Con-formar: dar conformidad. Trans-formar: modificar una situación (ibid, p. 193).
Con la globalización de la economía se globaliza también la cultura. Y la información. De ahí que las grandes empresas de la comunicación "tiendan" sobre el mundo entero su red electrónica sin que nada ni nadie se los impida. Ni Ted Turner, de la cnn; ni Rupert Murdoch, de News Corporation Limited; ni Bill Gates, de Microsoft; ni Jeffrey Vinik, de Fidelity Investments; ni Larry Rong, de China Trust and International Investment; ni Robert Allen, de att, al igual que George Soros o decenas de otros nuevos amos del mundo, han sometido jamás sus proyectos al sufragio universal (Ignacio Ramonet, op cit, p. 109).
En la globalización fragmentada, las sociedades son fundamentalmente sociedades mediáticas. Los media son el gran espejo, no de lo que una sociedad es, sino de lo que debe aparentar ser. Plena de tautologías y evidencias, la sociedad mediática es avara en razones y argumentos. Aquí, repetir es demostrar.
Y lo que se repite son las imágenes, como ésas grises que ahora nos presenta la pantalla globalizada. Debray nos dice: La ecuación de la era visual es algo así como: lo visible = lo real = lo verdadero. He aquí la idolatría revistada (y sin duda redefinida) (Régis Debray, op cit, p. 200). Y los intelectuales de derecha han aprendido bien la lección. Y más, es uno de los dogmas de su teología.
¿Dónde se dio el salto que iguala lo visible con lo verdadero? Trucos de la pantalla globalizada.
El mundo entero, mejor aún, el conocimiento entero está ahora a la mano de cualquiera con una televisión o una computadora portátil. Sí, pero no cualquier mundo y no cualquier conocimiento. Debray explica que el centro de gravedad de las informaciones se ha desplazado de lo escrito a lo visual, de lo diferido a lo directo, del signo a la imagen. Las ventajas para los intelectuales de derecha (y las desventajas para los progresistas) son obvias.
Analizando el comportamiento de la información en Francia durante la Guerra del Golfo Pérsico, se devela el poder de los media: al inicio del conflicto el 70% de los franceses se mostraban hostiles a la guerra, al final el mismo porcentaje la apoyaba. Bajo el golpeteo de los media, la opinión pública francesa se "volteó" y el gobierno obtuvo el beneplácito por su participación bélica.
Estamos en la "era visual". Así las informaciones se nos presentan en la evidencia de su inmediatez, por tanto es real lo que se nos muestra, por tanto es verdadero lo que vemos. No hay lugar para la reflexión intelectual crítica, a lo más hay espacio para comentaristas que "completen" la lectura de la imagen. Lo visual no está hecho, en esta era, para ser visto, sino para dar "conocimiento". El mundo ha devenido en una mera representación multimedia, que suprime al mundo exterior, capaz de ser conocida en la misma medida en que es vista. Sí, inicios del tercer milenio, siglo XXI, y la filosofía boyante en nuestro mundo "moderno" es el idealismo absoluto.
Se pueden sacar ya algunas conclusiones: el nuevo intelectual de derecha tiene que desempeñar su función legitimadora en la era visual; optar por lo directo e inmediato; pasar del signo a la imagen y de la reflexión al comentario televisivo. Ni siquiera tiene que esforzarse por legitimar un sistema totalitario, brutal, genocida, racista, intolerante y excluyente. El mundo que es el objeto de su "función intelectual" es el que ofrecen los media: una representación virtual. Si en el hipermercado de la globalización el Estado-Nación se redefine como una empresa más, los gobernantes como gerentes de ventas y los ejércitos y policías como cuerpos de vigilancia, entonces a la derecha intelectual le toca el área de Relaciones Públicas.
En otras palabras, en la globalización, los intelectuales de derecha son "multiusos": sepultureros del análisis crítico y la reflexión, malabaristas con las ruedas de molino de la teología neoliberal, apuntadores de gobiernos que olvidan el "script", comentaristas de lo evidente, porristas de soldados y policías, jueces gnoseológicos que reparten etiquetas de "verdadero" o "falso" a conveniencia, guardaespaldas teóricos del Príncipe, y locutores de la "nueva historia".


V. El futuro pasado

Quemar libros y erigir fortificaciones es tarea común de los príncipes, dice Jorge Luis Borges. Y añade que todo Príncipe quiere que la historia comience desde él. En la era de la globalización fragmentada no se queman los libros (aunque sí se erigen fortificaciones), sino que se les substituye. Aun así, más que suprimir la historia previa a la globalización, el Príncipe neoliberal instruye a sus intelectuales para que la rehagan de modo que el presente sea la culminación de los tiempos.
"Los maquillistas de la historia", así tituló Luis Hernández Navarro un artículo dedicado al debate con los intelectuales de derecha en México (Ojarasca en La Jornada, 10 de abril, 2000). Además de provocar el presente texto (escrito con el ánimo de darle seguimiento a sus planteamientos), Hernández Navarro advierte sobre una nueva ofensiva: la nueva derecha intelectual dirige sus baterías contra figuras representativas de la intelectualidad progresista mexicana. "Rentista tardía de la bonanza planetaria del 'pensamiento único', renegada de su identidad, heredera con escrituras de la caída del muro de Berlín, socia y émula del circuito cultural conservador estadunidense, esta derecha está convencida de que la crítica cultural otorga credenciales suficientes para emitir, sin argumentación, juicios sumarios a sus adversarios en el terreno político" (ibidem).
Las razones no-ideológicas de este ataque deben buscarse en la disputa por el espacio de credibilidad. En México los intelectuales de izquierda tienen gran influencia en la cultura y la academia. Estorban, ése es su delito.
No, más bien ése es uno de sus delitos. Otro es el apoyo de estos intelectuales progresistas a la lucha zapatista por una paz justa y digna, por el reconocimiento de los derechos de los pueblos indios, y por el fin de la guerra contra los indígenas del país. Este "pecado" no es menor. "El levantamiento zapatista inaugura una nueva etapa, la de la irrupción de movimientos indígenas como actores de la oposición a la globalización neoliberal (Ivon Le Bot. "Los indígenas contra el neoliberalismo", en La Jornada, 6 de marzo, 2000). No somos los mejores ni los únicos: ahí están los indígenas de Ecuador y de Chile, las protestas de Seattle y Washington (y las que sigan en tiempo, no en importancia). Pero somos una de las imágenes que distorsionan la mega pantalla de la globalización fragmentada y, como fenómeno social e histórico, demandamos reflexión y análisis crítico.
Y la reflexión y el análisis crítico no están en el "arsenal" de la derecha intelectual. ¿Cómo cantar las glorias del nuevo orden mundial (y su imposición en México) si un grupo de indígenas "premodernos" no sólo desafiaban al poder, sino que lograban la simpatía de una importante franja de intelectuales? En consecuencia el Príncipe dictó sus órdenes: atacad a unos y a otros, yo pongo al ejército y los medios de comunicación, ustedes pongan las ideas. Así que la nueva derecha intelectual dedicó burlas y calumnias a su par de izquierda. A los indígenas rebeldes zapatistas nos dedicó... una nueva historia.
Y, en tanto que el zapatismo tuvo impacto internacional, la derecha intelectual en varias partes del mundo (no sólo en México) se dedicó a esta tarea. Los intelectuales de derecha no sólo maquillan la historia, la rehacen, la rescriben a conveniencia del Príncipe y a modo con su función intelectual.
Pero volvamos a México. "A lo largo de este siglo los intelectuales en México han desempeñado funciones diversas: cortesanos de lujo del poder en turno, decoración estatal, voces disidentes (a las que se llama, para institucionalizarlas, 'Conciencias Críticas'), intérpretes privilegiados de la historia y de la sociedad, espectáculos en sí mismos." (Carlos Monsiváis. "Intelectuales mexicanos de fin de siglo", Viento del Sur 8, 1996, p. 43).
El último gran intelectual de derecha en México, Octavio Paz, cumplió a cabalidad la labor encomendada por el Príncipe. No escatimó palabras para desprestigiar a los zapatistas y a quienes mostraron simpatía por su causa (ojo: no por su forma de lucha). Una de las mejores muestras del Paz al servicio del Príncipe está en sus escritos y declaraciones en los inicios de 1994. Ahí Octavio Paz definía, no al EZLN, sino los argumentos sobre los que deberían ahondar sus "soldados" intelectuales: maoísmo, mesianismo, fundamentalismo, y algunos "ismos" más que ahora escapan a mi memoria. Frente a los intelectuales progresistas, Paz no escatimó acusaciones: ellos eran responsables del "clima de violencia" que marcó el año de 1994 (y todos los años del México moderno, pero la derecha intelectual nunca ha brillado por su memoria histórica), en concreto, del asesinato del candidato oficial a la presidencia de la República, Colosio. Años después, antes de morir, Paz rectificaría y señalaría que el sistema estaba en crisis y que, aun sin el alzamiento zapatista, esos hechos ocurrirían de todas formas (véase: Braulio Peralta, op cit).
Ninguno de los actuales herederos de Paz tiene su estatura, aunque no les faltan ambiciones para ocupar su lugar. No como intelectual, pues les faltan inteligencia y brillo, sino por el lugar privilegiado que ocupó al lado de Príncipe. Sin embargo, su lucha hacen. Y siguen en su empeño de confeccionarle al zapatismo una historia que les sea cómoda, no sólo para atacarlo, sino, sobre todo, para eludir el análisis crítico y la reflexión serios y responsables.
Pero no sólo la historia del zapatismo y de los pueblos indios rescriben los intelectuales de derecha. La historia entera de México se está rehaciendo para demostrar que estamos, ya, en el mejor de los Méxicos posibles. Así que los enanos de la derecha intelectual revisitan el pasado y nos venden una nueva imagen de Porfirio Díaz, de Santa Anna, de Calleja, de Cárdenas.
Y este afán de remodelar la historia no es exclusivo de México. En la pantalla de la globalización ya se nos oferta una nueva versión en donde el Holocausto nazi en contra de los judíos fue una especie de Disneylandia selectiva, Adolfo Hitler es una especie de alegre Mickey Mouse ario y, más acá en el tiempo, las guerras del Golfo Pérsico y de Kosovo fueron "humanitarias". En el futuro pasado que nos prepara la derecha intelectual, la globalización es el "deux ex machina" que trabaja sobre el mundo para preparar su propio advenimiento.
Pero, esas imágenes grises que nos presenta ahora la mega pantalla de la globalización, ¿qué llegada anuncian?


VI. El liberal fascista

Yo digo que esta película ya la vimos antes, y si no la recordamos es porque la historia no es un artículo atractivo en el mercado globalizado. Esos grises pueden significar algo: la reaparición del fascismo.
¿Paranoia? Umberto Eco, en un texto llamado "El fascismo eterno" (op cit), da algunas claves para entender que el fascismo sigue latente en la sociedad moderna, y que, aunque parece poco probable que se repitan los campos de exterminio nazis, en uno y otro lado del planeta acecha lo que él llama el "Ur Fascismo". Luego de advertirnos que el fascismo era un totalitarismo "fuzzy", es decir, disperso, difuso en el todo social, propone algunas de sus características: rechazo al avance del saber, irracionalismo, la cultura es sospechosa de fomentar actitudes críticas, el desacuerdo con lo hegemónico es una traición, miedo a la diferencia y racismo, surge de la frustración individual o social, xenofobia, los enemigos son simultáneamente demasiado fuertes y demasiado débiles, la vida es una guerra permanente, elitismo aristocrático, sacrificio individual para el beneficio de la causa, machismo, populismo cualitativo difundido por televisión, "neo lengua" (de léxico pobre y sintaxis elemental).
Todas estas características pueden ser encontradas en los valores que defienden y difunden los media y los intelectuales de derecha en la era visual, en la era de la globalización fragmentada. "Acaso, hoy casi como ayer, ¿no se está utilizando el cansancio democrático, la náusea ante la nada, el desconcierto ante el desorden como aval de una nueva situación histórica de excepción que requiere un nuevo autoritarismo persuasivo, unificador de la ciudadanía en clientes y consumidores de un sistema, un mercado, una represión centralizada?" (M. Vázquez Montalbán, op cit, p. 76).
Mire usted la mega pantalla, todos esos grises son la respuesta al desorden, es lo que se necesita para enfrentar a quienes se niegan a disfrutar el mundo virtual de la globalización y se resisten. Y, sin embargo, parece que el número de inconformes crece. Uno de los enanos mexicanos que aspiran a ocupar la silla vacía de Octavio Paz, constataba, aterrado, que en una encuesta en México del Instituto de Investigaciones Sociales de la UNAM, en 1994, el 29% de los entrevistados respondía que las leyes no deben obedecerse si son injustas. En noviembre de 1999, en la revista Educación 2001, era el 49% el que a la pregunta "¿Puede el pueblo desobedecer las leyes si le parece que son injustas?", respondió "". Después de reconocer que es necesario resolver problemas de crecimiento económico, educación, empleo y salud, señalaba: "todas esas cosas sólo pueden alcanzarse si la sociedad está parada en un piso más básico que es de la seguridad pública y el cumplimiento de la ley. Ese piso está lleno de agujeros en México y tiende a empeorar." (Héctor Aguilar Camín. "Leyes y crímenes", en "Esquina", Proceso 1225, 23 de abril, 2000). El razonamiento es sintomático: a falta de legitimidad y consenso, policías.
El clamor de la derecha intelectual demandando "orden y legalidad" no es exclusivo de México. En Francia, el fascista Le Pen está dispuesto a responder al llamado. En Austria el neonazi Heider ya está listo, lo mismo que el franquista Aznar en el Estado Español. En Italia, Berlusconi (alias el "Duce Multimedia") y Gianfranco Fini se arreglan para el momento.
¿Europa asomada de nuevo al balcón del fascismo? Suena duro... y lejano. Pero ahí están las imágenes de la mega pantalla. Esos "skin heads" que asoman sus garrotes en aquella esquina, ¿están en Alemania, en Inglaterra, en Holanda? "Son grupos minoritarios y bajo control", nos tranquiliza el audio de la mega pantalla. Pero parece que el fascismo renovado no siempre trae la cabeza rapada ni se adorna el cuerpo con suásticas tatuadas, y aun así no deja de ser una siniestra derecha.
Si digo "siniestra derecha" le parecerá a usted que juego con las palabras y sólo recurro de nuevo a oximoron, pero trato de llamar su atención sobre algo. Después de la caída del muro de Berlín, el espectro político europeo, en su mayoría, corrió atropelladamente hacia el centro. Esto es evidente en la izquierda europea tradicional, pero también ocurrió con los partidos derechistas (véanse: Emiliano Fruta, "La nueva derecha europea", y Hernán R. Moheno, "Más allá de la vieja izquierda y la nueva derecha", en Urbi et Orbi. itam, abril, 2000). Con una careta moderna, la derecha fascista empieza a conquistar espacios que ya rebasan con mucho los de las notas policiacas en los media. Ha sido posible porque se han esforzado en construirse una nueva imagen, alejada del pasado violento y autoritario.
También porque se han apropiado de la teología neoliberal con una facilidad asombrosa (por algo será), y porque en sus campañas electorales han insistido mucho en los temas de seguridad pública y empleo (alertando contra la "amenaza" de los inmigrantes). ¿Alguna diferencia con las propuestas de la social democracia o de la izquierda tradicional?
Detrás de la "tercera vía" europea acecha el fascismo, y también de la izquierda que no se define (en teoría y práctica) contra el neoliberalismo. En veces, la derecha se puede vestir con andrajos de izquierda. En México, en el reciente debate televisivo entre los 6 candidatos a la presidencia de la República, el candidato que obtuvo el beneplácito de la derecha intelectual fue Gilberto Rincón Gallardo, del Partido Democracia Social, de izquierda aparente. Acaso la televisión no mostró que algunos de los militantes y candidatos del pds en Chiapas son cabezas de varios grupos paramilitares, responsables, entre otras cosas, de la masacre de Acteal.
Que la derecha fascista y la nueva derecha intelectual estén listas para mostrarle sus "habilidades" a los señores del dinero no sorprende. Lo que desconcierta es que, algunas veces, son la socialdemocracia o la izquierda institucional quienes les preparan el camino.
Si en el Estado Español, Felipe González (ese político tan aplaudido por la derecha intelectual) trabajó para el triunfo del derechista Partido Popular de José María Aznar, en Italia, la autopista por la que la derecha se dirige al poder se llama Massimo D'Alema. Antes de renunciar, D'Alema hizo todo lo necesario para hacer naufragar a la izquierda. "D'Alema y los suyos financiaron con el dinero de todos la educación religiosa y prepararon la privatización de la [educación] pública, participaron plenamente en la aventura de la OTAN contra Yugoslavia y en la ocupación virtual de Albania, privatizaron lo que pudieron, atentaron contra los jubilados, reprimieron a los inmigrantes, se sometieron a Washington, "reflotaron" a los corruptos y al mismo Bettino Craxi, por cuya residencia en el exilio, como prófugo de la justicia, desfilaron para pedirle ayuda, hicieron una ley sobre los carabineros dictada por el comando golpista de los mismos..." (Guillermo Almeyra. "La izquierda de la derecha" en La Jornada, 23 de abril, 2000). ¿Resultado? Buena parte del electorado de izquierda se abstuvo de votar.
En la complicada geometría política europea, la llamada "tercera vía" no sólo ha resultado letal para la izquierda, también ha sido la rampa de despegue del neofascismo.
Tal vez estoy exagerando, pero "la memoria es una facultad extraña. Cuanto más agudo y más aislado es el estímulo que recibe la memoria, más se recuerda; cuanto más abarcador, se recuerda con menor intensidad." (John Berger, op cit, p.234), y sospecho que ese alud de imágenes grises en la pantalla es para que recordemos con menor intensidad, con pereza, con ganas de olvidar.
Y si los libros no mienten, fue el fascismo italiano el que resultó atractivo para muchos líderes liberales europeos porque consideraban que estaba llevando a cabo interesantes reformas sociales, y podría ser una alternativa a la "amenaza comunista" (Véase: U. Eco, op cit).
En agosto de 1997, Fausto Bertinotti (secretario del italiano Partido de Refundación Comunista) escribía en una carta al EZLN: "Se ha abierto, en Europa, una verdadera crisis de civilización. Se podrían, desgraciadamente, narrar cientos y miles de episodios de barbarie cotidiana, de violencia gratuita, de agresión a las personas, al cuerpo, de tráfico de personas, de cuerpos, de órganos, sin ningún sentido. Y encima de todo una gruesa capa de indiferencia, como si la vida hubiera perdido el sentido. Le podría contar de cosas que ocurren en la periferia urbana, realidad y metáfora de la tragedia humana en la que se ha convertido este nuevo ciclo del desarrollo capitalista."
Frente a esta vida sin sentido, el liberal fascista ofrece su cara amable y argumenta, haciendo hincapié en sus bondades, el recurso de la violencia legalizada, institucional.
El horizonte anuncia tormenta, y la derecha intelectual nos trata de tranquilizar presentándola como un chubasco sin importancia. Todo sea por asegurar el pan, la sal... y el lugar junto al Príncipe. ¡Protegedlo! No importa que su camisa sea gris y en su cálido seno se cultive el huevo de la serpiente.
"El huevo de la serpiente". Si mal no recuerdo, es el título de una película de Bergman que describía el ambiente en el que se gestó el fascismo. ¿Y qué hacemos? ¿Seguimos sentados hasta que termine la película? ¿Sí? ¿No? ¡Un momento! ¡Vea usted hacia los otros espectadores! ¡Muchos se han levantado de sus asientos y hacen corrillos! ¡Los murmullos crecen! ¡Algunos lanzan objetos contra la pantalla y abuchean! ¡Y mire esos otros! ¡En lugar de dirigirse a la pantalla van hacia arriba! ¡Como que buscan al que proyecta la película! ¡Parece que lo encontraron porque señalan insistentemente hacia un rincón allá arriba! ¿Quiénes son esas personas y con qué derecho interrumpen la proyección? Uno de ellos levanta una pancarta que reza: "Tomemos entonces, nosotros, ciudadanos comunes, la palabra y la iniciativa. Con la misma vehemencia y la misma fuerza con que reivindicamos nuestros derechos, reivindiquemos también el deber de nuestros deberes." (José Saramago, Discursos de Estocolmo. Ed. Alfaguara). ¿El deber de nuestros deberes? ¡Que alguien explique porque no entendemos nada! ¡Silencio! Alguien toma la palabra...


VII. La escéptica esperanza

Los intelectuales progresistas. Los de la escéptica esperanza. El sociólogo francés Alain Touraine propone una clasificación de ellos (¿Comment sortir du libéralisme? Ed. Fayard. París, 1999): la más clásica la del intelectual denunciador, donde toda la atención se concentra sobre la crítica al sistema dominante; el segundo tipo de intelectuales se identifican con tal lucha o tal fuerza de oposición y se convierten en sus intelectuales orgánicos; la tercera cree en la existencia, la conciencia y la eficacia de los actores, al mismo tiempo que conocen sus límites; la cuarta son los utopistas, se identifican con las nuevas tendencias culturales, de la sociedad o de la existencia personal. Todos ellos (y ellas, porque ser intelectual no es privilegio masculino) empeñan sus esfuerzos en entender, críticamente, la sociedad, su historia y su presente, y tratan de desentrañar la incógnita de su futuro.
Nada fácil la tienen los pensadores progresistas. En su función intelectual se han dado cuenta de qué va todo y, nobleza obliga, deben develarlo, exhibirlo, denunciarlo, comunicarlo. Pero para hacerlo deben enfrentarse a la teología neoliberal de la derecha intelectual, y detrás de ésta están los media, los bancos, las grandes corporaciones, los Estados (o lo que queda de ellos), los gobiernos, los ejércitos, las policías.
Y deben hacerlo, además, en la era visual. Aquí están en franca desventaja, pues hay que tener en cuenta las grandes dificultades que implica enfrentarse al poder de la imagen con único recurso de la palabra. Pero su escepticismo frente a lo evidente les ha permitido ya descubrir la trampa. Y con el mismo escepticismo arman sus análisis críticos para desmontar, conceptualmente, la maquina de las bellezas virtuales y las miserias reales. ¿Hay esperanza?
Hacer de la palabra bisturí y megáfono es ya un desafío descomunal. Y no sólo porque en esta época la reina es la imagen. También porque el despotismo de la era visual arrincona a la palabra en los burdeles y en las tiendas de trucos y bromas. "Aun así, sólo podemos confesar nuestra confusión y nuestra impotencia, nuestra ira y nuestras opiniones, con palabras. Con palabras nombramos aun nuestras pérdidas y nuestra resistencia porque no tenemos otro recurso, porque los hombres están indefectiblemente abiertos a la palabra y porque poco a poco son ellas las que moldean nuestro juicio. Nuestro juicio, temido a menudo por quienes detentan el poder, se moldea lentamente, como el cauce de un río, por medio de corrientes de palabras. Pero las palabras sólo producen corrientes cuando resultan profundamente creíbles." (John Berger, op cit, p. 255).
Credibilidad. Algo de lo que carece la derecha intelectual y que, afortunadamente, abunda entre los intelectuales progresistas. Sus palabras han producido, y producen, en muchos la sorpresa primero, la inquietud después. Para que esa inquietud no sea aplastada por el conformismo que receta la era visual, hacen falta más cosas que escapan al ámbito del quehacer intelectual.
Pero aun cuando la palabra se ha hecho raudal, la función intelectual no termina. Los movimientos sociales de resistencia o de protesta frente al poder (en este caso frente a la globalización y el neoliberalismo) todavía deben recorrer un largo camino, no digamos ya para conseguir sus fines, sino para consolidarse como alternativa organizativa para otros. "Finalmente, hay que reconocer la responsabilidad particular de los intelectuales. Depende de ellos, más que de cualquier otra categoría, que la protesta se desgaste en denuncia sin perspectiva o, por el contrario, que ella conduzca a la formación de nuevos actores sociales e, indirectamente, a nuevas políticas económicas y sociales." (Alain Touraine, op cit, p. 15).
El intelectual progresista está debatiéndose continuamente entre Narciso y Prometeo. En veces la imagen en el espejo lo atrapa y empieza su inexorable camino de trasmutación en un empleado más del mega mercado neoliberal. Pero en veces rompe el espejo y descubre no sólo la realidad que está detrás del reflejo, también a otros que no son como él pero que, como él, han roto sus respectivos espejos.
La transformación de una realidad no es tarea de un solo actor, por más fuerte, inteligente, creativo y visionario que sea. Ni solos los actores políticos y sociales, ni solos los intelectuales pueden llevar a buen término esa transformación. Es un trabajo colectivo. Y no sólo en el accionar, también en los análisis de esa realidad, y en las decisiones sobre los rumbos y énfasis del movimiento de transformación.
Cuentan que Miguel Ángel Buonarroti realizó su "David" con serias limitaciones materiales. "El pedazo de mármol sobre el que trabajó Miguel Ángel era uno que ya había sido empezado a trabajar por alguien más y tenía ya perforaciones, el talento del escultor consistió en hacer una figura que se ajustara a esos límites infranqueables y tan restringidos, de ahí la postura, la inclinación, de la pieza final." (Pablo Fernández Christlieb, La afectividad colectiva. Ed. Taurus, 2000, pp. 164-165).
De la misma forma, el mundo que queremos transformar ya ha sido trabajado antes por la historia y tiene muchas horadaciones. Debemos encontrar el talento necesario para, con esos límites, transformarlo y hacer una figura simple y sencilla: un mundo nuevo.
Vale de nuez. Salud y no olvidéis que la idea es también un cincel.

Desde las montañas del Sureste Mexicano
Subcomandante Insurgente Marcos

P.D. ¿Alguien tiene un martillo a la mano?



L'uovo del serpente

Nell'incubatrice del neoliberismo si nascondono le radici di un nuovo fascismo. E della moderna ingiustizia sociale: meno persone hanno più ricchezze prodotte da più persone con meno ricchezze. E' l'ossimoro della globalizzazione.

Il nostro programma:

OSSIMORO!
(La Destra intellettuale ed il Fascismo liberale)

Nella figura retorica chiamata ossimoro,
si applica a una parola un aggettivo che sembra contraddirla;
così gli gnostici parlavano di una luce oscura;
gli alchimisti di un sole nero.
Jorge Luis Borges


Avvertenza, introduzione e premessa

Attenzione: Se non avete letto l'epigrafe, è meglio che lo facciate adesso, altrimenti non capirete alcune cose.
Un fatto incontestabile: la globalizzazione c'è. Non la giudico (ancora), semplicemente indico una realtà. Però, come primo ossimoro, occorre segnalare che si tratta di una globalizzazione frammentata. La globalizzazione è stata resa possibile, fra le altre cose, da due rivoluzioni: quella tecnologica e quella informatica. Ed è stata, ed è, diretta dal potere finanziario. La tecnologia e l'informatica (e con esse il capitale finanziario) hanno fatto scomparire le distanze e hanno rotto le frontiere. Oggi è possibile avere informazioni su qualunque parte del mondo, in qualunque momento e simultaneamente. Ma anche il denaro ha ora il dono dell'ubiquità: va e viene a velocità vertiginosa, come se fosse in ogni luogo nello stesso momento. Di più, il denaro dà uno nuova forma al mondo, la forma di un mercato, di un mega-mercato.
Tuttavia, nonostante la "mondializzazione" del pianeta, o meglio, proprio a causa di questa, l'omogeneità è ben lungi da essere la caratteristica di questo passaggio di secolo e di millennio. Il mondo è un arcipelago, un rompicapo i cui pezzi si trasformano in altri rompicapo, e l'unica cosa davvero globalizzata è la proliferazione dell'eterogeneità.
Se la tecnologia e l'informatica hanno unito il mondo, il potere finanziario che le utilizza lo ha spezzato usandole come armi, come armi in una guerra. Abbiamo detto in precedenza (il testo si chiama "7 Piezas sueltas del rompecabezas mundial", EZLN - 1997) che con la globalizzazione si porta a termine una guerra mondiale, la quarta, e si sviluppa un processo di distruzione/spopolamento e ricostruzione/riordino (sto cercando di riassumere concisamente, siate comprensivi) in tutto il pianeta. Per la costruzione del "nuovo ordine mondiale" (Planetario, Permanente, Immediato e Immateriale, secondo Ignacio Ramonet), il potere finanziario conquista territori e abbatte frontiere, e lo fa con una guerra, una nuova guerra. Una delle vittime di questa guerra è il mercato nazionale, base fondamentale dello Stato-Nazione. Quest'ultimo è in via di estinzione, o quantomeno lo è nella sua forma tradizionale o classica. Al suo posto sorgono mercati integrati, o meglio ancora i negozi del grande "centro commerciale" mondiale, il mercato globalizzato.
Le conseguenze politiche e sociali di questa globalizzazione sono un Ossimoro reiterato e complesso: meno persone con più ricchezze, prodotte da più persone con meno ricchezze, "la povertà del nostro secolo non è confrontabile con nessun'altra. Non è, come è accaduto a volte, il risultato naturale di carestie, ma di un insieme di priorità imposte dai ricchi al resto del mondo" (John Berger, "Cada vez que decimos adiós" Ediciones de la Flor, Argentina, 1997. Pp. 278-279). Per alcuni potenti il pianeta si è spalancato; per milioni di persone il mondo è un non-luogo, e vagano errabondi da una parte all'altra. La criminalità organizzata costituisce la spina dorsale dei sistemi giudiziari e dei governi (gli illegali fanno le leggi e "conservano l'ordine pubblico"), e "l'integrazione" mondiale moltiplica le frontiere.
Così, volendo mettere in risalto alcune delle principali caratteristiche dell'epoca attuale, dovremmo dire: supremazia del potere finanziario, rivoluzione tecnologica e informatica, guerra, distruzione/spopolamento e ricostruzione/riordino, attacco allo Stato-Nazione, conseguente ridefinizione del potere e della politica, il mercato come figura egemonica che permea tutti gli aspetti della vita umana in ogni luogo, maggior concentrazione della ricchezza in poche mani, maggior distribuzione della povertà, aumento dello sfruttamento e della disoccupazione, milioni di persone in esilio economico, delinquenti che si fanno governo, disintegrazione del territorio. Riassumendo: globalizzazione frammentata.
Bene, secondo queste premesse, nel caso degli intellettuali (posto che abbiano a che vedere con la società, il potere e lo stato) sarebbe il caso di domandarsi: hanno subito lo stesso processo di distruzione/spopolamento e ricostruzione/riordino? Quale ruolo assegna loro il potere finanziario? Come usano (o sono usati da) i progressi tecnologici e informatici? Che posizione hanno in questa guerra? Come si rapportano con questi minacciati Stati-Nazione? Qual è il loro legame con questo potere e con questa politica così ridefiniti? Che posto occupano nel mercato? E che posizione prendono di fronte alle conseguenze politiche e sociali della globalizzazione? Insomma: come si inseriscono in questa globalizzazione frammentata?
Il mondo sarebbe cambiato da e per questa guerra. Se così fosse, gli intellettuali "classici" non esisterebbero più, e nemmeno le loro tradizionali funzioni. Al loro posto una nuova generazione di "teste pensanti" (per usare un termine coniato dal comandante zapatista Tacho) sarebbe emersa (o starebbe per emergere) e avrebbe nuove funzioni nei propri compiti intellettuali.
Anche se cercheremo qui di limitarci agli intellettuali di destra, saranno evidenti alcune indicazioni a proposito degli intellettuali in genere e sui loro rapporti con il potere. Dato che questo testo si propone di partecipare e di alimentare la polemica fra intellettuali di destra e di sinistra, una riflessione più profonda su intellettuali e potere e su intellettuali e trasformazione, è rinviata a futuri e improbabili scritti. Bene.
Vale, e tenete a portata di mano il vostro telecomando. Fra un minuto cominciamo...


I. La mondializzazione: pay per view

In bilico sulla cerniera del calendario, il duemila pencola fra il XX e il XXI secolo e fra il secondo e il terzo millennio. Non so quanto sia importante questo computo del tempo, ma mi pare comunque che sia il momento appropriato perché da ogni parte sorga OSSIMORO. Per non andare troppo lontano, si può dire che quest'epoca è il principio della fine o la fine del principio di "qualcosa". "Qualcosa": modo irresponsabile di eludere un problema. Ma già si sa che la nostra specialità non è quella di risolvere i problemi, ma di crearli. Crearli? No, è troppa presunzione: diciamo proporli. Sì, la nostra specialità e proporre dei problemi.
Lassù tutto sembra essere già accaduto in precedenza, come se un vecchio film si ripetesse con altre immagini, altre risorse cinematografiche, persino altri attori, ma con lo stesso soggetto. Come se la "modernità" (o "postmodernità": lascio la distinzione a chi se ne voglia prendere il disturbo) della globalizzazione si vestisse del suo OSSIMORO e ci si presentasse come una modernità arcaica, ammuffita, antica.
Se quello che sto dicendo vi sembra una valutazione meramente soggettiva, addebitatelo al nostro stare in montagna, resistenti e ribelli, ma concedeteci il lusso di leggerci e deciderete poi se si tratta di un nuovo sintomo del "mal di montagna" o se condividete questa sensazione di déjà-vu che fluisce attraverso quell'ipercinema che è il mondo globalizzato.
Il mondo non è quadrato, o almeno questo si insegna a scuola. Però, sul discrimine della cerniera fra due millenni, il mondo non è neppure rotondo. Non so quale sia la figura geometrica adatta a rappresentare la forma attuale del mondo, ma dato che siamo nell'epoca della comunicazione digitale audiovisiva, potremmo tentare di definirla come un gigantesco schermo. Voi potete aggiungere "uno schermo televisivo", anche se io opterei per "uno schermo cinematografico". Non solo perché preferisco il cinema, ma anche (e soprattutto) perché ho l'impressione che ci troviamo davanti a un film, a un vecchio film, modernamente vecchio (per continuare con ossimoro).
E poi è uno di quegli schermi su cui è possibile programmare la proiezione simultanea di varie immagini (la chiamano "Picture In Picture"). Nel caso del mondo globalizzato, si tratta di immagini che si succedono in qualsiasi angolo del pianeta. Ma non sono tutte le immagini. E questo non perché sullo schermo manchi lo spazio, ma perché "qualcuno" ha scelto quelle immagini e non altre. Come dire che stiamo guardando uno schermo con diversi riquadri che ci presentano immagini simultanee da diverse parti del mondo. E' vero, ma non tutto il mondo è lì.
A questo punto uno inevitabilmente si domanda: "chi ha in mano il telecomando di questo schermo audiovisivo? e chi fa la programmazione?". Buone domande, ma qui non troverete le risposte. E non solo perché non le conosciamo con certezza scientifica, ma anche perché non sono l'argomento centrale di questo scritto.
Dato che non possiamo cambiare canale (o sala), vediamo alcuni dei riquadri che ci presenta il megaschermo della globalizzazione.
Andiamo nel continente americano. In questo angolo abbiamo l'immagine della Universidad Nacional Autónoma de México (UNAM) occupata da un gruppo paramilitare governativo: la cosiddetta Policía Federal Preventiva. Non sembra che stiano studiando, questi uomini in uniforme grigia. Più in là, incorniciata dalle montagne del Sudest messicano, una colonna di grigi blindati attraversa una comunità indigena chiapaneca. A fianco, l'immagine grigia ci mostra un poliziotto statunitense che arresta, con scialo di violenza, un giovane in una città che potrebbe essere Seattle o Washington.
Anche nel riquadro europeo prolifera il grigio. In Austria Joerg Haider e il suo fervore filonazista. In Italia, con l'aiuto disinteressato di D'Alema, Silvio Berlusconi si aggiusta il nodo della cravatta. In Spagna Felipe González fa il maquillage alla faccia di José Maria Aznar. Dalla Francia è Le Pen che ci sorride.
Asia, Africa e Oceania, nei loro rispettivi angoli, ci presentano lo stesso grigio che si ripete.
Mmh... Quanti grigi... Mmh... Possiamo protestare... Dopo tutto ci avevano promesso un programma a colori... Alziamo almeno il volume e cerchiamo di sentire di che si tratta.


II. Un oblio memorabile

Proprio come la globalizzazione frammentata, gli intellettuali "ci sono", sono una realtà della società moderna. E il loro "esserci" non si limita all'epoca attuale, risale ai primi passi della società umana. Ma l'archeologia degli intellettuali sfugge alle nostre possibilità di conoscenza; quindi partiamo dal fatto che "ci sono". In ogni caso quello che cerchiamo di scoprire è la forma che acquista adesso il loro "esserci".
"Gli intellettuali, si sa, come categoria sono qualcosa di assai vago. Altra cosa è, invece, definire la funzione 'Reintellettuale'. Essa consiste nel determinare criticamente quel che si considera una soddisfacente approssimazione al proprio concetto di verità; e può svilupparla chiunque, persino un emarginato che rifletta sulla propria condizione e in qualche modo la esprima, mentre può tradirla uno scrittore che reagisca di fronte agli avvenimenti con passione, senza imporsi il filtro della riflessione." (Umberto Eco, "Cinque scritti morali"). Se le cose stanno così, allora il compito degli intellettuali è fondamentalmente analitico e critico. Di fronte a un accadimento sociale (per limitarci a questo universo) l'intellettuale analizza l'evidenza, ciò che è positivo e ciò che è negativo, cercando ciò che è ambiguo, che non è né una cosa né l'altra (anche se lo sembra), e mostra (comunica, rivela, denuncia) ciò che non solo non è evidente, ma addirittura contraddice l'evidenza.
Si deve supporre che nelle società umane ci siano persone che si dedicano professionalmente a questa analisi critica e a comunicarne il risultato (con le parole di Norberto Bobbio: "Gli intellettuali sono tutti quelli per cui trasmettere messaggi è l'occupazione abituale e cosciente [...] e per dirla in un modo che può sembrare brutale, quasi sempre rappresenta anche il modo di guadagnarsi il pane". Atteniamoci a questa definizione dell'intellettuale, del professionista dell'analisi critica e della comunicazione.
Siamo già stati avvertiti del fatto che l'intellettuale non sempre esercita la sua funzione intellettuale. "La funzione intellettuale si esercita sempre in anticipo (su ciò che potrebbe accadere) o in ritardo (su ciò che è accaduto); raramente su ciò che sta succedendo, per motivi di ritmo, perché gli avvenimenti sono sempre più rapidi e incalzanti della riflessione sugli avvenimenti stessi" (Umberto Eco, op. cit.).
Per la sua funzione intellettuale, questo professionista dell'analisi critica e della sua comunicazione sarebbe una specie di coscienza scomoda e impertinente della società (in questa epoca, della società globalizzata) nel suo insieme e nelle sue varie parti. Una persona che non si accontenta di nulla, né delle forze politiche e sociali, né dello stato, del governo, dei mezzi di comunicazione, della cultura, dell'arte, della religione, né dell'eccetera che il lettore voglia aggiungere. Se l'attore sociale dice "Ecco fatto!", l'intellettuale mormora scettico: "Manca questo, c'è troppo di quest'altro."
Diciamo allora che l'intellettuale, nel suo ruolo, è un critico dell'immobilità, un promotore del cambiamento, un progressista. Tuttavia questo comunicatore di idee critiche è inserito in una società polarizzata, combattuta al proprio interno in molti modi e su diversi argomenti, ma fondamentalmente divisa tra coloro che utilizzano il potere per fare in modo che le cose non cambino e coloro che lottano per il cambiamento. "L'intellettuale deve comprendere, per un elementare senso del ridicolo, che non gli viene conferito il ruolo di stregone dello spirito intorno al quale girerà l'essere o non essere della realtà storica, ma che evidentemente possiede dei saperi [...] che lo possono allineare in un senso o nell'altro della realtà storica. Può schierarsi a favore della ricerca di una spiegazione delle ingiustizie presenti nel mondo attuale o in favore della complicità con la paralisi e l'insediamento nel limbo." (Manuel Vázquez Montalbán, "Pamphlet dal pianeta delle scimmie". Feltrinelli, 1995. Pp. 44-45).
Ed è qui che l'intellettuale opta, sceglie tra la sua funzione intellettuale e la funzione che gli propongono gli attori sociali. Compare così la divisione (e la lotta) fra intellettuali progressisti e reazionari. Gli uni e gli altri continuano a lavorare sulla comunicazione delle analisi critiche, ma mentre i progressisti persistono nella critica dell'immobilità, della permanenza, dell'egemonia e dell'omogeneizzazione, i reazionari inalberano la critica del cambiamento, del movimento, della ribellione e della diversità. L'intellettuale reazionario "dimentica" la propria funzione intellettuale, rinuncia alla riflessione critica e ritaglia la propria memoria in modo che non ci sia né passato né futuro: il presente e l'immediato sono le uniche realtà che è possibile cogliere e, pertanto, sono indiscutibili.
Dicendo "intellettuali progressisti e reazionari", ci riferiamo agli intellettuali "di destra e di sinistra". Conviene aggiungere, qui, che l'intellettuale di sinistra esercita la sua funzione intellettuale, cioè l'analisi critica, anche nei confronti della sinistra (sociale, ideologica, di partito); ma nel momento attuale la sua critica si applica fondamentalmente al potere egemone: quello dei signori del denaro e di coloro che li rappresentano nel campo della politica e delle idee.
Lasciamo adesso gli intellettuali progressisti e di sinistra, e passiamo agli intellettuali reazionari, alla destra intellettuale.


III. Il pragmatismo intellettuale

In principio i giganti intellettuali di destra erano progressisti. E parlo dei grandi intellettuali, dei "think tanks" della reazione, non dei nani che sono andati iscrivendosi ai loro club "pensanti". Octavio Paz, ottimo poeta e saggista, il più grande intellettuale di destra degli ultimi anni in Messico, ha dichiarato : "Vengo dal pensiero definito di sinistra. E' stato qualcosa di molto importante nella mia formazione. Non so adesso... l'unica cosa che so è che il mio dialogo - a volte la mia discussione - è con loro (gli intellettuali di sinistra). Non ho molto di cui parlare con gli altri" (Braulio Peralta, "El poeta en su tierra. Dialogos con Octavio Paz".) E casi come quello di Paz vanno ripetendosi sul megaschermo globale. L'intellettuale progressista, in quanto comunicatore di analisi critiche, si trasforma in oggetto e obiettivo per il potere dominante. Oggetto da comprare e obiettivo da distruggere. Per l'una cosa e per l'altra, viene posta in campo una quantità di risorse.
L'intellettuale progressista "nasce" nel bel mezzo di questo clima di seduzione persecutoria. Alcuni resistono e si difendono (quasi sempre in solitudine: la solidarietà di categoria non sembra essere caratteristica degli intellettuali progressisti); ma altri, forse stremati, cercano nel proprio bagaglio di idee e tirano fuori quelle che possano essere al tempo stesso alibi e motivo per legittimare il potere. Il nuovo esige molto; il vecchio è già lì, quindi basta inalberare l'argomento "dell'inevitabile" perché il sistema offra loro una comoda poltrona (di volta in volta sotto forma di borsa di studio, posto, premio, spazio, ecc.) alla corte del Principe ieri tanto criticato.
"L'inevitabile" oggi si chiama: globalizzazione frammentata, pensiero unico (e cioè, "la traduzione in termini ideologici e con pretese universali degli interessi di un insieme di forze economiche, in particolare quelle del capitale internazionale". Ignacio Ramonet, "Un mondo senza direzione. Crisi di fine secolo"), fine della storia, onnipresenza e onnipotenza del denaro, sostituzione della politica con la polizia, il presente come unico futuro possibile, razionalizzazione della diseguaglianza sociale, giustificazione del supersfruttamento degli esseri umani e delle risorse naturali, razzismo, intolleranza, guerra.
In un'epoca segnata da due nuovi paradigmi, comunicazione e mercato, l'intellettuale di destra (ed ex di sinistra) capisce che essere "moderno" significa adempiere alla parola d'ordine: Adattatevi o perdete i vostri spazi di privilegio!
Non deve nemmeno essere originale; l'intellettuale di destra ha già la cava da cui dovrà spaccare le pietre che adorneranno la globalizzazione frammentata: la cava del pensiero unico. L'asepsi non ha molta importanza: il pensiero unico ha le sue principali "fonti" nella Banca Mondiale, nel Fondo Monetario Internazionale, nell'Organizzazione per il Commercio e lo Sviluppo Economico, nell'Organizzazione Mondiale del Commercio, nella Commissione Europea, nella Bundesbank, nella Banca di Francia, "che attraverso i loro finanziamenti arruolano al servizio delle loro idee, in tutto il pianeta, numerosi centri di ricerca, università e fondazioni che, a loro volta, rifiniscono e diffondono la buona novella" (Ignacio Ramonet, op. cit., pag.111).
Con tanta abbondanza di risorse, è facile che fioriscano delle élites che "da anni si impegnano a fondo nel tessere le lodi del 'Ripensiero unico'; che esercitano un vero e proprio ricatto contro ogni riflessione critica in nome della 'modernizzazione', del Rirealismo', della 'responsabilità' e della 'ragione'; che affermano il 'carattere ineluttabile' dell'attuale evolversi delle cose; che predicano la capitolazione intellettuale e consegnano alle tenebre dell'irrazionale tutti quelli che rifiutano di accettare 'lo stato naturale della società e del mercato' " (Ibidem, pag. 114).
Lontani dalla riflessione, dal pensiero critico, gli intellettuali di destra diventano i pragmatisti per eccellenza, snaturano la funzione intellettuale e si trasformano in echi, più o meno fedeli, degli spot pubblicitari che inondano il mega-mercato della globalizzazione frammentata.
Rifunzionalizzati nella globalizzazione frammentata, gli intellettuali di destra modificano il loro essere e acquisiscono nuove virtù (tra le quali ricompare Ossimoro): un'audace vigliaccheria e una profonda banalità. Entrambe brillano nelle loro "analisi" del presente globalizzato e delle sue contraddizioni, nelle loro rivisitazioni del passato storico, nella loro chiaroveggenza. Si possono concedere il lusso dell'audace vigliaccheria e della profonda banalità perché l'egemonia universale quasi assoluta del denaro li protegge con torri di vetro antiproiettile. Per questo la destra intellettuale è particolarmente settaria e ha, per di più, il sostegno di non pochi mezzi di comunicazione e governi. L'ingresso in quelle alte torri intellettuali non è facile: bisogna rinunciare all'immaginazione critica e autocritica, all'intelligenza, all'argomentazione, alla riflessione, e optare per la nuova teologia, la teologia liberista.
Dato che la globalizzazione viene venduta come il migliore dei mondi possibili ma soffre una carenza di esempi concreti dei vantaggi che elargisce all'umanità, si deve ricorrere alla teologia e supplire con dogmi e fede neoliberista alla mancanza di argomenti. Il ruolo dei teologi neoliberisti comprende il denunciare e perseguire gli "eretici", i "messaggeri del male", cioè gli intellettuali di sinistra. E quale modo migliore di combattere i critici che accusarli di "messianismo"?
Di fronte all'intellettuale di sinistra, quello di destra infligge l'etichetta lapidaria di "messianismo stantio". Chi mai può mettere in questione un presente pieno di libertà, in cui chiunque può decidere che cosa compra, che siano articoli di prima necessità, ideologie, proposte politiche o condotte per ogni occasione?
Ma paradosso non perdona. Se c'è del messianismo da qualche parte, è nella destra intellettuale. "Il Grande Circo degli Intellettuali Neoliberisti Chimicamente Puri o degli Ex Marxisti Pentiti o la Trilateral, possono essere messianici quando prefigurano la fatalità di un universo basato sulla verità unica, sul mercato unico e sull'esercito gendarme unico che vigila sulla raffica di flash che accompagna la fotografia finale della Storia, scattata davanti ai migliori paesaggi delle migliori società aperte." (Manuel Vázquez Montalbán. Op. Cit. P. 43).
La fotografia finale. O la scena clou del film della globalizzazione frammentata.


IV. I chiaroveggenti ciechi

Parafrasando Régis Debray ("Croire, Voir, Faire", Ed. Odile Jacob, Parigi 1999), il problema qui non è perché o come la globalizzazione sia irrimediabile, ma perché e come mai tutti, o quasi, siano d'accordo sul fatto che è irrimediabile. Una possibile risposta: "La tecnologia del fare-credere [...]. Il potere dell'informazione... In-formare: dare forma, formattare. Con-formare: dare conformità. Tras-formare: modificare una situazione" (Ibidem, p.193).
Con la globalizzazione dell'economia si globalizza anche la cultura. E l'informazione. Così le grandi imprese della comunicazione "tendono" la loro rete sul mondo intero senza che nessuno glielo impedisca. "Né Ted Turner della CNN, né Rupert Murdoch della News Corporation Limited, né Bill Gates della Microsoft, né Jeffrey Vinik della Fidelity Investments, né Larry Rong della China Trust and International Investments, né Robert Allen della ATT, esattamente come George Soros e decine di altri nuovi padroni del mondo, hanno mai sottoposto i loro progetti al suffragio universale" (Ignacio Ramonet, op. cit., pag. 109)
Nella globalizzazione frammentata le società sono fondamentalmente società mediatiche. I media sono il grande specchio, non di ciò che la società è, ma di ciò che deve mostrare di essere. Piena di tautologie e di ovvietà, la società mediatica è avara di ragioni e argomenti. In essa ripetere è dimostrare.
E quello che viene ripetuto sono le immagini, come quelle grigie che ci mostra ora lo schermo globalizzato. Debray ci dice : "L'equazione dell'era visuale è qualcosa di simile a: visibile = reale = vero. Ecco l'idolatria rivisitata (e sicuramente ridefinita)" (Regis Debray, Op. Cit.). E gli intellettuali di destra hanno imparato bene la lezione. Anzi, ne hanno fatto uno dei dogmi della loro teologia.
Dove è avvenuto il salto che identifica visibile con vero? Trucchi dello schermo globalizzato.
Il mondo intero, meglio ancora, la conoscenza intera adesso è a portata di mano di chiunque abbia una televisione o un computer portatile. Sì, ma non qualunque mondo e non qualunque conoscenza. Debray spiega che il centro di gravità delle informazioni si è spostato dallo scritto al visuale, dalla differita alla diretta, dal segno all'immagine. I vantaggi per gli intellettuali di destra (e gli svantaggi per i progressisti) sono ovvi.
Analizzando il comportamento dell'informazione in Francia durante la Guerra del Golfo Persico, si rivela il potere dei media: all'inizio del conflitto il 70% dei francesi si mostrava ostile, mentre alla fine la stessa percentuale la approvava. Sotto i colpi dei media, l'opinione pubblica francese si è "ribaltata" e il governo ha ottenuto il beneplacito per la partecipazione alla guerra.
Siamo nell'"era visuale". Così le informazioni ci si presentano con l'evidenza dell'immediatezza, pertanto è reale ciò che ci viene mostrato, pertanto è vero ciò che vediamo. Non c'è posto per la riflessione intellettuale critica, al massimo c'è spazio per commentatori che "completino" la lettura dell'immagine. Il visuale non è fatto, in quest'epoca, per essere visto, ma per dare "conoscenza". Il mondo è diventato una mera rappresentazione multimediale - che sopprime il mondo esterno - in grado di essere conosciuta nella misura in cui viene vista. Sì: inizio del terzo millennio, XXI secolo, e la filosofia emergente nel nostro mondo "moderno" è l'idealismo assoluto.
Si possono già trarre alcune conclusioni: il nuovo intellettuale di destra deve svolgere la sua funzione legittimatrice nell'era visuale; optare per ciò che è diretto e immediato; passare dal segno all'immagine e dalla riflessione al commento televisivo. Non deve neppure sforzarsi per legittimare un sistema totalitario, brutale, genocida, razzista, intollerante ed escludente. Il mondo che è oggetto della sua "funzione intellettuale" è quello offerto dai media: una rappresentazione virtuale. Se nell'ipermercato della globalizzazione lo Stato-Nazione si ridefinisce come impresa fra le imprese, i governanti come direttori delle vendite e gli eserciti e le polizie come corpi di vigilanza, allora alla destra intellettuale compete l'area delle Pubbliche Relazioni.
In altre parole, nella globalizzazione gli intellettuali di destra sono "multiuso": becchini dell'analisi critica e della riflessione, giocolieri con le macine da mulino della teologia neoliberista, suggeritori dei governi che dimenticano lo "script", commentatori dell'ovvio, mazzieri di soldati e polizie, giudici gnoseologici che distribuiscono etichette di "vero" o "falso" a seconda delle convenienze, guardaspalle teorici del Principe e mezzibusti della "nuova storia".


V. Il futuro passato

"Bruciare libri ed erigere fortificazioni è normale lavoro dei prìncipi" dice Jorge Luis Borges. E aggiunge che ogni Principe vuole che la storia cominci da lui. Nell'era della globalizzazione frammentata non si bruciano i libri (sebbene si erigano fortificazioni), però li si sostituisce. Così, più che sopprimere la storia precedente alla globalizzazione, il Principe neoliberista istruisce i suoi intellettuali perché la rifacciano in modo tale che il presente sia il culmine dei tempi.
"I Truccatori della storia", così Luis Hernández Navarro ha intitolato un articolo dedicato al dibattito con gli intellettuali di destra in Messico (In La Jornada del 10 aprile 2000). Oltre a stimolare il presente testo (scritto con l'intenzione di dar seguito alle sue premesse), Hernández Navarro ci avverte di una nuova offensiva : la nuova destra intellettuale punta le sue batterie contro le figure rappresentative dell'intellettualità progressista messicana. "Redditiera tardiva della prosperità planetaria del "pensiero unico", rinnegatrice della propria identità, erede a contratto della caduta del muro di Berlino, socia ed emula del circuito culturale conservatore statunitense, questa destra è convinta che la critica culturale conceda credenziali sufficiente a emettere, senza argomentazioni, giudizi sommari contro i suoi avversari in campo politico" (Ibidem).
Le ragioni non-ideologiche di questo attacco sono da ricercare nella contesa per uno spazio di credibilità. In Messico gli intellettuali di sinistra hanno grande influenza nella cultura e nell'accademia. Disturbano, questo è il loro delitto.
No, è piuttosto uno dei loro delitti. Un altro è l'appoggio che questi intellettuali progressisti danno alla lotta zapatista per una pace giusta e dignitosa, per il riconoscimento dei diritti dei popoli indio e per la fine della guerra contro gli indigeni del paese. Questo "peccato" non è veniale. "La ribellione zapatista inaugura una nuova tappa, quella dell'irruzione dei movimenti indigeni come attori dell'opposizione alla globalizzazione neoliberista" (Ivon Le Bot, La Jornada del 6 marzo 2000). Non siamo i migliori né gli unici: ci sono gli indigeni dell'Ecuador e del Cile, le proteste di Seattle e di Washington (e quelle che seguiranno nel tempo, non nell'importanza). Però siamo una delle immagini che distorcono il megaschermo della globalizzazione frammentata e, come fenomeno sociale e storico, richiediamo riflessione e analisi critica.
E la riflessione e l'analisi critica non si trovano nell'"arsenale" della destra intellettuale. Come cantare le glorie del nuovo ordine mondiale (e il suo imporsi in Messico) se un gruppo di indigeni "premoderni" non solo sfidava il potere, ma si conquistava anche la simpatia di un'importante frangia di intellettuali? Di conseguenza il Principe ha dettato i suoi ordini: attaccate gli uni e gli altri, io ci metto l'esercito, voi metteteci le idee. E così la nuova destra intellettuale ha dedicato ironie e calunnie al suo contraltare di sinistra. A noi indigeni ribelli zapatisti ha dedicato... una nuova storia.
E, dato che lo zapatismo aveva un impatto internazionale, la destra intellettuale si è dedicata a questo compito in varie parti del mondo (non solo in Messico). Gli intellettuali di destra non solo imbellettano la storia, ma la rifanno, la riscrivono a convenienza del Principe e secondo la loro funzione intellettuale.
Ma torniamo in Messico. "Nel corso di questo secolo gli intellettuali in Messico hanno svolto diverse funzioni: cortigiani di lusso del potere di turno, decorazione statale, voci dissidenti (che vengono chiamate, per istituzionalizzarle, 'Coscienze Critiche'), interpreti privilegiati della storia e della società, spettacoli di per sé" (Carlos Monsiváis, in Viento del Sur 8, 1996).
L'ultimo grande intellettuale di destra in Messico, Octavio Paz, ha assolto fino alle estreme conseguenze l'incarico affidatogli dal Principe. Non ha lesinato le parole per screditare gli zapatisti e coloro che avevano dimostrato simpatia per la loro causa (attenzione: non per le loro forme di lotta). Una delle migliori dimostrazioni del Paz al servizio del Principe si trova nei suoi scritti e nelle sue dichiarazioni degli inizi del 1994. Qui Octavio Paz definiva, non l'EZLN, ma gli argomenti che avrebbero dovuto approfondire i suoi "soldati" intellettuali: maoismo, messianismo, fondamentalismo e alcuni altri "ismi" che adesso mi sfuggono. Nei confronti degli intellettuali progressisti, Paz non ha lesinato le accuse: loro erano i responsabili del "clima di violenza" che aveva segnato l'anno 1994 (e anche tutti gli altri anni del Messico moderno, ma la destra intellettuale non ha mai brillato per la sua memoria storica), in sostanza, dell'assassinio del candidato ufficiale alla presidenza della Repubblica Colosio. Anni dopo, prima di morire, Paz avrebbe rettificato, segnalando che il sistema era in crisi e che, anche senza la ribellione zapatista, quei fatti sarebbero ugualmente accaduti (v. Braulio Peralta, op. cit.)
Nessuno degli eredi attuali di Paz possiede la sua statura, anche se non manca loro l'ambizione di prendere il suo posto. Non come intellettuale, dato che a questi mancano intelligenza e prestigio, ma per il posto privilegiato che occupava accanto al Principe. Tuttavia, fanno la sua stessa lotta. E continuano nel suo impegno di confezionare allo zapatismo una storia che faccia loro comodo, non solo per attaccarlo, ma soprattutto per eludere un'analisi critica e una riflessione serie e responsabili.
Ma non è solo la storia dello zapatismo e dei popoli indio che stanno riscrivendo gli intellettuali di destra. Si sta rifacendo l'intera storia del Messico, per dimostrare che siamo ormai nel migliore dei Messichi possibili. E così i nani della destra intellettuale rivisitano il passato e ci vendono una nuova immagine di Porfirio Díaz, di Santa Ana, di Calleja, di Cárdenas.
E questa ansia di rimodellare la storia non è esclusiva del Messico. Sullo schermo della globalizzazione ci viene già proposta una nuova versione in cui l'Olocausto nazista contro gli ebrei è una specie di Disneyland selettiva e Adolf Hitler una specie di simpatico Mickey Mouse ariano, e, in tempi più recenti, le guerre del Golfo e del Kossovo sono state "umanitarie". Nel futuro passato che ci prepara la destra intellettuale, la globalizzazione è il deus ex machina che lavora sul mondo per preparare il proprio stesso avvento.
Ma quelle immagini grigie che ci mostra adesso il megaschermo della globalizzazione, di che cosa annunciano l'arrivo?


VI. Il liberale fascista

Io dico che questo film lo abbiamo già visto, e se non ce ne ricordiamo è perché la storia non è un articolo di richiamo nel mercato globalizzato. Quei grigi possono significare qualcosa: la ricomparsa del fascismo.
Paranoia? Umberto Eco, in un testo intitolato "Il fascismo eterno" (op. cit.), fornisce alcune chiavi per capire che il fascismo è sempre latente nella società moderna, e che sebbene appaia poco probabile il ripetersi dei campi di sterminio nazisti, in ogni angolo del pianeta sta in agguato quello che Eco chiama "Ur Fascismo". Dopo averci fatto presente che il fascismo era un totalitarismo "fuzzy", cioè disperso, diffuso in tutta la società, ci propone alcune delle sue caratteristiche: rifiuto dei progressi del sapere, irrazionalismo, la cultura viene sospettata di fomentare atteggiamenti critici, il disaccordo con ciò che è egemone è un tradimento, paura della differenza e razzismo, aumento della frustrazione individuale o sociale, xenofobia, i nemici sono contemporaneamente troppo forti e troppo deboli, la vita è una guerra permanente, elitarismo aristocratico, sacrificio individuale per il bene della causa, maschilismo, populismo qualitativo diffuso attraverso la televisione, "neo lingua" (di lessico povero e sintassi elementare).
Tutte queste caratteristiche si possono ritrovare nei valori difesi e diffusi dai media e dagli intellettuali di destra nell'era visuale, nell'era della globalizzazione frammentata. "Oggi, quasi come ieri, non si sta forse utilizzando la stanchezza democratica, la nausea di fronte al nulla, lo sconcerto davanti al disordine come avallo di una nuova situazione storica eccezionale che richiede un nuovo autoritarismo persuasivo, che unifichi la cittadinanza in clienti e consumatori di un sistema, di un mercato, di una repressione centralizzata?" (M. Vázquez Montalbán. Op. Cit. pp. 70-71).
Guardate il megaschermo: tutti quei grigi sono la risposta al disordine, quello che è necessario per affrontare coloro che si rifiutano di godere del mondo virtuale della globalizzazione e fanno resistenza. E tuttavia sembra che il numero dei resistenti cresca. Uno dei nani messicani che aspirano a occupare la poltrona vuota di Octavio Paz constatava, atterrito, che in un'inchiesta dell'Instituto de Investigaciones Sociales della UNAM (Università Autonoma di Città del Messico), nel 1994, il 29% dei messicani intervistati rispondeva che non si deve ubbidire alle leggi se sono ingiuste. Nel novembre del '99, sulla rivista "Educación 2001" era il 49% che alla domanda "Può il popolo disubbidire alle leggi se gli sembra che siano ingiuste?" rispondeva "". Dopo aver riconosciuto che è necessario risolvere i problemi di crescita economica, di istruzione, occupazione e salute, concludeva: "tutte queste cose si possono raggiungere solo se la società si regge su un terreno di base, quello della sicurezza pubblica e dell'osservanza delle leggi. In Messico quel terreno è pieno di buchi e tende a peggiorare." (Héctor Aguilar Camín, in Esquina, 23 aprile 2000). Il ragionamento è sintomatico: a mancanza di legittimità e consenso, poliziotti.
Il clamore della destra intellettuale che chiede "legge e ordine" non è esclusivo del Messico. In Francia il fascista Le Pen si è preparato per rispondere alla chiamata. In Austria il neonazista Haider è già pronto, proprio come il franchista Aznar nello Stato Spagnolo. In Italia Berlusconi (alias il "Duce Multimediale") e Gianfranco Fini si preparano per quando verrà il momento.
L'Europa affacciata di nuovo al balcone del fascismo? Suona duro... e lontano. Ma ci sono le immagini del megaschermo. Quegli skinheads i cui manganelli spuntano da dietro quell'angolo, sono in Germania, in Inghilterra, in Olanda? "Sono gruppi minoritari e sotto controllo" ci tranquillizza l'audio del megaschermo. A quanto pare il fascismo rinnovato non ha sempre la testa rasata né si adorna il corpo con svastiche tatuate, ma anche così non cessa di essere una destra sinistra.
Se dico "destra sinistra" vi sembrerà che stia giocando con le parole e che stia solo ricorrendo di nuovo a ossimoro, invece tento di richiamare la vostra attenzione su qualcosa. Dopo la caduta del muro di Berlino, lo spettro politico europeo si è, nella sua maggioranza, avventato verso il centro. Questo è evidente nella sinistra europea tradizionale, ma è successo anche ai partiti di destra (vedi: Emiliano Fruta, "La nueva derecha europea", e Hernán R. Moheno, "Más allá de la vieja izquierda y la nueva derecha". In "Urbi et Orbi", Aprile 2000). Con una maschera moderna, la destra fascista comincia a conquistare spazi che ormai sorpassano di molto quelli dei rapporti polizieschi nei media. E' stato possibile perché si sono sforzati di costruirsi una nuova immagine, lontana dal passato violento e autoritario.
Anche perché si sono appropriati della teologia neoliberista con una facilità stupefacente (un motivo ci sarà), e perché nelle loro campagne elettorali hanno molto insistito sui temi della sicurezza pubblica e dell'occupazione (mettendo in guardia contro la "minaccia" degli immigrati). Qualche differenza con le proposte della socialdemocrazia o della sinistra tradizionale?
Dietro la "terza via" europea sta in agguato il fascismo, e anche dietro alla sinistra che non si definisce (in teoria e in pratica) contro il neoliberismo. Invece la destra può rivestirsi di stracci di sinistra. In Messico, nel recente dibattito televisivo fra i sei candidati alla presidenza della Repubblica, il candidato che ha ottenuto il beneplacito della destra intellettuale è stato Gilberto Rincón Gallardo, del Partido Democracia Social, di sinistra apparente. Guardacaso la televisione non ha mostrato che alcuni militanti e candidati del PDS in Chiapas sono capi di vari gruppi paramilitari, responsabili, tra l'altro, del massacro di Acteal.
Che la destra fascista e la nuova destra intellettuale siano pronte per mostrare le proprie "capacità" ai signori del denaro non sorprende. Ciò che sconcerta è che qualche volta sono la socialdemocrazia o la sinistra istituzionale che preparano loro la strada.
Se nello Stato Spagnolo Felipe González (quel politico tanto applaudito dalla destra intellettuale) lavorò per il trionfo del Partido Popular di José Maria Aznar, in Italia l'autostrada lungo la quale la destra si avvia verso il potere si chiama Massimo D'Alema. Prima di dimettersi, D'Alema ha fatto tutto il necessario per far naufragare la sinistra. "D'Alema e i suoi hanno finanziato con il denaro di tutti l'istruzione religiosa e hanno preparato la privatizzazione di quella pubblica, hanno partecipato pienamente all'avventura NATO contro la Yugoslavia e all'occupazione virtuale dell'Albania, hanno privatizzato quel che hanno potuto, hanno attentato alle pensioni, hanno represso gli immigrati, si sono sottomessi a Washington, hanno "riciclato" i corrotti e lo stesso Bettino Craxi, sfilando nella sua residenza d'esilio, in fuga dalla giustizia, per chiedergli aiuto, hanno fatto una legge sui carabinieri ispirata dal comando golpista degli stessi..." (Guillermo Almeyra, "La sinistra della destra", La Jornada, 23 aprile 2000). Risultato ? Buona parte dell'elettorato di sinistra si è astenuta dal voto.
Nella complicata geometria politica europea, la cosiddetta "terza via" non solo è risultata letale per la sinistra, ma è stata anche la rampa di lancio del neofascismo.
Forse sto esagerando, ma "la memoria è una strana facoltà. Quanto più è acuto e isolato è lo stimolo che riceve, più ricorda; quanto più è vasto lo stimolo, minore è l'intensità del ricordo." (John Berger, Op. Cit.) E sospetto che questa valanga di immagini grigie sullo schermo serve a farci ricordare con minore intensità, con pigrizia, con voglia di dimenticare.
E se i libri non mentono, fu il fascismo italiano a risultare attraente per molti leader liberali europei, perché consideravano che stesse portando a termine interessanti riforme sociali e poteva essere un'alternativa alla "minaccia comunista". (Vedi U. Eco, op. cit.)
Nell'agosto del 1997, Fausto Bertinotti scriveva in una lettera all'EZLN: "Si è aperta in Europa una vera crisi di civiltà. Si potrebbero, purtroppo, raccontare centinaia e migliaia di episodi di barbarie quotidiana, di violenza gratuita, di aggressione alle persone, al corpo, di traffico di persone, di corpi, di organi, senza senso alcuno. E sopra tutto questo una spessa cappa di indifferenza, come se la vita avesse perso di senso. Le potrei raccontare cose che accadono nella periferia urbana, realtà e metafora della tragedia umana in cui si è trasformato questo nuovo ciclo dello sviluppo capitalista."
Di fronte a questa vita senza senso, il liberale fascista presenta la sua faccia gentile e, facendo leva sulle proprie virtù, argomenta in favore del ricorso alla violenza legalizzata, istituzionale.
L'orizzonte annuncia tempesta, e la destra intellettuale cerca di tranquillizzarci presentandola come un piovasco senza importanza. Tutto per assicurarsi il pane, il sale... e il posto accanto al Principe. Proteggetelo! Non importa che la sua camicia sia grigia e nel suo caldo seno si incùbi l'uovo del serpente.
"L'uovo del serpente" Se non ricordo male è il titolo di un film di Bergman che descrive l'ambiente in cui ebbe gestazione il fascismo. E noi che cosa facciamo? Restiamo seduti fino alla fine del film? Sì? No? Un momento! Guardate gli altri spettatori! Molti si sono alzati e fanno capannelli! Il mormorio cresce! Alcuno lanciano oggetti contro lo schermo e fischiano! E guardate quegli altri! Invece di rivolgersi allo schermo guardano in alto, come se cercassero quello che proietta il film! Sembra che lo abbiano trovato, perché indicano con insistenza un angolo lassù! Chi sono queste persone e con che diritto interrompono la proiezione? Uno di loro innalza un cartello che recita: "Prendiamo quindi noi, cittadini comuni, la parola e l'iniziativa. Con la stessa veemenza e la stessa forza con cui rivendichiamo i nostri diritti, rivendichiamo anche il dovere dei nostri doveri." (José Saramago. "Discorsi di Stoccolma"). Il dovere dei nostri doveri ? Che qualcuno ci spieghi perché non capiamo nulla! Silenzio! Qualcuno prende la parola...


VII. La scettica speranza

Gli intellettuali progressisti. Quelli della scettica speranza. Il sociologo francese Alain Touraine ne propone una classificazione ("Comment sortir du libéralisme?" Ed. Fayard, Parigi, 1999): La più classica è quella dell'intellettuale denunciante, ove tutta l'attenzione si concentra sulla critica del sistema dominante. Il secondo tipo di intellettuale si identifica con quella lotta o quella forza di opposizione e si trasforma in intellettuale organico. Il terzo crede nell'esistenza, nella coscienza e nell'efficacia degli attori sociali, e al tempo stesso ne conosce i limiti. Il quarto tipo comprende gli utopisti che si identificano con le nuove tendenze culturali, della società o dell'esistenza individuale. Tutti loro (e tutte loro, perché essere intellettuali non è un privilegio maschile) impegnano i propri sforzi nel comprendere criticamente la società, la sua storia e il suo presente, e tentano di decifrare l'incognita del suo futuro.
Non è per niente facile il compito degli intellettuali progressisti. Nella loro funzione intellettuale si sono resi conto di come vanno le cose e, noblesse oblige, devono svelarlo, esibirlo, denunciarlo, comunicarlo. Ma per farlo devono affrontare la teologia neoliberista della destra intellettuale, e dietro di essa ci sono i media, le banche, le grandi imprese, gli stati (o quel che resta di essi), i governi, gli eserciti, le polizie.
E per di più devono farlo nell'era visuale. Qui si trovano francamente in svantaggio, dato che occorre tener conto delle grandi difficoltà che implica l'affrontare il potere dell'immagine con la sola risorsa della parola. Ma il loro scetticismo nei confronti dell'evidente gli ha già permesso di scoprire la trappola. E con lo stesso scetticismo armano le loro analisi critiche per smontare concettualmente la macchina delle bellezze virtuali e delle miserie reali. C'è speranza?
Fare della parola un bisturi e un megafono è già una sfida straordinaria. E non solo perché in quest'epoca la regina è l'immagine. Anche perché il dispotismo dell'era visuale confina la parola nei bordelli e nei negozi di trucchi e scherzi. "Anche così, possiamo solo confessare la nostra confusione e la nostra impotenza, la nostra rabbia e le nostre opinioni, con le parole. Con le parole nominiamo anche le nostre perdite e la nostra resistenza, perché non abbiamo altre risorse, perché gli uomini sono indefettibilmente aperti alla parola e perché poco a poco sono queste a modellare il nostro giudizio. Il nostro giudizio, sempre temuto da coloro che detengono il potere, si modella lentamente, come l'alveo di un fiume, per mezzo di correnti di parole. Ma le parole producono correnti solo quando risultano profondamente credibili." (John Berger. Op. Cit.)
Credibilità. Cosa di cui è carente la destra intellettuale e che, fortunatamente, abbonda fra gli intellettuali progressisti. Le loro parole hanno prodotto, e producono, in molti prima la sorpresa, poi l'inquietudine. Perché questa inquietudine non venga schiacciata dal conformismo prescritto dall'era visuale, occorrono altre cose, che sfuggono al compito dell'intellettuale.
Ma anche quando la parola si è fatta corrente impetuosa, la funzione intellettuale non ha termine. I movimenti sociali di resistenza o di protesta contro il potere (in questo caso contro la globalizzazione e il neoliberismo) devono percorrere ancora un lungo cammino, non diciamo per ottenere i loro fini, ma almeno per consolidarsi come alternativa organizzativa per altri. "Alla fine bisogna riconoscere la particolare responsabilità degli intellettuali. Dipende da loro, più che da ogni altra categoria, che la protesta vada sprecata in denuncia senza prospettive o, al contrario, conduca alla formazione di nuovi attori sociali e, indirettamente, a nuove politiche economiche e sociali". (A. Touraine. Op. Cit.)
L'intellettuale progressista si sta dibattendo continuamente fra Narciso e Prometeo. A volte l'immagine nello specchio lo afferra e comincia il suo inesorabile percorso di mutazione in un nuovo impiegato del mega mercato neoliberista. Ma a volte rompe lo specchio e scopre non solo la realtà che sta dietro al riflesso, ma anche altri che non sono come lui, e che però come lui hanno rotto i loro rispettivi specchi.
La trasformazione di una realtà non è compito di un solo attore, per forte, intelligente, creativo e visionario che sia. Né i soli attori politici e sociali, né i soli intellettuali possono portare a buon fine questa trasformazione. E' un lavoro collettivo. E non solo nell'azione, anche nelle analisi di questa realtà, e nelle decisioni riguardo a direzioni e priorità del movimento di trasformazione.
Raccontano che Michelangelo Buonarroti abbia realizzato il suo David con seri limiti materiali. "Il pezzo di marmo su cui lavorò Michelangelo era già stato lavorato da qualcun altro e aveva già dei fori; il talento dello scultore consistette nel costruire una figura che si adattasse a quei limiti invalicabili e ristretti. Di qui la postura, l'inclinazione dell'opera compiuta." (Pablo Fernández Christlieb. "La afectividad colectiva". Ed. Taurus).
Allo stesso modo, il mondo che vogliamo trasformare è stato lavorato dalla storia è ha molte perforazioni. Dobbiamo trovare il talento necessario per trasformarlo, con quei limiti, e farne una figura semplice e schietta: un mondo nuovo.
Salute, e non dimenticate che un'idea è anche uno scalpello.




Dalle montagne del Sudest messicano.
Subcomandante Insurgente Marcos

P.S. Qualcuno ha un martello a portata di mano?