La generazione dopo


Buona sera. In realtà ero venuto ad ascoltare, ma qui pare sia impossibile solo ascoltare. Io non voglio diventare Presidente del Consiglio, è tardi. Io avevo trent’anni, vent’anni fa. Il mio tempo è finito, le cose che volevo fare ho provato a farle. Avevo trent’anni, molte idee, molta volontà, molta rabbia. Sono uno dei responsabili del mondo che c’è là fuori. Devo ascoltare e basta. Dato che Matteo mi costringe a parlare, vorrei dire l’unica cosa che potrebbe essere utile, forse. Un ripasso di alcuni errori che abbiamo fatto noi, non fateli più voi. O almeno, gli errori che ho capito, perché ne ho commessi sicuramente, io e altri, che non abbiamo capito. Ma alcuni li ho capiti.
Uno è che noi ci siamo sempre mossi partendo dall’idea di lavorare in difesa dei deboli, degli emarginati, di quelli che non avevano voce, di quelli che erano vittime delle ingiustizie. Questo è uno splendido punto di partenza. E ogni volta che lo vedo perso, negli interventi che ho sentito, qualcosa mi dà fastidio. Ma voglio anche dire questo, che noi con l’alibi di questo e in nome di questo, abbiamo soprattutto allestito un sistema di tutele, di privilegi e di difese, di una zona un po’ scura e impenetrabile di questo paese, che sembrerebbe tristemente tenuta insieme soprattutto dalla mediocrità e da una certa vocazione al servilismo.
Non so come è accaduto questo, ma è accaduto. Non cambiate punto di partenza, è giusto, ma non arrivate a questo risultato.
Se cerco di capire dove è che abbiamo sbagliato, forse un punto vagamente mi è più chiaro. Pensavamo, della tutela dei deboli, che potessimo ottenerla solo bloccando in qualche modo il sistema, su una rete di diritti e di tutele ben stabile. Io come altri, oggi sappiamo che la cosa migliore che puoi fare per i più deboli, è concedergli un sistema dinamico, non un sistema bloccato. Non è vero che il rischio colpisce il debole, il rischio è una chance per il debole. Un sistema bloccato, blocca un paese, blocca la crescita, blocca l’entusiasmo, la speranza e le opzioni di rivalsa. Blocca la mobilità sociale, blocca la capacità, è un sistema asfittico. E il ricco patisce dell’asfissia, ma mica tanto. Il povero muore di asfissia.
Un altro errore che abbiamo commesso, non sapevamo pronunciare le parole che erano i nomi delle cose. Faccio un esempio: sapevamo che era meglio che a dirigere le cose fossero i migliori, ma non siamo mai riusciti a pronunciare la parola meritocrazia, perché brutta. Ma questo è il meno, non c’è mai venuta in mente un’altra parola, e quindi quella cosa non l’abbiamo fatta.
Credevamo che la scuola servisse a edificare uguaglianza, e sapevamo anche che dalla scuola dovevano venire fuori quelli che dovevano prendere decisioni in questo paese. Ma c’è una parola che non siamo riusciti a dire: classe dirigente. Non abbiamo trovato un’altra parola e non trovare una parola per una cosa, significa non farla.
Una delle esperienze che io ho raccolto qui spesso e che è mia personale, e che è una delle cose che deprimono questo paese è che quando tu poi ti ritrovi davanti a colui che decide, che fosse all’ufficio delle poste o al teatro lirico (perché devi lavorare) o al partito, tu ti trovi in fondo davanti a qualcuno a cui manca una scuola. Non sai perché è finito lì, ma certamente nessuno si è occupato di fare di lui una classe dirigente.
Un altro errore che abbiamo fatto è che per anni abbiamo mosso per secondi. Sono anni. La mia generazione ha giocato con i neri per tutta la vita; gli altri muovevano, noi rispondevamo. Io ho cercato mezza vita di non morire democristiano, e l’altra metà a cercare di non morire berlusconiano. Ma vi pare che è una vita? E la nostra partita? Quella che aprivamo noi? Quella in cui noi avevamo i bianchi e facevamo la prima mossa?
Non attardatevi ad aspettare che muova prima l’altro. Nel partito, nella vostra scuola, nella vostra famiglia. Muovetevi per primi, perché chi muove per secondo diventa costituzionalmente conservativo. Chi muove per secondo vuole fare la patta. E’ molto difficile che pensi di vincere. La cosa migliore che può fare è stoppare la partita. E noi, la mia generazione, è diventata conservativa. La sinistra in cui io sono cresciuto, oggi è ciò che di più conservativo c’è in questo paese.
Sapete perché muovevamo sempre per secondi? Sapete perché seduti al tavolo dicevamo: noi i neri grazie? Perché avevamo paura di perdere.
Guardate, ve lo dico proprio sinceramente. Io sono cresciuto in una sinistra che ha cercato di vincere a tavolino quasi tutte le partite. Non giocandole: a tavolino. E’ stato un po’ frustrante, ci siamo anche abituati a questa cosa che quando vince l’altro è perché ha barato. Sempre. Ma è possibile? Possibile che tutte le volte che vince bara? Ma oh! Statisticamente è impossibile, ogni tanto vince perché è più bravo sant’Iddio. Ma se è il nero, hai un po’ l’alibi. Avevamo, non so perché, avevamo molta paura di perdere, e quindi di rischiare. Se non c’è rischio, non vinci mai. Noi abbiamo rischiato molto poco. Ci sono alcune battaglie che io ho fatto con altri, io le ho fatte in un contesto che conoscevo meglio, che è il contesto della cultura, dei soldi per la cultura, di come noi decidiamo di gestire le risorse culturali di questo paese. Le risorse economiche applicate alla cultura di questo paese.
Adesso riguardo queste battaglie e ci vedo una lentezza. Ed è per questo che sono qui, perché voi mi sembrate più veloci. Volevo farmi una bella serata finalmente. C’era molta lentezza e se cerco di leggere dentro quella lentezza, non ci veniva mai in mente di saltare un passaggio, o due, addirittura tre o quattro passaggi. Io ho cercato di convincere della gente, sulla necessità di cambiare le cose, che neanche in una vita gliel’avresti cambiata questa testa, e mai mi era venuto in mente che quella gente non era da convincere, era da superare. Per cui, la paura di perdere e l’incapacità di rischiare l’abbiamo avuta già noi. Adesso voi potete andare tranquilli. Non abbiate mai paura di perdere, perché oltretutto porta anche un po’ sfiga. Grazie.

Alessandro Baricco

Nessun commento:

Posta un commento