Metafore & Metamorfosi (novembre)
PROTESTA E REPRESSIONE
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L'ITALIA DEI RUBAVALORI
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TUTTI DENTRO
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LA GIUNTA DEL BRONX
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IL MAGNIFICENTISSIMO
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FORMINCHIONI
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SIGNORE E SIGNORI...
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METAFORE
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THE LEGEND!!
Un macchinone!!
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METAMORFOSI
CHOOSY
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UNO DI MENO
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IN GALERA!!!
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L'ITALIA DEI RUBAVALORI
Vincenzo Maruccio, come c'era da aspettarsi è stato arrestato e associato alle patrie galere, rinchiuso nel carcere di Regina Coeli con l'accusa, dice l'ordinanza del gip, di aver sottoposto i conti del partito a "sistematica spogliazione" (circa un milione di euro in due anni).
Le somme sono state fatte da "costui" confluire su una decina di conti, poi sistematicamente svuotati. Secondo il gip "non ha esitato a violare ogni regola, sia quella sulla circolazione del contati sia quella sulla negoziazione degli assegni".
Nella stessa ordinanza si legge inoltre che "costui", che pure percepiva la ricca indennità di funzione come consigliere regionale, era "persona perennemente pressata dalla necessità di reperire denaro"... Tanto che alla fine non solo ha rubato i soldi pubblici del partito, ma perfino i risparmi di sua nonna!!
Le somme sono state fatte da "costui" confluire su una decina di conti, poi sistematicamente svuotati. Secondo il gip "non ha esitato a violare ogni regola, sia quella sulla circolazione del contati sia quella sulla negoziazione degli assegni".
Nella stessa ordinanza si legge inoltre che "costui", che pure percepiva la ricca indennità di funzione come consigliere regionale, era "persona perennemente pressata dalla necessità di reperire denaro"... Tanto che alla fine non solo ha rubato i soldi pubblici del partito, ma perfino i risparmi di sua nonna!!
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TUTTI DENTRO
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LA GIUNTA DEL BRONX
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IL MAGNIFICENTISSIMO
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FORMINCHIONI
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SIGNORE E SIGNORI...
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METAFORE
Tutti vedono la violenza del fiume in piena, nessuno vede la violenza degli argini che lo costringono.
Proverbio cinese
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Si ritiene che la politica mondiale sia tremendamente complicata e quindi incomprensibile, ma si tratta solo di un poker per il potere, spesso incredibilmente semplice, grossolano, primitivo. L’unica cosa che conferisce ai politici un alone di superiorità è il fatto che essi mantengono segrete le loro mosse e poi ci mettono di fronte ai fatti compiuti. La nostra sorpresa e il nostro stupore ci inducono a pensare che dietro il tutto debbano esserci state manovre estremamente complicate, ma in realtà la cosa si distingue appena dai giochi di guerra dei bambini: si tratta solo di un gioco di banditi, di assassini di massa, di psicopatici. […]. Basta solo leggere le biografie degli uomini di Stato, dei condottieri, dei magnati dell’industria, per rimanere colpiti dalla banalità, dalla scarsità di variazioni nei motivi che li spingono ad agire.
Notizbücher 1971-1980,Peter Weiss
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Un importante studio ci fa comprendere la perdita dell’istinto autoprotettivo… All’inizio degli anni Sessanta alcuni scienziati condussero degli esperimenti su animali per scoprire qualcosa sull’istinto di fuga degli esseri umani. In un esperimento collegarono metà pavimento di una grande gabbia in modo che il cane in essa rinchiuso ricevesse una scossa ogni volta che poggiava una zampa sulla parte destra della gabbia. Ben presto il cane imparò a stare sulla sinistra. Poi fu collegata la parte sinistra della gabbia, e sulla destra non si prendevano scosse. Rapidamente il cane si riorientò e imparò a restare a destra. Poi tutto il pavimento della gabbia venne collegato, sicché, ovunque si mettesse, il cane prima o poi riceveva una scossa. A tutta prima confuso, il cane fu poi in preda al panico. Alla fine rinunciò: se ne restò sdraiato a ricevere le scosse quando arrivavano. Ma l’esperimento non era ancora finito. Venne aperta la porta della gabbia. Gli scienziati si aspettavano che il cane si slanciasse fuori, ma non fu così: pur potendo tranquillamente uscire, il cane restava lì a prendersi qualche scossa. Gli scienziati ne dedussero che quando una creatura viene esposta alla violenza, cerca di adattarsi, sicché quando la violenza cessa o alla creatura è restituita la libertà, il sano istinto di fuggire è fortemente ridotto e la creatura resta dov’è. Questa normalizzazione della violenza.. è quel che gli scienziati chiamarono poi impotenza appresa.
Donne che corrono coi lupi, Clarissa Pinkola Estés
Proverbio cinese
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Si ritiene che la politica mondiale sia tremendamente complicata e quindi incomprensibile, ma si tratta solo di un poker per il potere, spesso incredibilmente semplice, grossolano, primitivo. L’unica cosa che conferisce ai politici un alone di superiorità è il fatto che essi mantengono segrete le loro mosse e poi ci mettono di fronte ai fatti compiuti. La nostra sorpresa e il nostro stupore ci inducono a pensare che dietro il tutto debbano esserci state manovre estremamente complicate, ma in realtà la cosa si distingue appena dai giochi di guerra dei bambini: si tratta solo di un gioco di banditi, di assassini di massa, di psicopatici. […]. Basta solo leggere le biografie degli uomini di Stato, dei condottieri, dei magnati dell’industria, per rimanere colpiti dalla banalità, dalla scarsità di variazioni nei motivi che li spingono ad agire.
Notizbücher 1971-1980,Peter Weiss
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Un importante studio ci fa comprendere la perdita dell’istinto autoprotettivo… All’inizio degli anni Sessanta alcuni scienziati condussero degli esperimenti su animali per scoprire qualcosa sull’istinto di fuga degli esseri umani. In un esperimento collegarono metà pavimento di una grande gabbia in modo che il cane in essa rinchiuso ricevesse una scossa ogni volta che poggiava una zampa sulla parte destra della gabbia. Ben presto il cane imparò a stare sulla sinistra. Poi fu collegata la parte sinistra della gabbia, e sulla destra non si prendevano scosse. Rapidamente il cane si riorientò e imparò a restare a destra. Poi tutto il pavimento della gabbia venne collegato, sicché, ovunque si mettesse, il cane prima o poi riceveva una scossa. A tutta prima confuso, il cane fu poi in preda al panico. Alla fine rinunciò: se ne restò sdraiato a ricevere le scosse quando arrivavano. Ma l’esperimento non era ancora finito. Venne aperta la porta della gabbia. Gli scienziati si aspettavano che il cane si slanciasse fuori, ma non fu così: pur potendo tranquillamente uscire, il cane restava lì a prendersi qualche scossa. Gli scienziati ne dedussero che quando una creatura viene esposta alla violenza, cerca di adattarsi, sicché quando la violenza cessa o alla creatura è restituita la libertà, il sano istinto di fuggire è fortemente ridotto e la creatura resta dov’è. Questa normalizzazione della violenza.. è quel che gli scienziati chiamarono poi impotenza appresa.
Donne che corrono coi lupi, Clarissa Pinkola Estés
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THE LEGEND!!
Un macchinone!!
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METAMORFOSI
John Malkovich e Simone Rugiati
________________________CHOOSY
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UNO DI MENO
Funerali di Pino Rauti, occasione di riunione per fascisti beceri e cretini. Dimostrazione in più che l'unico fascista buono è sempre un fascista morto!
Quel peso che grava su tutti noi, su me, su te, quel furore antico che è in tutti noi, e che si sfoga in spari, in nemici uccisi, è lo stesso che fa sparare i fascisti, che li porta a uccidere con la stessa speranza di purificazione, di riscatto. Ma allora c’è la storia. C’è che noi, nella storia, siamo dalla parte del riscatto, loro dall’altra. Da noi, niente va perduto, tutto servirà se non a liberare noi, a liberare i nostri figli, a costruire un’umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi. L’altra è la parte dei gesti perduti, degli inutili furori, perduti e inutili anche se vincessero, perché non fanno storia, non servono a liberare ma a ripetere e perpetuare quel furore e quell’odio, finché dopo altri venti o cento o mille anni si tornerebbe così, noi e loro, a combattere con lo stesso odio anonimo negli occhi e pur sempre, forse senza saperlo, noi per redimercene, loro per restarne schiavi.
Il Sentiero dei Nidi di Ragno, Italo Calvino
Il Sentiero dei Nidi di Ragno, Italo Calvino
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IN GALERA!!!
Cinderella Man
Jim Braddock non sarà mai considerato tra i più grandi di tutti i tempi eppure la sua carriera è una delle più notevoli nella storia del ring. La sua fantastica salita dall’oscurità e dalla fame alla fortuna e alla fama sta a rappresentare quanto di più sorprendente la storia dello sport possa raccontare.
Nat Fleischer
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Dimenticatevi la favola di Cenerentola... Non sono mica arrivato fin qui per grazia ricevuta.
James Braddock
Nat Fleischer
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Dimenticatevi la favola di Cenerentola... Non sono mica arrivato fin qui per grazia ricevuta.
James Braddock
A Mr. Braddock,
Lei è il degno rappresentante di un'intera nazione. Nei tempi difficili che la nostra nazione si trova ad attraversare, Lei simboleggia cosa significhi essere in grado di risollevarsi dalle difficoltà economiche e riuscire a risorgere guadagnandosi una reputazione con le proprie mani. Siamo tutti orgogliosi del suo incredibile risultato. Lei sarà un modello di comportamento per molti altri che hanno sofferto durante questa nostra Grande Depressione. Congratulazioni per il Suo titolo mondiale e sappia che il Suo successo viene condiviso da milioni di americani che si ispirano a Lei, poiché Lei è veramente uno di loro.
Cordialmente suo,
Franklin D. Roosevelt
Lei è il degno rappresentante di un'intera nazione. Nei tempi difficili che la nostra nazione si trova ad attraversare, Lei simboleggia cosa significhi essere in grado di risollevarsi dalle difficoltà economiche e riuscire a risorgere guadagnandosi una reputazione con le proprie mani. Siamo tutti orgogliosi del suo incredibile risultato. Lei sarà un modello di comportamento per molti altri che hanno sofferto durante questa nostra Grande Depressione. Congratulazioni per il Suo titolo mondiale e sappia che il Suo successo viene condiviso da milioni di americani che si ispirano a Lei, poiché Lei è veramente uno di loro.
Cordialmente suo,
Franklin D. Roosevelt
James J. Braddock nasce a New York il 7 giugno 1905, in un piccolo appartamento sulla 48^ Strada, nel distretto di Hell’s Kitchen, all’epoca il più pericoloso e malfamato della Grande Mela.
I genitori, Joseph Braddock e Mary Elizabeth O’Toole, entrambi di origine irlandese, erano cresciuti a Manchester ma si erano conosciuti e sposati a New York, dove erano approdati a due anni di distanza l’uno dall’altra.
Con cinque figli maschi e due femmine, la famiglia Braddock si trasferisce presto dalla piccola casa di New York alla pacifica contea di Hudson, nel New Jersey.
Dal 1919 al 1923 Jim Braddock compie diversi lavori, ed è in questo periodo che scopre la sua passione per la boxe. All’età di 18 anni, sulle orme del fratello maggiore Joe e sotto la guida dello stesso manager, Barney Doyle, inizia a tirare i suoi primi pugni in una palestra locale, il North Bergen Social and Athletic Club.
Passa quindi alcuni anni ad allenarsi e combatte a livello amatoriale in giro per il New Jersey. Con un'altezza di 187 cm ed un fisico longilineo, Braddock pesava all’epoca soltanto 160 libbre, ma grazie alla potenza del suo gancio destro riusciva già a mietere vittime battendosi contro avversari molto più pesanti: per ben due anni di fila (1925 e 1926) vince infatti il torneo dilettantistico dello Stato del New Jersey sia nei mediomassimi che nei massimi.
Nel 1926 entra nel circuito della boxe professionistica, nella categoria dei pesi medio-massimi. Durante il suo primo anno Braddock domina le competizioni, battendo avversario dopo avversario, sempre nei primi round di ogni match.
Considerato che il suo peso è al limite della categoria, Braddock pensa di passare alla divisione superiore, quella dei pesi massimi. La sua stazza nella nuova categoria non è delle più dominanti, ma il suo destro è capace di compensare in modo efficace.
Il 18 luglio 1929 Jim Braddock sale sul ring dello Yankee Stadium per affrontare Tommy Loughran. Presentatosi all’appuntamento con un peso di 5 libbre inferiore al limite della categoria – circostanza sintomatica, secondo qualche osservatore dell’epoca, di un eccesso di preparazione – Braddock viene neutralizzato dalla mobilità e dall’intelligenza tattica di Loughran. Loughran, inoltre, ha passato molto tempo a studiare la tecnica di Braddock, così per 15 lunghe riprese cerca di tenere a bada il destro di Jim. Questi non riuscirà a portare a segno colpi chiari e potenti, e al termine del match perderà ai punti.
"Jim sembrò poco più di uno scolaretto al cospetto del maestro", commentò qualche anno più tardi lo storico Nat Fleischer nel corso di un’intervista. La supremazia del campione fu così netta che a metà incontro un Braddock sconsolato chiese a Joe Gould: "Come sto andando?". "Non tanto bene", gli rispose il manager. "Devi cercare di fermare i suoi sinistri!". "Perché, ne sto evitando qualcuno?", fu la sua replica ironica.
Contribuirono ad alleviare la cocente delusione una borsa di 17.000 dollari (all’epoca, ciò che un normale impiegato avrebbe guadagnato in vent’anni di lavoro!) e le nozze celebrate il 25 gennaio 1930 con l'amore della sua vita, Mae Theresa Fox, dopo un timido corteggiamento durato oltre tre anni. Un evento, quest’ultimo, che tra invitati (oltre 1.500) e sfarzosi regali alla consorte, costò a Braddock una piccola fortuna, come riportato con grande evidenza il giorno successivo sul New York Times.
Il tutto in un momento estremamente critico per l’economia americana. Il 29 ottobre precedente, infatti, il "martedì nero" di Wall Strett aveva gettato in disgrazia milioni di famiglie portando il tasso di disoccupazione su livelli senza precedenti.
Braddock aveva investito la maggior parte dei propri risparmi in un’impresa di trasporto e in un bar ma ciononostante viene anch’egli travolto dall’ondata di recessione. Come diversi altri milioni di americani perde tutto, mentre l'intero paese si ripiega su se stesso. Tutto sembra perduto, lo spettro della povertà si insinua nella vita delle famiglie americane, il futuro è incerto.
Senza lavoro, Jim lotta per cercare di combattere e di conseguenza portare a casa qualcosa da mangiare, per la propria moglie Mae e per i suoi tre figli, Jay, Howard e Rosemarie. Perde sedici di ventidue incontri, durante i quali si frattura più volte la mano destra. Quando questa non gli permette più di andare avanti, non gli resta che mettere da parte l'orgoglio e appendere al chiodo i guantoni.
James J. Braddock, pugile di talento e di fama, si trova così come tanti altri a fronteggiare il fallimento. Archiviata ingloriosamente la carriera sul ring, prende a lavorare come scaricatore di porto nei docks di Weehawken, cercando con la forza della disperazione di cavarne il sufficiente per sé e per la propria famiglia.
Con il fisico fuori allenamento, la brutta frattura alla mano, una moglie e tre figli da mantenere con gli assegni statali di sussistenza, senza altra possibilità, si mette in coda per chiedere il sussidio statale e trovare così un minimo aiuto per la sua famiglia. Il Governo gli concede un sussidio di disoccupazione mensile di 24 dollari, ma non basta ad evitare che nel piccolo appartamento dove vive con moglie e figli vengano ben presto tagliati luce e gas.
In quel periodo decisamente buio per la vita e la carriera di Braddock, quando la fortuna sembra ormai averlo abbandonato, nel 1934 il suo vecchio manager, Joe Gould, gli offre l'opportunità di combattare nuovamente. Un giovane peso massimo della Georgia, John "Corn" Griffin, si era messo in grande evidenza come sparring partner del campione del mondo Primo Carnera (qualche incauto giornalista parlava già del "nuovo Jack Dempsey"), tant’è che il matchmaker del Garden, Jimmy "Boy Bandit" Johnston, aveva deciso di offrirgli un incontro preliminare sulle 5 riprese nel sottoclou della sfida tra lo stesso Carnera e Max Baer.
Alla ricerca di un avversario non troppo impegnativo, Johnston contatta Joe Gould chiedendogli la disponibilità di Braddock per una misera borsa di 250 dollari. Malgrado le esitazioni del proprio manager, Jim accetta senza fare troppi problemi la sfida di tornare sul ring contro un avversario feroce e temibile. "In fondo cosa abbiamo da perdere?", dice alla moglie Mae prima di incamminarsi tra lo scetticismo generale per il Garden Bowl di Long Island.
Il match tra Griffin e Braddock fa da apertura ad un altro incontro-evento eccezionale: la sfida per il titolo mondiale dei pesi massimi tra il campione in carica Primo Carnera e lo sfidante Max Baer.
Le cose sembrarono mettersi subito male quando, nel corso del 2° round, Griffin gli infligge il secondo atterramento della carriera (il primo era arrivato nel maggio 1927 per mano di tale Jack Stone). Rialzatosi, per nulla scoraggiato, Jim riesce dapprima a controllare l’aggressività dell’avversario e successivamente a piazzare un destro d’incontro che chiude il match tra lo stupore del pubblico presente e, in particolare, del manager di Griffin, Charley Harvey, che alla vigilia aveva dichiarato di volersi servire del "vecchio scaricatore di porto" per lanciare la carriera del proprio pupillo. Contro tutti i pronostici, probabilmente anche i suoi, James J. Braddock aveva vinto per knock-out alla terza ripresa! Dopo l’inaspettato successo, un Braddock raggiante si rivolge al manager Gould e gli sussurra: "Questo è quello che riesco a fare mangiando un hamburger. Dammi un paio di bistecche e vedrai cosa ti combino!".
Poi arriva una nuova opportunità per Braddock: combattere contro John Henry Lewis. Il Garden aveva messo sotto contratto il pugile di colore di Phoenix, già considerato dagli esperti come il futuro campione del mondo dei mediomassimi. Quando Jimmy Johnston decide di lanciarlo sulla piazza newyorkese, pensa ancora una volta a Braddock, ritenendolo troppo lento e vecchio per poter costituire una minaccia, tanto più che era già stato sconfitto da Lewis due anni prima a San Francisco.
Ed invece, la sera del 16 novembre 1934, nel sottoclou del mondiale dei mediomassimi tra Maxie Rosembloom e Bob Olin, Braddock ancora una volta ribalta il pronostico e coglie un altro sorprendente successo ai punti. La storia di Jim appassiona le masse e tutti lo identificano come un eroe.
Nel marzo del 1935 viene quindi l’ora di incrociare i guantoni con il temibile californiano Art Lasky, che all’epoca era in procinto di battersi con il neo-campione del mondo dei pesi massimi Max Baer.
All'angolo di Jim sembra esserci tutta la nazione. Alla fine, malgrado una differenza di peso di 15 libbre e le proibitive quote dei bookmaker (Lasky era favorito 5 a 1), Braddock smentisce ancora una volta le previsioni della vigilia vincendo ai punti in 15 riprese, addirittura "facilmente" secondo il New York Times.
Il match gli frutta una borsa di 4.100 dollari, la più alta da lui percepita fino a quel momento, ma soprattutto la qualifica di co-sfidante per il titolo mondiale dei pesi massimi.
Questa straordinaria vittoria, infatti, fa di Braddock il miglior contendente sulla piazza per sfidare il campione mondiale dei pesi massimi Max Baer, che in quella famosa serata che vedeva il ritorno di Braddock sul ring, aveva battuto Primo Carnera.
Viene finalmente dato l'annuncio che Baer avrebbe difeso la cintura contro Braddock il 13 giugno 1935 sul ring di Long Island. "E poi dicono che io sarei un clown. Non sarei stato in grado di escogitare un match così divertente neppure se ci avessi pensato per cinque notti di fila", è l'ironico commento di Baer dopo aver appreso la notizia.
Il giustiziere di Carnera, noto per il destro esplosivo ma anche per il carattere istrionico e lo stile di vita dissoluto, pronostica un facile successo prima del limite, una previsione condivisa sia dagli addetti ai lavori che dai bookmaker, che arrivarono ad offrire la vittoria di Braddock dieci volte la posta.
Max Baer aveva la reputazione di un grande e feroce picchiatore, con un pugno fatto di dinamite, probabilmente il più forte colpitore di tutti i tempi.
Pochi giorni prima dell'incontro, il sindaco di North Bergen, Julius Reich, nel tentativo di denigrare un rivale politico che in passato era stato socio d’affari di Braddock, dichiara pubblicamente che lo "sfidante al titolo mondiale dei pesi massimi" aveva percepito un sussidio di disoccupazione, arrecando non poco imbarazzo allo stesso Braddock ed alla moglie Mae, che fino ad allora erano riusciti a tenere la notizia riservata. Quando i giornalisti si accalcano come avvoltoi nel suo campo di allenamento per chiedergli conferme, Jim non fa una piega: "Certo che ho ricevuto il sussidio: avevo bisogno di soldi e non potevo far morire di fame i miei figli... Ma dopo il match con Lasky ho restituito tutti i 240 dollari che mi sono stati dati". Ed è vero! La storia del sussidio ricevuto e poi restituito diviene di dominio pubblico e procura a Jim moltissime simpatie, tant’è che il suo training camp viene invaso da migliaia di telegrammi di stima e di incoraggiamento. In fondo, quanti milioni di cittadini americani si erano trovati nelle sue stesse condizioni?
La sera del 13 giugno 1935, al Madison Square Garden di New York, Braddock sale sul ring per affrontare Baer. Jim ha studiato lo stile di Baer proprio come Tommy Loughran aveva fatto contro di lui anni prima. L'assioma era semplice: Jim poteva battere Baer se fosse riuscito a stare lontano dal destro micidiale di Baer.
Braddock realizza un capolavoro tattico, girando alla larga dal destro dell'avversario, boxando magistralmente in difesa ed affidandosi all’uso metodico del jab sinistro. Alla fine l’arbitro Jack McAvoy ed i giudici George Kelly e Charley Lynch gli assegnarono la vittoria all’unanimità. "Mi sono ricordato di come Loughran aveva utilizzato il jab per battere sia me che Baer, così ho cercato di imitarlo", dichiarò raggiante al New York Times. "A nessuno piace perdere", ammise sportivamente Baer in un’intervista radiofonica. "Però sono contento per Braddock e per la sua famiglia. Del resto, lui ha tre figli da sfamare, io non ho figli...almeno così mi risulta".
"La favola è diventata realtà. James J. Braddock, l’Uomo Cenerentola della boxe, è il nuovo campione del mondo dei pesi massimi", scrisse Damon Runyon dopo il match, coniando così il celebre soprannome, ispirato da una popolare commedia teatrale dell’epoca, che avrebbe accompagnato il neo-campione per il resto dei suoi giorni. "Dimenticatevi della fiaba di Cenerentola", replicò stizzito Braddock. "Non sono mica arrivato fin qui per grazia ricevuta!".
Nella storia dello sport la sua vicenda si trasforma in leggenda e per l'intero paese – che lotta per uscire dai tempi cupi della depressione economica – Braddock diventa un simbolo e un esempio di rinascita.
La sua vita divenne oggetto di un libro celebrativo, di un fumetto a puntate e di uno sceneggiato radiofonico.
Per i due anni successivi Jim combatte una serie di incontri-esibizione. Poi, il 22 giugno 1937, deve difendere il titolo contro Joe Louis, "la bomba nera". Jim perde il titolo, combattendo tuttavia forse il miglior match della sua carriera.
Sul ring, davanti a 60.000 spettatori, Jim inizia l’incontro in maniera più che incoraggiante, riuscendo perfino ad atterrare Louis nel 1° round con un corto gancio destro. Il "Brown Bomber" si rialza subito, più sorpreso che stordito, e dopo un paio di riprese inizia a macinare boxe, infliggendo a Braddock una severa punizione che gli costa un dente e 23 punti di sutura al volto.
L’inevitabile epilogo arriva dopo 1 minuto e 10 secondi dell’8° round quando Louis mette a segno un destro terrificante che chiude il match, dando inizio al più lungo regno che la storia della boxe ricordi. Quella rimase la prima ed unica sconfitta prima del limite subita da Braddock in carriera!
"Che cuore che aveva, non ho mai visto un pugile più coraggioso", fu il commento del grande Whitey Bimstein, che quella sera era all'angolo di Braddock insieme a Ray Arcel ed al suo trainer di lunga data Doc Robb.
Ma Jim Braddock vuole ritirarsi a testa alta! Sette mesi dopo, in un Madison Square Garden esaurito in ogni ordine di posto, Jim decide di tornare sul ring per affrontare il gallese Tommy Farr.
Al cospetto di un pugile di nove anni più giovane, capace solo cinque mesi prima di disputare 15 tiratissime riprese contro Louis, Braddock riesce ancora una volta a smentire i pronostici vincendo ai punti in 10 riprese! Una prova che gli valse il plauso del suo amico Joe Di Maggio (presente a bordo ring) e dello stesso Louis. Fu quella la sua ultima apparizione ufficiale sul ring.
L'esempio di speranza per milioni di americani, appese definitivamente i guantoni al chiodo, ritirandosi dalla boxe agonistica con un record di 45 vittorie (27 prima del limite), 23 sconfitte, 11 no decision, 5 pareggi e 2 no contest.
Dopo il ritiro, nel 1942, Jim e il suo manager Joe Gould si arruolano nell'esercito statunitense. Prima che la Seconda guerra mondiale finisca Jim presta servizio sull'isola di Saipan.
Congedatosi con i gradi di capitano, avviò un’impresa commerciale che forniva pezzi di ricambio per navi fino a quando, nel 1963, tornò a lavorare alla guida di una gru nei moli del New Jersey dove aveva faticato da giovane nel periodo buio della depressione. Una prospettiva che non lo turbò più di tanto: "Sono una persona fortunata. Mi sento ancora forte ed in piena salute. Sono in grado di lavorare per un giorno intero. E poi a me piace lavorare, mi è sempre piaciuto, non cerco la commiserazione di nessuno".
Jim con l'adorata moglie Mae e i loro tre figli si trasferiscono in una bella casa a North Bergen, nel New Jersey, dove vivranno per il resto del tempo.
Il 29 novembre 1974, James J. Braddock muore nel suo letto. Mae Braddock continua a vivere nella casa di North Bergen per molti anni, prima di trasferirsi a Whiting (sempre nel New Jersey), dove muore nel 1985.
Il nome di Jim Braddock è entrato nella Ring Boxing Hall of Fame nel 1964, nella Hudson County Hall of Fame nel 1991 e nell' International Boxing Hall of Fame nel 2001.
I figli e i nipoti di Jim Braddock oggi mantengono vivo il suo ricordo, la sua immagine e la sua straordinaria storia. La storia di un uomo di talento costretto a lavori saltuari, colpito da una serie impressionante di infortuni, che è riuscito nonostante tutto a non perdere mai la fiducia e a iniziare una lenta risalita, coraggiosa prima ed eroica poi, fino alla vittoria del titolo mondiale contro il carnefice Max Baer (l'uomo che stese Carnera 11 volte nello stesso incontro!) venendo poi sconfitto solo dal grande Joe Louis...
Una storia raccontata sugli schermi in modo elegante e fedele da un film che ha fatto conoscere al mondo il ritratto dell'eroe James J. Braddock, cenerentola della boxe, uomo tranquillo e onesto che tale resta anche dopo la tragedia sua e del Paese, un uomo per bene capace di risollevarsi dalla polvere e raggiungere la cima grazie a grandi sacrifici e nobili motivazioni. Un esempio per tutti noi.
I genitori, Joseph Braddock e Mary Elizabeth O’Toole, entrambi di origine irlandese, erano cresciuti a Manchester ma si erano conosciuti e sposati a New York, dove erano approdati a due anni di distanza l’uno dall’altra.
Con cinque figli maschi e due femmine, la famiglia Braddock si trasferisce presto dalla piccola casa di New York alla pacifica contea di Hudson, nel New Jersey.
Dal 1919 al 1923 Jim Braddock compie diversi lavori, ed è in questo periodo che scopre la sua passione per la boxe. All’età di 18 anni, sulle orme del fratello maggiore Joe e sotto la guida dello stesso manager, Barney Doyle, inizia a tirare i suoi primi pugni in una palestra locale, il North Bergen Social and Athletic Club.
Passa quindi alcuni anni ad allenarsi e combatte a livello amatoriale in giro per il New Jersey. Con un'altezza di 187 cm ed un fisico longilineo, Braddock pesava all’epoca soltanto 160 libbre, ma grazie alla potenza del suo gancio destro riusciva già a mietere vittime battendosi contro avversari molto più pesanti: per ben due anni di fila (1925 e 1926) vince infatti il torneo dilettantistico dello Stato del New Jersey sia nei mediomassimi che nei massimi.
Nel 1926 entra nel circuito della boxe professionistica, nella categoria dei pesi medio-massimi. Durante il suo primo anno Braddock domina le competizioni, battendo avversario dopo avversario, sempre nei primi round di ogni match.
Considerato che il suo peso è al limite della categoria, Braddock pensa di passare alla divisione superiore, quella dei pesi massimi. La sua stazza nella nuova categoria non è delle più dominanti, ma il suo destro è capace di compensare in modo efficace.
Il 18 luglio 1929 Jim Braddock sale sul ring dello Yankee Stadium per affrontare Tommy Loughran. Presentatosi all’appuntamento con un peso di 5 libbre inferiore al limite della categoria – circostanza sintomatica, secondo qualche osservatore dell’epoca, di un eccesso di preparazione – Braddock viene neutralizzato dalla mobilità e dall’intelligenza tattica di Loughran. Loughran, inoltre, ha passato molto tempo a studiare la tecnica di Braddock, così per 15 lunghe riprese cerca di tenere a bada il destro di Jim. Questi non riuscirà a portare a segno colpi chiari e potenti, e al termine del match perderà ai punti.
"Jim sembrò poco più di uno scolaretto al cospetto del maestro", commentò qualche anno più tardi lo storico Nat Fleischer nel corso di un’intervista. La supremazia del campione fu così netta che a metà incontro un Braddock sconsolato chiese a Joe Gould: "Come sto andando?". "Non tanto bene", gli rispose il manager. "Devi cercare di fermare i suoi sinistri!". "Perché, ne sto evitando qualcuno?", fu la sua replica ironica.
Contribuirono ad alleviare la cocente delusione una borsa di 17.000 dollari (all’epoca, ciò che un normale impiegato avrebbe guadagnato in vent’anni di lavoro!) e le nozze celebrate il 25 gennaio 1930 con l'amore della sua vita, Mae Theresa Fox, dopo un timido corteggiamento durato oltre tre anni. Un evento, quest’ultimo, che tra invitati (oltre 1.500) e sfarzosi regali alla consorte, costò a Braddock una piccola fortuna, come riportato con grande evidenza il giorno successivo sul New York Times.
Il tutto in un momento estremamente critico per l’economia americana. Il 29 ottobre precedente, infatti, il "martedì nero" di Wall Strett aveva gettato in disgrazia milioni di famiglie portando il tasso di disoccupazione su livelli senza precedenti.
Braddock aveva investito la maggior parte dei propri risparmi in un’impresa di trasporto e in un bar ma ciononostante viene anch’egli travolto dall’ondata di recessione. Come diversi altri milioni di americani perde tutto, mentre l'intero paese si ripiega su se stesso. Tutto sembra perduto, lo spettro della povertà si insinua nella vita delle famiglie americane, il futuro è incerto.
Senza lavoro, Jim lotta per cercare di combattere e di conseguenza portare a casa qualcosa da mangiare, per la propria moglie Mae e per i suoi tre figli, Jay, Howard e Rosemarie. Perde sedici di ventidue incontri, durante i quali si frattura più volte la mano destra. Quando questa non gli permette più di andare avanti, non gli resta che mettere da parte l'orgoglio e appendere al chiodo i guantoni.
James J. Braddock, pugile di talento e di fama, si trova così come tanti altri a fronteggiare il fallimento. Archiviata ingloriosamente la carriera sul ring, prende a lavorare come scaricatore di porto nei docks di Weehawken, cercando con la forza della disperazione di cavarne il sufficiente per sé e per la propria famiglia.
Con il fisico fuori allenamento, la brutta frattura alla mano, una moglie e tre figli da mantenere con gli assegni statali di sussistenza, senza altra possibilità, si mette in coda per chiedere il sussidio statale e trovare così un minimo aiuto per la sua famiglia. Il Governo gli concede un sussidio di disoccupazione mensile di 24 dollari, ma non basta ad evitare che nel piccolo appartamento dove vive con moglie e figli vengano ben presto tagliati luce e gas.
In quel periodo decisamente buio per la vita e la carriera di Braddock, quando la fortuna sembra ormai averlo abbandonato, nel 1934 il suo vecchio manager, Joe Gould, gli offre l'opportunità di combattare nuovamente. Un giovane peso massimo della Georgia, John "Corn" Griffin, si era messo in grande evidenza come sparring partner del campione del mondo Primo Carnera (qualche incauto giornalista parlava già del "nuovo Jack Dempsey"), tant’è che il matchmaker del Garden, Jimmy "Boy Bandit" Johnston, aveva deciso di offrirgli un incontro preliminare sulle 5 riprese nel sottoclou della sfida tra lo stesso Carnera e Max Baer.
Alla ricerca di un avversario non troppo impegnativo, Johnston contatta Joe Gould chiedendogli la disponibilità di Braddock per una misera borsa di 250 dollari. Malgrado le esitazioni del proprio manager, Jim accetta senza fare troppi problemi la sfida di tornare sul ring contro un avversario feroce e temibile. "In fondo cosa abbiamo da perdere?", dice alla moglie Mae prima di incamminarsi tra lo scetticismo generale per il Garden Bowl di Long Island.
Il match tra Griffin e Braddock fa da apertura ad un altro incontro-evento eccezionale: la sfida per il titolo mondiale dei pesi massimi tra il campione in carica Primo Carnera e lo sfidante Max Baer.
Le cose sembrarono mettersi subito male quando, nel corso del 2° round, Griffin gli infligge il secondo atterramento della carriera (il primo era arrivato nel maggio 1927 per mano di tale Jack Stone). Rialzatosi, per nulla scoraggiato, Jim riesce dapprima a controllare l’aggressività dell’avversario e successivamente a piazzare un destro d’incontro che chiude il match tra lo stupore del pubblico presente e, in particolare, del manager di Griffin, Charley Harvey, che alla vigilia aveva dichiarato di volersi servire del "vecchio scaricatore di porto" per lanciare la carriera del proprio pupillo. Contro tutti i pronostici, probabilmente anche i suoi, James J. Braddock aveva vinto per knock-out alla terza ripresa! Dopo l’inaspettato successo, un Braddock raggiante si rivolge al manager Gould e gli sussurra: "Questo è quello che riesco a fare mangiando un hamburger. Dammi un paio di bistecche e vedrai cosa ti combino!".
Poi arriva una nuova opportunità per Braddock: combattere contro John Henry Lewis. Il Garden aveva messo sotto contratto il pugile di colore di Phoenix, già considerato dagli esperti come il futuro campione del mondo dei mediomassimi. Quando Jimmy Johnston decide di lanciarlo sulla piazza newyorkese, pensa ancora una volta a Braddock, ritenendolo troppo lento e vecchio per poter costituire una minaccia, tanto più che era già stato sconfitto da Lewis due anni prima a San Francisco.
Ed invece, la sera del 16 novembre 1934, nel sottoclou del mondiale dei mediomassimi tra Maxie Rosembloom e Bob Olin, Braddock ancora una volta ribalta il pronostico e coglie un altro sorprendente successo ai punti. La storia di Jim appassiona le masse e tutti lo identificano come un eroe.
Nel marzo del 1935 viene quindi l’ora di incrociare i guantoni con il temibile californiano Art Lasky, che all’epoca era in procinto di battersi con il neo-campione del mondo dei pesi massimi Max Baer.
All'angolo di Jim sembra esserci tutta la nazione. Alla fine, malgrado una differenza di peso di 15 libbre e le proibitive quote dei bookmaker (Lasky era favorito 5 a 1), Braddock smentisce ancora una volta le previsioni della vigilia vincendo ai punti in 15 riprese, addirittura "facilmente" secondo il New York Times.
Il match gli frutta una borsa di 4.100 dollari, la più alta da lui percepita fino a quel momento, ma soprattutto la qualifica di co-sfidante per il titolo mondiale dei pesi massimi.
Questa straordinaria vittoria, infatti, fa di Braddock il miglior contendente sulla piazza per sfidare il campione mondiale dei pesi massimi Max Baer, che in quella famosa serata che vedeva il ritorno di Braddock sul ring, aveva battuto Primo Carnera.
Viene finalmente dato l'annuncio che Baer avrebbe difeso la cintura contro Braddock il 13 giugno 1935 sul ring di Long Island. "E poi dicono che io sarei un clown. Non sarei stato in grado di escogitare un match così divertente neppure se ci avessi pensato per cinque notti di fila", è l'ironico commento di Baer dopo aver appreso la notizia.
Il giustiziere di Carnera, noto per il destro esplosivo ma anche per il carattere istrionico e lo stile di vita dissoluto, pronostica un facile successo prima del limite, una previsione condivisa sia dagli addetti ai lavori che dai bookmaker, che arrivarono ad offrire la vittoria di Braddock dieci volte la posta.
Max Baer aveva la reputazione di un grande e feroce picchiatore, con un pugno fatto di dinamite, probabilmente il più forte colpitore di tutti i tempi.
Pochi giorni prima dell'incontro, il sindaco di North Bergen, Julius Reich, nel tentativo di denigrare un rivale politico che in passato era stato socio d’affari di Braddock, dichiara pubblicamente che lo "sfidante al titolo mondiale dei pesi massimi" aveva percepito un sussidio di disoccupazione, arrecando non poco imbarazzo allo stesso Braddock ed alla moglie Mae, che fino ad allora erano riusciti a tenere la notizia riservata. Quando i giornalisti si accalcano come avvoltoi nel suo campo di allenamento per chiedergli conferme, Jim non fa una piega: "Certo che ho ricevuto il sussidio: avevo bisogno di soldi e non potevo far morire di fame i miei figli... Ma dopo il match con Lasky ho restituito tutti i 240 dollari che mi sono stati dati". Ed è vero! La storia del sussidio ricevuto e poi restituito diviene di dominio pubblico e procura a Jim moltissime simpatie, tant’è che il suo training camp viene invaso da migliaia di telegrammi di stima e di incoraggiamento. In fondo, quanti milioni di cittadini americani si erano trovati nelle sue stesse condizioni?
La sera del 13 giugno 1935, al Madison Square Garden di New York, Braddock sale sul ring per affrontare Baer. Jim ha studiato lo stile di Baer proprio come Tommy Loughran aveva fatto contro di lui anni prima. L'assioma era semplice: Jim poteva battere Baer se fosse riuscito a stare lontano dal destro micidiale di Baer.
Braddock realizza un capolavoro tattico, girando alla larga dal destro dell'avversario, boxando magistralmente in difesa ed affidandosi all’uso metodico del jab sinistro. Alla fine l’arbitro Jack McAvoy ed i giudici George Kelly e Charley Lynch gli assegnarono la vittoria all’unanimità. "Mi sono ricordato di come Loughran aveva utilizzato il jab per battere sia me che Baer, così ho cercato di imitarlo", dichiarò raggiante al New York Times. "A nessuno piace perdere", ammise sportivamente Baer in un’intervista radiofonica. "Però sono contento per Braddock e per la sua famiglia. Del resto, lui ha tre figli da sfamare, io non ho figli...almeno così mi risulta".
"La favola è diventata realtà. James J. Braddock, l’Uomo Cenerentola della boxe, è il nuovo campione del mondo dei pesi massimi", scrisse Damon Runyon dopo il match, coniando così il celebre soprannome, ispirato da una popolare commedia teatrale dell’epoca, che avrebbe accompagnato il neo-campione per il resto dei suoi giorni. "Dimenticatevi della fiaba di Cenerentola", replicò stizzito Braddock. "Non sono mica arrivato fin qui per grazia ricevuta!".
Nella storia dello sport la sua vicenda si trasforma in leggenda e per l'intero paese – che lotta per uscire dai tempi cupi della depressione economica – Braddock diventa un simbolo e un esempio di rinascita.
La sua vita divenne oggetto di un libro celebrativo, di un fumetto a puntate e di uno sceneggiato radiofonico.
Per i due anni successivi Jim combatte una serie di incontri-esibizione. Poi, il 22 giugno 1937, deve difendere il titolo contro Joe Louis, "la bomba nera". Jim perde il titolo, combattendo tuttavia forse il miglior match della sua carriera.
Sul ring, davanti a 60.000 spettatori, Jim inizia l’incontro in maniera più che incoraggiante, riuscendo perfino ad atterrare Louis nel 1° round con un corto gancio destro. Il "Brown Bomber" si rialza subito, più sorpreso che stordito, e dopo un paio di riprese inizia a macinare boxe, infliggendo a Braddock una severa punizione che gli costa un dente e 23 punti di sutura al volto.
L’inevitabile epilogo arriva dopo 1 minuto e 10 secondi dell’8° round quando Louis mette a segno un destro terrificante che chiude il match, dando inizio al più lungo regno che la storia della boxe ricordi. Quella rimase la prima ed unica sconfitta prima del limite subita da Braddock in carriera!
"Che cuore che aveva, non ho mai visto un pugile più coraggioso", fu il commento del grande Whitey Bimstein, che quella sera era all'angolo di Braddock insieme a Ray Arcel ed al suo trainer di lunga data Doc Robb.
Ma Jim Braddock vuole ritirarsi a testa alta! Sette mesi dopo, in un Madison Square Garden esaurito in ogni ordine di posto, Jim decide di tornare sul ring per affrontare il gallese Tommy Farr.
Al cospetto di un pugile di nove anni più giovane, capace solo cinque mesi prima di disputare 15 tiratissime riprese contro Louis, Braddock riesce ancora una volta a smentire i pronostici vincendo ai punti in 10 riprese! Una prova che gli valse il plauso del suo amico Joe Di Maggio (presente a bordo ring) e dello stesso Louis. Fu quella la sua ultima apparizione ufficiale sul ring.
L'esempio di speranza per milioni di americani, appese definitivamente i guantoni al chiodo, ritirandosi dalla boxe agonistica con un record di 45 vittorie (27 prima del limite), 23 sconfitte, 11 no decision, 5 pareggi e 2 no contest.
Dopo il ritiro, nel 1942, Jim e il suo manager Joe Gould si arruolano nell'esercito statunitense. Prima che la Seconda guerra mondiale finisca Jim presta servizio sull'isola di Saipan.
Congedatosi con i gradi di capitano, avviò un’impresa commerciale che forniva pezzi di ricambio per navi fino a quando, nel 1963, tornò a lavorare alla guida di una gru nei moli del New Jersey dove aveva faticato da giovane nel periodo buio della depressione. Una prospettiva che non lo turbò più di tanto: "Sono una persona fortunata. Mi sento ancora forte ed in piena salute. Sono in grado di lavorare per un giorno intero. E poi a me piace lavorare, mi è sempre piaciuto, non cerco la commiserazione di nessuno".
Jim con l'adorata moglie Mae e i loro tre figli si trasferiscono in una bella casa a North Bergen, nel New Jersey, dove vivranno per il resto del tempo.
Il 29 novembre 1974, James J. Braddock muore nel suo letto. Mae Braddock continua a vivere nella casa di North Bergen per molti anni, prima di trasferirsi a Whiting (sempre nel New Jersey), dove muore nel 1985.
Il nome di Jim Braddock è entrato nella Ring Boxing Hall of Fame nel 1964, nella Hudson County Hall of Fame nel 1991 e nell' International Boxing Hall of Fame nel 2001.
I figli e i nipoti di Jim Braddock oggi mantengono vivo il suo ricordo, la sua immagine e la sua straordinaria storia. La storia di un uomo di talento costretto a lavori saltuari, colpito da una serie impressionante di infortuni, che è riuscito nonostante tutto a non perdere mai la fiducia e a iniziare una lenta risalita, coraggiosa prima ed eroica poi, fino alla vittoria del titolo mondiale contro il carnefice Max Baer (l'uomo che stese Carnera 11 volte nello stesso incontro!) venendo poi sconfitto solo dal grande Joe Louis...
Una storia raccontata sugli schermi in modo elegante e fedele da un film che ha fatto conoscere al mondo il ritratto dell'eroe James J. Braddock, cenerentola della boxe, uomo tranquillo e onesto che tale resta anche dopo la tragedia sua e del Paese, un uomo per bene capace di risollevarsi dalla polvere e raggiungere la cima grazie a grandi sacrifici e nobili motivazioni. Un esempio per tutti noi.
O sangue em Chiapas
Todo o sangue tem a sua história. Corre sem descanso no interior labiríntico do corpo e não perde o rumo nem o sentido, enrubesce de súbito o rosto e empalidece-o fugindo dele, irrompe bruscamente de um rasgão da pele, torna-se capa protectora de uma ferida, encharca campos de batalha e lugares de tortura, transforma-se em rio sobre o asfalto de uma estrada. O sangue nos guia, o sangue nos levanta, com o sangue dormimos e com o sangue despertamos, com o sangue nos perdemos e salvamos, com o sangue vivemos, com o sangue morremos. Torna-se leite e alimenta as crianças ao colo das mães, torna-se lágrima e chora sobre os assassinados, torna-se revolta e levanta um punho fechado e uma arma. O sangue serve-se dos olhos para ver, entender e julgar, serve-se das mãos para o trabalho e para o afago, serve-se dos pés para ir aonde o dever o mandou.
O sangue é homem e é mulher, cobre-se de luto ou de festa, põe uma flor na cintura, e quando toma nomes que não são os seus é porque esses nomes pertencem a todos os que são do mesmo sangue. O sangue sabe muito, o sangue sabe o sangue que tem. Às vezes o sangue monta a cavalo e fuma cachimbo, às vezes olha com olhos secos porque a dor lhos secou, às vezes sorri com uma boca de longe e um sorriso de perto, às vezes esconde a cara mas deixa que a alma se mostre, às vezes implora a misericórdia de um muro mudo e cego, às vezes é um menino sangrando que vai levado em braços, às vezes desenha figuras vigilantes nas paredes das casas, às vezes é o olhar fixo dessas figuras, às vezes atam-no, às vezes desata-se, às vezes faz-se gigante para subir às muralhas, às vezes ferve, às vezes acalma-se, às vezes é como um incêndio que tudo abrasa, às vezes é uma luz quase suave, um suspiro, um sonho, um descansar a cabeça no ombro do sangue que está ao lado.
Há sangues que até quando estão frios queimam. Esses sangues são eternos como a esperança.
______________________O sangue é homem e é mulher, cobre-se de luto ou de festa, põe uma flor na cintura, e quando toma nomes que não são os seus é porque esses nomes pertencem a todos os que são do mesmo sangue. O sangue sabe muito, o sangue sabe o sangue que tem. Às vezes o sangue monta a cavalo e fuma cachimbo, às vezes olha com olhos secos porque a dor lhos secou, às vezes sorri com uma boca de longe e um sorriso de perto, às vezes esconde a cara mas deixa que a alma se mostre, às vezes implora a misericórdia de um muro mudo e cego, às vezes é um menino sangrando que vai levado em braços, às vezes desenha figuras vigilantes nas paredes das casas, às vezes é o olhar fixo dessas figuras, às vezes atam-no, às vezes desata-se, às vezes faz-se gigante para subir às muralhas, às vezes ferve, às vezes acalma-se, às vezes é como um incêndio que tudo abrasa, às vezes é uma luz quase suave, um suspiro, um sonho, um descansar a cabeça no ombro do sangue que está ao lado.
Há sangues que até quando estão frios queimam. Esses sangues são eternos como a esperança.
Toda sangre tiene su historia. Corre sin descanso en el interior laberíntico del cuerpo y no pierde el rumbo ni el sentido, enrojece de súbito el rostro y lo empalidece huyendo de él, irrumpe bruscamente de un rasguño de la piel, se convierte en capa protectora de una herida, encharca campos de batalla y lugares de tortura, se transforma en río sobre el asfalto de una carretera. La sangre nos guía, la sangre nos levanta, con la sangre dormimos y con la sangre despertamos, con la sangre nos perdemos y salvamos, con la sangre vivemos, con la sangre morimos. Se convierte en leche y alimenta a los niños en brazos de las madres, se convierte en lágrima y llora sobre los asesinados, se convierte en revuelta y levanta un puño cerrado y un arma. La sangre se sirve de los ojos para ver, entender y juzgar, se sirve de las manos para el trabajo y para la caricia, se sirve de los pies para ir hasta donde el deber la manda.
La sangre es hombre y es mujer, se cubre de luto o de fiesta, pone una flor en la cintura, y cuando toma nombres que no son los suyos es porque esos nombres pertenecen a todos los que son de la misma sangre. La sangre sabe mucho, la sangre sabe la sangre que tiene. A veces la sangre monta a caballo y fuma en pipa, a veces mira con ojos secos porque el dolor los ha secado, a veces sonríe con una boca de lejos y una sonrisa de cerca, a veces esconde la cara pero deja que el alma se muestre, a veces implora la misericordia de un muro mudo y ciego, a veces es un niño sangrando que va llevado en brazos, a veces diseña figuras vigilantes en las paredes de las casas, a veces es la mirada fija de esas figuras, a veces la atan, a veces se desata, a veces se hace gigante para subir las murallas, a veces hierve, a veces se calma, a veces es como un incendio que todo lo abrasa, a veces es una luz casi suave, un suspiro, un sueño, un descansar la cabeza en el hombro de la sangre que está al lado.
Hay sangres que hasta cuando están frías queman. Esas sangres son eternas como la esperanza.
José Saramago
La sangre es hombre y es mujer, se cubre de luto o de fiesta, pone una flor en la cintura, y cuando toma nombres que no son los suyos es porque esos nombres pertenecen a todos los que son de la misma sangre. La sangre sabe mucho, la sangre sabe la sangre que tiene. A veces la sangre monta a caballo y fuma en pipa, a veces mira con ojos secos porque el dolor los ha secado, a veces sonríe con una boca de lejos y una sonrisa de cerca, a veces esconde la cara pero deja que el alma se muestre, a veces implora la misericordia de un muro mudo y ciego, a veces es un niño sangrando que va llevado en brazos, a veces diseña figuras vigilantes en las paredes de las casas, a veces es la mirada fija de esas figuras, a veces la atan, a veces se desata, a veces se hace gigante para subir las murallas, a veces hierve, a veces se calma, a veces es como un incendio que todo lo abrasa, a veces es una luz casi suave, un suspiro, un sueño, un descansar la cabeza en el hombro de la sangre que está al lado.
Hay sangres que hasta cuando están frías queman. Esas sangres son eternas como la esperanza.
José Saramago
Ogni sangue ha la sua storia. Scorre senza sosta nei labirintici meandri del corpo e non perde la rotta né il significato, rende rosso all’improvviso il viso e sfuggendogli lo impallidisce, irrompe bruscamente da un taglio nella pelle, si trasforma in protezione per una ferita, inonda campi di battaglia e luoghi di tortura, si converte in fiume sull’asfalto di una strada. Il sangue ci guida, il sangue ci innalza, con il sangue dormiamo e con il sangue ci svegliamo, con il sangue ci perdiamo e salviamo, con il sangue viviamo, con il sangue moriamo. Diventa latte e alimenta i bambini al collo della madri, diventa lacrima e piange su gli ammazzati, diventa rivoluzione e alza un pugno chiuso e un’arma. Il sangue si serve degli occhi per vedere, capire e giudicare, si serve delle mani per il lavoro e per le carezze, si serve dei piedi per andar dove il dovere comanda.
Il sangue è uomo e donna, si copre di lutto o di festa, pone un fiore alla cintura, e quando prende nomi che non sono i suoi è perché questi nomi appartengono a tutti quelli con lo stesso sangue. Il sangue sa molto, il sangue sa il sangue che ha. A volte il sangue monta a cavallo e fuma la pipa, a volte guarda con occhi secchi perché il dolore li ha seccati, a volte sorride con una bocca da lontano e un sorriso da vicino, a volte nasconde la faccia ma lascia che l’anima si mostri, a volte implora la misericordia di un muro muto e cieco, a volte è un bambino insanguinato che cammina con le braccia alzate, a volte disegna figure vigili sulle pareti delle case, a volte è lo sguardo fisso di queste figure, a volte lo legano, a volte si libera, a volte si fa gigante per superare le muraglie, a volte ferve, a volte si calma, a volte è come un incendio che spazza via tutto, a volte una luce quasi soave, un sospiro, un sogno, un riposo della testa nella forza del sangue che ci sta accanto.
C’è del sangue che fino a quando è freddo brucia. Questo sangue è eterno come la speranza.
José Saramago
Il sangue è uomo e donna, si copre di lutto o di festa, pone un fiore alla cintura, e quando prende nomi che non sono i suoi è perché questi nomi appartengono a tutti quelli con lo stesso sangue. Il sangue sa molto, il sangue sa il sangue che ha. A volte il sangue monta a cavallo e fuma la pipa, a volte guarda con occhi secchi perché il dolore li ha seccati, a volte sorride con una bocca da lontano e un sorriso da vicino, a volte nasconde la faccia ma lascia che l’anima si mostri, a volte implora la misericordia di un muro muto e cieco, a volte è un bambino insanguinato che cammina con le braccia alzate, a volte disegna figure vigili sulle pareti delle case, a volte è lo sguardo fisso di queste figure, a volte lo legano, a volte si libera, a volte si fa gigante per superare le muraglie, a volte ferve, a volte si calma, a volte è come un incendio che spazza via tutto, a volte una luce quasi soave, un sospiro, un sogno, un riposo della testa nella forza del sangue che ci sta accanto.
C’è del sangue che fino a quando è freddo brucia. Questo sangue è eterno come la speranza.
José Saramago
La entrevista insólita
• ¿Carismático? No, sólo vine a llenar un vacío.
• Todo militar, y me incluyo, es un hombre absurdo e irracional.
• La violencia es siempre inútil.
• Fox debe convencerse: gobernar no es "rating".
• Todo militar, y me incluyo, es un hombre absurdo e irracional.
• La violencia es siempre inútil.
• Fox debe convencerse: gobernar no es "rating".
A las 11 de la noche del viernes 9 de marzo, sonó el teléfono de la Dirección de Proceso.
— ¿Rafael? Habla Marcos...
— ¿Cómo estás Marcos? ¿Qué pasó? Nos tienes en la incertidumbre, que es peor que el desengaño. ¿Estás puesto?
— Claro, adelante. ¿Para cuándo sería?
— Ahora mismo, si puedes...
— ¿A qué hora?
— Pues ya... A la una, lo que tardamos en llegar allá, con la parafernalia de Televisa...
— Orale, hasta con Televisa y todo...
— No te hagas... Te lo avisé en la carta...
— Sí, hombre, no te enojes...
En punto de las dos de la mañana del sábado 10 daba comienzo la entrevista de Julio Scherer García al subcomandante Marcos, en el patio del convento anexo a la Parroquia de la Asunción de María, donde pernoctaba la caravana del EZLN, en la delegación de Milpa Alta. Culminaba así un esfuerzo de varias semanas para poner frente a frente al fundador de Proceso y al líder rebelde, en una entrevista que tuvo como insólito complemento la presencia de las cámaras de Televisa, empresa que comparte con este semanario la difusión de este acontecimiento periodístico.
La entrevista duró exactamente una hora y quince minutos de la fría noche de luna llena, en el patio del convento, con las arcadas y la fuente como escenario, y con el comandante Tacho como un silencioso espectador lejano.
Después, un Marcos relajado conversó, bromeó, dio autógrafos y continuó respondiendo preguntas al aire.
Alguien le preguntó:
— ¿Cuál de tus pesadillas te produce tus peores insomnios?
— Soñar que escucho el programa ese... ¿Cómo se llama?... Fox contigo, Fox... no sé qué.
A continuación, la versión íntegra de la entrevista de Marcos con Proceso.
— ¿Qué se hace, qué se dice, a quién se reza cuando se ha llegado a donde usted ha llegado, tan aborrecido, tan temido, tan admirado, tan único?
— Nosotros pensamos que se ha construido una imagen de Marcos que no corresponde con la realidad, que tiene que ver con el mundo que se maneja en los medios de comunicación, que ha dejado de tener interlocución con la gente y ha decidido tener interlocución con la clase política. En ese sentido, los medios ya no están preocupados por lo que pida la mayoría de la gente, sino que, de una u otra forma, se retroalimentan porque en el proceso de transición el gran elector se ha convertido en el medio de comunicación. Su capacidad de influencia en la toma de decisiones, su capacidad de decidir el rumbo del país, incluso marcando ritmos en la transición, ha dado a los medios de comunicación un poder sobre el que no han reflexionado, y, en ese sentido, lo que tocan los medios de comunicación lo transforman...
— Marcos, usted no puede negarse como un ser carismático...
— Sí, sí puedo, cómo no.
— No debe, porque lo es. No me imagino a usted mostrando cosas a sabiendas de que no son ciertas. Usted no se puede dejar de reconocer como lo que es, un ser que atrae a muchísima gente.
— Hay un vacío. Es que hay un vacío en la sociedad. Hay un vacío que se tiende a llenar de una u otra forma. El vacío que llenó Fox, en el campo del área política, no significa que sea lo que aparentemente pudiera o debiera ser. Lo mismo ocurre con Marcos.
— ¿Con quién se compara usted como carismático? En el Ejército Zapatista, ¿quién lo alcanza?
— ¿Dentro del Ejército Zapatista?
— ¿Quién se le compara, de la gente que usted conoce?
— Al interior, nadie, pero eso no tiene que ver con...
— ¿Hacia el exterior?
— ¿Hacia el exterior? Nadie tampoco.
— O sea, usted es carismático...
— No, lo que pasa es que la imagen de Marcos responde a unas expectativas románticas, idealistas. O sea, es el hombre blanco, en el medio indígena, más cercano a lo que el inconsciente colectivo tiene como referencia: Robin Hood, Juan Charrasqueado, etcétera.
— ¿Qué es lo que lo hace carismático?
— Se provocan muchos equívocos en la supuesta capacidad literaria, en la supuesta capacidad de timing político, aunque más bien se está respondiendo a las necesidades internas y, en el desbarajuste de la clase política nacional, se entra como si estuviéramos meditando cada paso que diéramos. Créeme que somos mucho más mediocres de lo que la gente piensa; sobre todo, no tan brillantes como la clase política nos concibe.
— Usted no puede decir eso...
— Sí puedo.
— A usted no le queda la mediocridad, ni como expresión verbal...
— No... No estoy negando lo que soy; estoy tratando de explicar las circunstancias en las que nos ubicamos, y de una u otra forma se borra o se pierde la perspectiva real de lo que es el personaje. La mayoría de nuestros pronunciamientos son muy discutibles, y no se discuten precisamente porque están en un entorno social que implica otras cosas. Discutir las posiciones de Marcos significa discutir la legitimidad de una causa, y eso siempre es problemático, sobre todo en el nivel intelectual. De una u otra forma eso nos ha hecho, porque créeme que nos hace bien el debate de ideas; de hecho, nosotros hemos sido receptivos a ese debate de ideas, y lamentamos de una u otra forma que no se haya podido dar.
— Veo al país peligrosamente dividido: en un extremo, las sombras vivas de Juan Rulfo; en el otro, los cuerpos bien nutridos del poder y el dinero. Con los matices que se quiera, me parece que usted y el presidente Fox son hoy la imagen de esos mundos. Si esto es así, ¿cabe entre ustedes el entendimiento, la confianza que da vida a la comprensión?
— Sí. Nosotros pensamos que sí. Nosotros nos estamos planteando la posibilidad de un diálogo. Toda esta movilización tiene por objetivo convencer a ese hombre —quien no tiene nada qué perder y sí mucho qué ganar— de que se siente frente a nosotros con la decisión seria de resolver el conflicto. Esto no es fácil, porque en torno de la figura de Fox están jugando muchas fuerzas, entre ellas la suya propia: un ser que ha optado por construirse una imagen en torno de un manejo mercadotécnico, que le dio resultados, buenos resultados en un período electoral, pero que no se puede extender al período de gobierno. Entonces necesitamos convencerlo de que el problema no es de rating, sino de gobernabilidad, y eso es lo que estamos ofreciendo: no una revuelta social, sino el reconocimiento de ese sector social (los indígenas), de sus capacidades y, finalmente, de su diferencia...
MUNDOS OPUESTOS
— Aparte de que los dos ejercen una forma de poder, una forma de influencia, ¿hay algo en lo que se parezcan?
— En que contamos malos chistes los dos, en todo caso... Pero fuera de ello, no sólo representamos dos mundos diametralmente opuestos, sino que el paso siguiente también es diametralmente opuesto. Nosotros estamos marcando el mundo que camina hacia el reconocimiento de las diferencias, y él está caminando al mundo que va a hegemonizar y homogeneizar no sólo al país, sino al planeta entero. En este caso se trata de que el concepto de igualdad sea referente al estatuto de mercado: somos iguales en cuanto que tenemos poder adquisitivo. Nosotros estamos marcando las diferencias precisamente en el lado contrario: la diferencia cultural, la diferencia de la relación con la tierra, de la relación entre las personas, de la relación con la historia, de relación con el otro. Planteamos un mundo antitético al que representa Vicente Fox, y vamos más allá, porque nosotros decimos que en el mundo que proponemos también cabe Vicente Fox, mientras que en el mundo que él propone nos resulta muy claro que los zapatistas no caben.
— ¿Cómo cabría Fox en el mundo de ustedes, siendo un líder, en la dimensión que se quiera, de la libre empresa?
— Aprendiendo. Pensamos que la libre empresa puede aprender a relacionarse con nosotros. No creemos que todos los empresarios sean ladrones, pues algunos han construido su riqueza por medios honrados y honestos. El hecho de que algunos de los personajes que saltan a la vida pública tengan un lastre de criminalidad, no quiere decir que eso sea parejo para todos. Nosotros no estamos planteando el regreso del comunismo primitivo, ni de una igualdad a rajatabla que finalmente esconde una diferenciación entre la élite política — de izquierda o de derecha — y la gran mayoría empobrecida. Pretendemos que cada sector social tenga las posibilidades de levantarse como tal; no queremos limosnas, sino la oportunidad de construirnos, dentro de este país, como una realidad diferente. En el Tephé la población está llevando adelante un proyecto turístico. Todas las ganancias se reparten en colectivo, y la empresa comunitaria puede competir en el mercado, por lo que se refiere a eficacia, con cualesquiera de los grandes hoteleros. Entonces, ¿por qué no reconocerle a ese grupo su capacidad empresarial dándole las ventajas y posibilidades de mercado que se ofrecen a los grandes hoteleros? Eso es lo que está en juego: las posibilidades de construir otro tipo de relaciones, incluso dentro del mercado, que no representen el capitalismo salvaje, donde se devoran unos a otros. Los poderosos de este país no ven que sus días están contados, y no a causa de una revolución social, sino por el avance del gran poder financiero. En México, los Garza Sada, los Slim, los Zambrano, los Romo y otros de su tamaño no tienen el futuro asegurado, debido no a que el pueblo se levante e instaure una república socialista, sino a que sus fortunas están en la mira del gran capital de otras latitudes.
Entonces nosotros decimos: En el gobierno ya no se están tomando las decisiones fundamentales. Así, ¿para qué nos preocupamos sobre si el gobierno es de izquierda, de derecha o de centro, si es que existe el centro? Consideramos que en México debe reconstruirse el concepto de nación, y reconstruir no es volver al pasado, no es volver a Juárez ni al liberalismo frente al nuevo conservadurismo. No es esa historia la que tenemos que rescatar. Debemos reconstruir la nación sobre bases diferentes, y estas bases consisten en el reconocimiento de la diferencia.
Cuando manifestamos que el nuevo siglo y el nuevo milenio son el milenio y el siglo de las diferencias, marcamos una ruptura fundamental respecto de lo que fue el siglo XX: la gran lucha de las hegemonías. La última que recordamos, entre el campo socialista y el capitalista, ocasionó dos guerras mundiales. Si esto no se reconoce, el mundo terminará siendo un archipiélago en guerra continua hacia afuera y hacia adentro de los territorios. Así no será posible vivir.
EL PROYECTO PUEBLA-PANAMÁ
No obstante, el mercado sí puede acostumbrarse a esa realidad; es posible que opere en un escenario de desestabilización o de guerra civil y cotice en la bolsa de valores. A la gente no le dicen esto y, por el contrario, le ofrecen un mundo idílico donde supuestamente no hay fronteras, para comprar o vender... Pero las fronteras no sólo permanecerán, sino que se van a multiplicar, como ocurrirá con el proyecto Puebla-Panamá, que será un gran crimen: Estados Unidos correrá la frontera hasta aquí, hasta Milpa Alta, donde estamos ahorita. El resto del país, para abajo, será Centroamérica, y OK, que tengan sus guerrillas, sus gobiernos dictatoriales, sus caciques, como Yucatán y Tabasco — Chiapas, afortunadamente, ha quedado en un break en ese sentido —, que siguen la lógica de las repúblicas bananeras. En el resto del territorio mexicano, de aquí hacia el norte, empieza a operarse un brutal proceso de eliminación de grandes sectores sociales. Además, todos los indígenas que queden en este lado tendrán que desaparecer porque no los aceptará este modelo neoliberal, pues no pagan. Nadie va a invertir en ellos.
— ¿Rafael? Habla Marcos...
— ¿Cómo estás Marcos? ¿Qué pasó? Nos tienes en la incertidumbre, que es peor que el desengaño. ¿Estás puesto?
— Claro, adelante. ¿Para cuándo sería?
— Ahora mismo, si puedes...
— ¿A qué hora?
— Pues ya... A la una, lo que tardamos en llegar allá, con la parafernalia de Televisa...
— Orale, hasta con Televisa y todo...
— No te hagas... Te lo avisé en la carta...
— Sí, hombre, no te enojes...
En punto de las dos de la mañana del sábado 10 daba comienzo la entrevista de Julio Scherer García al subcomandante Marcos, en el patio del convento anexo a la Parroquia de la Asunción de María, donde pernoctaba la caravana del EZLN, en la delegación de Milpa Alta. Culminaba así un esfuerzo de varias semanas para poner frente a frente al fundador de Proceso y al líder rebelde, en una entrevista que tuvo como insólito complemento la presencia de las cámaras de Televisa, empresa que comparte con este semanario la difusión de este acontecimiento periodístico.
La entrevista duró exactamente una hora y quince minutos de la fría noche de luna llena, en el patio del convento, con las arcadas y la fuente como escenario, y con el comandante Tacho como un silencioso espectador lejano.
Después, un Marcos relajado conversó, bromeó, dio autógrafos y continuó respondiendo preguntas al aire.
Alguien le preguntó:
— ¿Cuál de tus pesadillas te produce tus peores insomnios?
— Soñar que escucho el programa ese... ¿Cómo se llama?... Fox contigo, Fox... no sé qué.
A continuación, la versión íntegra de la entrevista de Marcos con Proceso.
— ¿Qué se hace, qué se dice, a quién se reza cuando se ha llegado a donde usted ha llegado, tan aborrecido, tan temido, tan admirado, tan único?
— Nosotros pensamos que se ha construido una imagen de Marcos que no corresponde con la realidad, que tiene que ver con el mundo que se maneja en los medios de comunicación, que ha dejado de tener interlocución con la gente y ha decidido tener interlocución con la clase política. En ese sentido, los medios ya no están preocupados por lo que pida la mayoría de la gente, sino que, de una u otra forma, se retroalimentan porque en el proceso de transición el gran elector se ha convertido en el medio de comunicación. Su capacidad de influencia en la toma de decisiones, su capacidad de decidir el rumbo del país, incluso marcando ritmos en la transición, ha dado a los medios de comunicación un poder sobre el que no han reflexionado, y, en ese sentido, lo que tocan los medios de comunicación lo transforman...
— Marcos, usted no puede negarse como un ser carismático...
— Sí, sí puedo, cómo no.
— No debe, porque lo es. No me imagino a usted mostrando cosas a sabiendas de que no son ciertas. Usted no se puede dejar de reconocer como lo que es, un ser que atrae a muchísima gente.
— Hay un vacío. Es que hay un vacío en la sociedad. Hay un vacío que se tiende a llenar de una u otra forma. El vacío que llenó Fox, en el campo del área política, no significa que sea lo que aparentemente pudiera o debiera ser. Lo mismo ocurre con Marcos.
— ¿Con quién se compara usted como carismático? En el Ejército Zapatista, ¿quién lo alcanza?
— ¿Dentro del Ejército Zapatista?
— ¿Quién se le compara, de la gente que usted conoce?
— Al interior, nadie, pero eso no tiene que ver con...
— ¿Hacia el exterior?
— ¿Hacia el exterior? Nadie tampoco.
— O sea, usted es carismático...
— No, lo que pasa es que la imagen de Marcos responde a unas expectativas románticas, idealistas. O sea, es el hombre blanco, en el medio indígena, más cercano a lo que el inconsciente colectivo tiene como referencia: Robin Hood, Juan Charrasqueado, etcétera.
— ¿Qué es lo que lo hace carismático?
— Se provocan muchos equívocos en la supuesta capacidad literaria, en la supuesta capacidad de timing político, aunque más bien se está respondiendo a las necesidades internas y, en el desbarajuste de la clase política nacional, se entra como si estuviéramos meditando cada paso que diéramos. Créeme que somos mucho más mediocres de lo que la gente piensa; sobre todo, no tan brillantes como la clase política nos concibe.
— Usted no puede decir eso...
— Sí puedo.
— A usted no le queda la mediocridad, ni como expresión verbal...
— No... No estoy negando lo que soy; estoy tratando de explicar las circunstancias en las que nos ubicamos, y de una u otra forma se borra o se pierde la perspectiva real de lo que es el personaje. La mayoría de nuestros pronunciamientos son muy discutibles, y no se discuten precisamente porque están en un entorno social que implica otras cosas. Discutir las posiciones de Marcos significa discutir la legitimidad de una causa, y eso siempre es problemático, sobre todo en el nivel intelectual. De una u otra forma eso nos ha hecho, porque créeme que nos hace bien el debate de ideas; de hecho, nosotros hemos sido receptivos a ese debate de ideas, y lamentamos de una u otra forma que no se haya podido dar.
— Veo al país peligrosamente dividido: en un extremo, las sombras vivas de Juan Rulfo; en el otro, los cuerpos bien nutridos del poder y el dinero. Con los matices que se quiera, me parece que usted y el presidente Fox son hoy la imagen de esos mundos. Si esto es así, ¿cabe entre ustedes el entendimiento, la confianza que da vida a la comprensión?
— Sí. Nosotros pensamos que sí. Nosotros nos estamos planteando la posibilidad de un diálogo. Toda esta movilización tiene por objetivo convencer a ese hombre —quien no tiene nada qué perder y sí mucho qué ganar— de que se siente frente a nosotros con la decisión seria de resolver el conflicto. Esto no es fácil, porque en torno de la figura de Fox están jugando muchas fuerzas, entre ellas la suya propia: un ser que ha optado por construirse una imagen en torno de un manejo mercadotécnico, que le dio resultados, buenos resultados en un período electoral, pero que no se puede extender al período de gobierno. Entonces necesitamos convencerlo de que el problema no es de rating, sino de gobernabilidad, y eso es lo que estamos ofreciendo: no una revuelta social, sino el reconocimiento de ese sector social (los indígenas), de sus capacidades y, finalmente, de su diferencia...
MUNDOS OPUESTOS
— Aparte de que los dos ejercen una forma de poder, una forma de influencia, ¿hay algo en lo que se parezcan?
— En que contamos malos chistes los dos, en todo caso... Pero fuera de ello, no sólo representamos dos mundos diametralmente opuestos, sino que el paso siguiente también es diametralmente opuesto. Nosotros estamos marcando el mundo que camina hacia el reconocimiento de las diferencias, y él está caminando al mundo que va a hegemonizar y homogeneizar no sólo al país, sino al planeta entero. En este caso se trata de que el concepto de igualdad sea referente al estatuto de mercado: somos iguales en cuanto que tenemos poder adquisitivo. Nosotros estamos marcando las diferencias precisamente en el lado contrario: la diferencia cultural, la diferencia de la relación con la tierra, de la relación entre las personas, de la relación con la historia, de relación con el otro. Planteamos un mundo antitético al que representa Vicente Fox, y vamos más allá, porque nosotros decimos que en el mundo que proponemos también cabe Vicente Fox, mientras que en el mundo que él propone nos resulta muy claro que los zapatistas no caben.
— ¿Cómo cabría Fox en el mundo de ustedes, siendo un líder, en la dimensión que se quiera, de la libre empresa?
— Aprendiendo. Pensamos que la libre empresa puede aprender a relacionarse con nosotros. No creemos que todos los empresarios sean ladrones, pues algunos han construido su riqueza por medios honrados y honestos. El hecho de que algunos de los personajes que saltan a la vida pública tengan un lastre de criminalidad, no quiere decir que eso sea parejo para todos. Nosotros no estamos planteando el regreso del comunismo primitivo, ni de una igualdad a rajatabla que finalmente esconde una diferenciación entre la élite política — de izquierda o de derecha — y la gran mayoría empobrecida. Pretendemos que cada sector social tenga las posibilidades de levantarse como tal; no queremos limosnas, sino la oportunidad de construirnos, dentro de este país, como una realidad diferente. En el Tephé la población está llevando adelante un proyecto turístico. Todas las ganancias se reparten en colectivo, y la empresa comunitaria puede competir en el mercado, por lo que se refiere a eficacia, con cualesquiera de los grandes hoteleros. Entonces, ¿por qué no reconocerle a ese grupo su capacidad empresarial dándole las ventajas y posibilidades de mercado que se ofrecen a los grandes hoteleros? Eso es lo que está en juego: las posibilidades de construir otro tipo de relaciones, incluso dentro del mercado, que no representen el capitalismo salvaje, donde se devoran unos a otros. Los poderosos de este país no ven que sus días están contados, y no a causa de una revolución social, sino por el avance del gran poder financiero. En México, los Garza Sada, los Slim, los Zambrano, los Romo y otros de su tamaño no tienen el futuro asegurado, debido no a que el pueblo se levante e instaure una república socialista, sino a que sus fortunas están en la mira del gran capital de otras latitudes.
Entonces nosotros decimos: En el gobierno ya no se están tomando las decisiones fundamentales. Así, ¿para qué nos preocupamos sobre si el gobierno es de izquierda, de derecha o de centro, si es que existe el centro? Consideramos que en México debe reconstruirse el concepto de nación, y reconstruir no es volver al pasado, no es volver a Juárez ni al liberalismo frente al nuevo conservadurismo. No es esa historia la que tenemos que rescatar. Debemos reconstruir la nación sobre bases diferentes, y estas bases consisten en el reconocimiento de la diferencia.
Cuando manifestamos que el nuevo siglo y el nuevo milenio son el milenio y el siglo de las diferencias, marcamos una ruptura fundamental respecto de lo que fue el siglo XX: la gran lucha de las hegemonías. La última que recordamos, entre el campo socialista y el capitalista, ocasionó dos guerras mundiales. Si esto no se reconoce, el mundo terminará siendo un archipiélago en guerra continua hacia afuera y hacia adentro de los territorios. Así no será posible vivir.
EL PROYECTO PUEBLA-PANAMÁ
No obstante, el mercado sí puede acostumbrarse a esa realidad; es posible que opere en un escenario de desestabilización o de guerra civil y cotice en la bolsa de valores. A la gente no le dicen esto y, por el contrario, le ofrecen un mundo idílico donde supuestamente no hay fronteras, para comprar o vender... Pero las fronteras no sólo permanecerán, sino que se van a multiplicar, como ocurrirá con el proyecto Puebla-Panamá, que será un gran crimen: Estados Unidos correrá la frontera hasta aquí, hasta Milpa Alta, donde estamos ahorita. El resto del país, para abajo, será Centroamérica, y OK, que tengan sus guerrillas, sus gobiernos dictatoriales, sus caciques, como Yucatán y Tabasco — Chiapas, afortunadamente, ha quedado en un break en ese sentido —, que siguen la lógica de las repúblicas bananeras. En el resto del territorio mexicano, de aquí hacia el norte, empieza a operarse un brutal proceso de eliminación de grandes sectores sociales. Además, todos los indígenas que queden en este lado tendrán que desaparecer porque no los aceptará este modelo neoliberal, pues no pagan. Nadie va a invertir en ellos.
SI FOX ES SERIO, HABRÁ RESULTADOS
— Marcos, esto es algo más que una broma. Desde el punto de vista de tus valores, yo pienso que el presidente Fox está diciendo:¿cuánto tiempo me llevará aprobar la materia?
— Nosotros estamos tratando de ayudarle lo más que podemos. Claro que nuestro modo no es político. Tiene que entender él, tienen que entender todos que no somos una fuerza política propiamente: somos un grupo armado haciendo política, y, en ese sentido, arrastramos carencias, errores de criterio, un horizonte muy pequeño, caminando en el filo del mesianismo y del realismo político, algo muy difícil para nosotros. Nos proponemos tratar de convencer a este gobierno, no sólo a Fox, de que puede sentarse con la seguridad de que va a tener resultados si lo hace seriamente. Nosotros no estamos apostando al desgaste ni a que truene su programa de gobierno — que va a tronar, pero no porque sea malo, sino simplemente porque no existe —. A lo que estamos apostando — lo hemos sentido en toda esta marcha y lo vemos en todos los medios de comunicación — es a que se reconozca el consenso absoluto de que éste es el momento de saldar la deuda histórica.
México tiene casi 200 años como nación independiente, y en todo momento los indígenas han aparecido como la parte fundamental, pero en ningún momento se ha reconocido tal cosa. No pueden apostar a desaparecernos, porque han fracasado ya. No se va a desaparecer al indígena por cualquier campaña, por cualquier bomba o con cualquier arma que usen, ya que, de una u otra forma, el movimiento indígena resiste y se protege. Fracasaron los españoles, los franceses, los estadunidenses y todos los regímenes liberales, desde Juárez hasta el actual. Entonces, ¿por qué no reconocer que los indígenas ahí están y que es preciso darles la oportunidad? Nosotros lo que queremos es una oportunidad. Si fracasamos, pues lo vamos a asumir, aunque no vamos a estar peor que como estábamos antes...
VOCACIÓN DE MUERTE, PERDITA
— Marcos, sigo con el presidente y con usted. El presidente y usted hablan de la paz. El presidente puede adaptarse a la propaganda, y usted a la mirada, a la airada voz de los marginados. Percibo la violencia, Marcos, informe aún, pero que ya respira. Usted le dijo a Carlos Monsiváis que si no hay acuerdos "algo va a estallar". Mencionó a los grupos subversivos y dijo que los habrá más grandes y radicales si no hay acuerdos. Estas palabras me llevan a la guerra sucia de los setenta, pero más extendida. En este tema ¿por dónde va su inteligencia?
— Mira, lo que nosotros pensamos es que esa guerra está perdida. La guerra sucia está perdida. De una u otra forma, nuestra presencia y la persistencia de los procesos en América Latina quieren decir una cosa que nadie se atreve a reconocer: la guerra sucia la perdieron los de arriba, los que la hicieron, que finalmente no pudieron acabar con los movimientos armados, porque siguen resurgiendo. Si nosotros fracasamos en la vía del diálogo — y nos estamos refiriendo al EZLN y a Fox —, la señal va a ser clarísima para los movimientos más radicales, por lo que se refiere a su posición frente al diálogo y la negociación, pues esto para ellos significa arriar banderas, significa venderse, significa traicionar. Cualquier contacto con el enemigo, que no sea para pedir su rendición, es una rendición propia. Si esa señal es mandada por el PAN en este caso, por el gobierno de Fox y por el EZLN, cobrará auge esta posibilidad. No estamos hablando de grupos radicales aislados, solos, que no tengan ningún consenso social...
— ¿Como en los setenta?
— El zapatismo es un movimiento social que, ante la posibilidad de la lucha armada, optó por el diálogo y la negociación, y hasta ahora ha fracasado. En el caso de los movimientos de rebelión, gana el que no muere, el que persiste, no el que gana. Y en el lado del gobierno, sólo puede ganar si aniquila al contrario. Pero sería una guerra a largo plazo, en la que el terrorismo llega a tu calle, a tu casa, a tu televisión, un poco como ocurrió en los primeros días de la guerra en 1994, cuando empezaron a aparecer actos terroristas que no tenían nada que ver con nosotros, cuando ya en otra forma se decía: la guerra ya no sólo está en Chiapas, puede estar aquí, en una calle, en un centro comercial, en nuestra casa. Es de tal forma grave para la nación, y yo me atrevería a decir que para el mundo entero, lo que se está jugando aquí, que no es sólo la Ley Indígena, no es sólo el éxito mediático de Fox o el rating arriba y debajo de Marcos, o lo que él represente o no represente como símbolo, como mito, como líder social o como futuro dirigente de la izquierda. Lo que está en juego aquí es la posibilidad de una solución del conflicto. Nosotros vamos a sentarnos y a anularnos, en una situación en la que decimos: ayúdennos a perder. Lo que le estamos diciendo a Fox, y sobre todo al Congreso de la Unión, es justamente que nos ayuden a perder. Si nosotros tenemos éxito en esta movilización pacífica, ¿qué sentido tienen las armas para el EZLN o los movimientos armados? Pero no queremos reeditar las derrotas pasadas.
Nosotros no queremos darle a este país un corrido, un héroe más frustrado en el largo calendario de derrotas que tenemos. Queremos desaparecer, que la gente que te está viendo y escuchando ahorita, o que te va a leer en tu revista, sepa que puede ser partícipe de eso.
No pedimos que voten por nosotros ni que nos den un cheque ni una parcela ni nada: pedimos que se solucione una cuestión histórica, y que la gente, equis, quien sea, reconozca que tiene un lugar, que es parte de su historia. No le vamos a la izquierda ni a la izquierda radical para que un personaje cante corridos. No lo vamos a hacer, porque no tenemos esa vocación. La perdimos en algún momento en contacto con las comunidades; perdimos la vocación de muerte en ese sentido. Sin embargo, eso no quiere decir que la temamos, porque no estamos jugando. Lo que pasa es que no aspiramos a eso, ni vamos a forzar el movimiento hasta que llegue a una derrota. Esto será difícil hacérselo entender al otro, porque sus esquemas sólo son pasado. No lo culpo de no entender; a veces ni nosotros nos entendemos.
— ¿No lo culpa de no entender?
— Pues, a veces, nosotros tampoco nos entendemos. Pero somos sinceros, y somos honestos, y pocos políticos en México pueden decir lo mismo.
LOS ERRORES DE MARCOS
— Hacia adentro, en su conciencia, ¿cuáles son los errores que ha cometido el Ejército Zapatista de Liberación Nacional, y cuáles son los errores que ha cometido usted? Al cabo de 20 años, los que usted lleva en la montaña, se afirma que no ha habido mejoría entre los indígenas. Usted expresó, y con razón, que no ha habido mejoría, pero que ahora tienen esperanza y tienen dignidad, y eso es una luz, no una lumbre; hace falta ser libre, escapar, vencer a ese estado de miseria de años... ¿Cuánta energía pierde un hombre, Marcos, que no puede sostenerse, que no puede trabajar, que no puede concentrarse en la lectura de un libro? O sea, la dignidad y la esperanza me parecen dos valores fundamentales. Sin ellos la vida no sirve para nada, pero por la miseria atroz, la dignidad se hace muy difícil, la esperanza muy difícil...
— Hay algo peor que eso, que es heredar, a los que siguen, la desesperanza. Entonces eres consciente de que todas las dificultades que estás enfrentando, se las vas a heredar a tus hijos, y no les vas a heredar la posibilidad de cambiarlas. Es ese sentimiento de tenencia y pertenencia al colectivo lo que nos hizo seguir adelante. Entre los errores que ha cometido el EZLN como organización está el no haber aprendido más rápido de las comunidades. Cuando se da el fenómeno de los municipios autónomos, el EZLN está tan imbricado en las comunidades que, de una u otra forma, permean también su toma de decisiones. A la hora de que las comunidades se empiezan a organizar como gobierno y a tomar decisiones, el EZLN todavía empieza a rozar con esto. Entonces nos damos cuenta de que las comunidades han aprendido más rápido que nosotros, no sólo a vivir en resistencia frente a un poder que estaban desafiando, sino que van construyendo una alternativa, tú estás pensando en los que estamos, ellos están pensando en los que vienen. Ellos están pensando en las generaciones que vienen, para no heredarles esa desesperanza; esto que tenemos no será peor, definitivamente no será peor para ellos.
El error fundamental de Marcos es no haber cuidado — y yo lo perdono porque soy yo, y si no lo perdono yo, pues quién lo perdona, ¿no? —, no haber previsto esta personalización y protagonismo que muchas veces, si no es que la mayoría de ellas, impide ver qué es lo que está detrás. No nos angustia mucho como organización, porque nosotros sabemos lo que está detrás, y vemos una organización que puede sobrevivir incluso sin guerra.... Esto no lo ha percibido mucha gente; tiene que ver mucho con que Marcos haya ofuscado, obstruido la vista hacia atrás. Que de una u otra forma, Marcos es responsable también en eso, sí, sí puede ser que su dosis de vanidad, de protagonismo o de payasez o como se llame eso, haya contribuido... Pero sobre todo la causa es que la mayoría de la gente — es decir, los jóvenes — no tiene una expectativa dentro del espectro político, y es lógico que se agarre de lo que haya a la mano; por otro lado, está el realce que se ha dado a todo esto en la vida nacional, particularmente en los medios de comunicación, pues éstos no sólo deciden qué actor se convierte en político, sino también qué lugar ocupa ese actor político.
— O que el político se convierte en cómico...
— Y al revés: que el cómico se convierte en político y llega a presidente... eso córtalo. Estoy hablando bien de Fox (...) ¿o estoy hablando mal? Si hablo bien, imagínate cuando hablo mal... Ahí es donde van comerciales.
— Marcos, esto es algo más que una broma. Desde el punto de vista de tus valores, yo pienso que el presidente Fox está diciendo:¿cuánto tiempo me llevará aprobar la materia?
— Nosotros estamos tratando de ayudarle lo más que podemos. Claro que nuestro modo no es político. Tiene que entender él, tienen que entender todos que no somos una fuerza política propiamente: somos un grupo armado haciendo política, y, en ese sentido, arrastramos carencias, errores de criterio, un horizonte muy pequeño, caminando en el filo del mesianismo y del realismo político, algo muy difícil para nosotros. Nos proponemos tratar de convencer a este gobierno, no sólo a Fox, de que puede sentarse con la seguridad de que va a tener resultados si lo hace seriamente. Nosotros no estamos apostando al desgaste ni a que truene su programa de gobierno — que va a tronar, pero no porque sea malo, sino simplemente porque no existe —. A lo que estamos apostando — lo hemos sentido en toda esta marcha y lo vemos en todos los medios de comunicación — es a que se reconozca el consenso absoluto de que éste es el momento de saldar la deuda histórica.
México tiene casi 200 años como nación independiente, y en todo momento los indígenas han aparecido como la parte fundamental, pero en ningún momento se ha reconocido tal cosa. No pueden apostar a desaparecernos, porque han fracasado ya. No se va a desaparecer al indígena por cualquier campaña, por cualquier bomba o con cualquier arma que usen, ya que, de una u otra forma, el movimiento indígena resiste y se protege. Fracasaron los españoles, los franceses, los estadunidenses y todos los regímenes liberales, desde Juárez hasta el actual. Entonces, ¿por qué no reconocer que los indígenas ahí están y que es preciso darles la oportunidad? Nosotros lo que queremos es una oportunidad. Si fracasamos, pues lo vamos a asumir, aunque no vamos a estar peor que como estábamos antes...
VOCACIÓN DE MUERTE, PERDITA
— Marcos, sigo con el presidente y con usted. El presidente y usted hablan de la paz. El presidente puede adaptarse a la propaganda, y usted a la mirada, a la airada voz de los marginados. Percibo la violencia, Marcos, informe aún, pero que ya respira. Usted le dijo a Carlos Monsiváis que si no hay acuerdos "algo va a estallar". Mencionó a los grupos subversivos y dijo que los habrá más grandes y radicales si no hay acuerdos. Estas palabras me llevan a la guerra sucia de los setenta, pero más extendida. En este tema ¿por dónde va su inteligencia?
— Mira, lo que nosotros pensamos es que esa guerra está perdida. La guerra sucia está perdida. De una u otra forma, nuestra presencia y la persistencia de los procesos en América Latina quieren decir una cosa que nadie se atreve a reconocer: la guerra sucia la perdieron los de arriba, los que la hicieron, que finalmente no pudieron acabar con los movimientos armados, porque siguen resurgiendo. Si nosotros fracasamos en la vía del diálogo — y nos estamos refiriendo al EZLN y a Fox —, la señal va a ser clarísima para los movimientos más radicales, por lo que se refiere a su posición frente al diálogo y la negociación, pues esto para ellos significa arriar banderas, significa venderse, significa traicionar. Cualquier contacto con el enemigo, que no sea para pedir su rendición, es una rendición propia. Si esa señal es mandada por el PAN en este caso, por el gobierno de Fox y por el EZLN, cobrará auge esta posibilidad. No estamos hablando de grupos radicales aislados, solos, que no tengan ningún consenso social...
— ¿Como en los setenta?
— El zapatismo es un movimiento social que, ante la posibilidad de la lucha armada, optó por el diálogo y la negociación, y hasta ahora ha fracasado. En el caso de los movimientos de rebelión, gana el que no muere, el que persiste, no el que gana. Y en el lado del gobierno, sólo puede ganar si aniquila al contrario. Pero sería una guerra a largo plazo, en la que el terrorismo llega a tu calle, a tu casa, a tu televisión, un poco como ocurrió en los primeros días de la guerra en 1994, cuando empezaron a aparecer actos terroristas que no tenían nada que ver con nosotros, cuando ya en otra forma se decía: la guerra ya no sólo está en Chiapas, puede estar aquí, en una calle, en un centro comercial, en nuestra casa. Es de tal forma grave para la nación, y yo me atrevería a decir que para el mundo entero, lo que se está jugando aquí, que no es sólo la Ley Indígena, no es sólo el éxito mediático de Fox o el rating arriba y debajo de Marcos, o lo que él represente o no represente como símbolo, como mito, como líder social o como futuro dirigente de la izquierda. Lo que está en juego aquí es la posibilidad de una solución del conflicto. Nosotros vamos a sentarnos y a anularnos, en una situación en la que decimos: ayúdennos a perder. Lo que le estamos diciendo a Fox, y sobre todo al Congreso de la Unión, es justamente que nos ayuden a perder. Si nosotros tenemos éxito en esta movilización pacífica, ¿qué sentido tienen las armas para el EZLN o los movimientos armados? Pero no queremos reeditar las derrotas pasadas.
Nosotros no queremos darle a este país un corrido, un héroe más frustrado en el largo calendario de derrotas que tenemos. Queremos desaparecer, que la gente que te está viendo y escuchando ahorita, o que te va a leer en tu revista, sepa que puede ser partícipe de eso.
No pedimos que voten por nosotros ni que nos den un cheque ni una parcela ni nada: pedimos que se solucione una cuestión histórica, y que la gente, equis, quien sea, reconozca que tiene un lugar, que es parte de su historia. No le vamos a la izquierda ni a la izquierda radical para que un personaje cante corridos. No lo vamos a hacer, porque no tenemos esa vocación. La perdimos en algún momento en contacto con las comunidades; perdimos la vocación de muerte en ese sentido. Sin embargo, eso no quiere decir que la temamos, porque no estamos jugando. Lo que pasa es que no aspiramos a eso, ni vamos a forzar el movimiento hasta que llegue a una derrota. Esto será difícil hacérselo entender al otro, porque sus esquemas sólo son pasado. No lo culpo de no entender; a veces ni nosotros nos entendemos.
— ¿No lo culpa de no entender?
— Pues, a veces, nosotros tampoco nos entendemos. Pero somos sinceros, y somos honestos, y pocos políticos en México pueden decir lo mismo.
LOS ERRORES DE MARCOS
— Hacia adentro, en su conciencia, ¿cuáles son los errores que ha cometido el Ejército Zapatista de Liberación Nacional, y cuáles son los errores que ha cometido usted? Al cabo de 20 años, los que usted lleva en la montaña, se afirma que no ha habido mejoría entre los indígenas. Usted expresó, y con razón, que no ha habido mejoría, pero que ahora tienen esperanza y tienen dignidad, y eso es una luz, no una lumbre; hace falta ser libre, escapar, vencer a ese estado de miseria de años... ¿Cuánta energía pierde un hombre, Marcos, que no puede sostenerse, que no puede trabajar, que no puede concentrarse en la lectura de un libro? O sea, la dignidad y la esperanza me parecen dos valores fundamentales. Sin ellos la vida no sirve para nada, pero por la miseria atroz, la dignidad se hace muy difícil, la esperanza muy difícil...
— Hay algo peor que eso, que es heredar, a los que siguen, la desesperanza. Entonces eres consciente de que todas las dificultades que estás enfrentando, se las vas a heredar a tus hijos, y no les vas a heredar la posibilidad de cambiarlas. Es ese sentimiento de tenencia y pertenencia al colectivo lo que nos hizo seguir adelante. Entre los errores que ha cometido el EZLN como organización está el no haber aprendido más rápido de las comunidades. Cuando se da el fenómeno de los municipios autónomos, el EZLN está tan imbricado en las comunidades que, de una u otra forma, permean también su toma de decisiones. A la hora de que las comunidades se empiezan a organizar como gobierno y a tomar decisiones, el EZLN todavía empieza a rozar con esto. Entonces nos damos cuenta de que las comunidades han aprendido más rápido que nosotros, no sólo a vivir en resistencia frente a un poder que estaban desafiando, sino que van construyendo una alternativa, tú estás pensando en los que estamos, ellos están pensando en los que vienen. Ellos están pensando en las generaciones que vienen, para no heredarles esa desesperanza; esto que tenemos no será peor, definitivamente no será peor para ellos.
El error fundamental de Marcos es no haber cuidado — y yo lo perdono porque soy yo, y si no lo perdono yo, pues quién lo perdona, ¿no? —, no haber previsto esta personalización y protagonismo que muchas veces, si no es que la mayoría de ellas, impide ver qué es lo que está detrás. No nos angustia mucho como organización, porque nosotros sabemos lo que está detrás, y vemos una organización que puede sobrevivir incluso sin guerra.... Esto no lo ha percibido mucha gente; tiene que ver mucho con que Marcos haya ofuscado, obstruido la vista hacia atrás. Que de una u otra forma, Marcos es responsable también en eso, sí, sí puede ser que su dosis de vanidad, de protagonismo o de payasez o como se llame eso, haya contribuido... Pero sobre todo la causa es que la mayoría de la gente — es decir, los jóvenes — no tiene una expectativa dentro del espectro político, y es lógico que se agarre de lo que haya a la mano; por otro lado, está el realce que se ha dado a todo esto en la vida nacional, particularmente en los medios de comunicación, pues éstos no sólo deciden qué actor se convierte en político, sino también qué lugar ocupa ese actor político.
— O que el político se convierte en cómico...
— Y al revés: que el cómico se convierte en político y llega a presidente... eso córtalo. Estoy hablando bien de Fox (...) ¿o estoy hablando mal? Si hablo bien, imagínate cuando hablo mal... Ahí es donde van comerciales.
LA NO EXISTENCIA
— Los indígenas soportan siglos de explotación, pero su hambre es la misma hambre de los marginados. Usted ha dicho que su lucha es nacional y chiapaneca, por supuesto. Alguna vez, Marcos, allá en las pesadillas y los sueños, ¿ha escuchado el clamor unido de los agraviados?
— Sobre todo en esta marcha. Nosotros previmos que iba a pasar eso y las comunidades, cuando nos mandan, acotan, o ponen el lazo, como decimos allá, para que sólo se vaya sobre un objetivo. De una u otra forma, a cada paso de la marcha, surge no sólo la escucha de ese grito, sino la tentación de hacerle eco. Y nada más fácil ni más irresponsable. Porque es fácil ir al paso y decir: "Yo también reivindico tu lucha y luego regresamos". Nosotros hemos tratado de resistir a eso, y decirle a la gente: "Nosotros reconocemos que tu grito es justo, pero ahorita vamos sobre esto". No podemos ir sobre algo más.
— ¿Le preocupa la posibilidad de que los marginados se les unan?
— Ojalá. No me asusta y lo deseo. Lo que no deseo es que se creen falsas expectativas sobre una persona o sobre un movimiento que no nace el 1 de enero de 94. Nosotros teníamos un trabajo previo de muchos años y de muchos sacrificios. No es fácil tener la cohesión, la homogeneidad, la unidad que tienen los zapatistas, que han resistido tantos embates, tantos ataques. Y de pronto, para los medios, parece que el EZLN nace el 1 de enero de 94. Ésa puede ser una tentación: que un movimiento pueda empezar así, que el primer paso será la legitimidad, y no es cierto. Porque el primer paso de la legitimidad es el reconocimiento propio.
— Pero piense en los agraviados, tantos millones...
— Ese conflicto es irremediable, y eso se lo dijimos a Fox. Sobre eso no hay vuelta de hoja. Lo que está en juego aquí, en nuestro movimiento, al acercarnos a la capital, es cómo se va a enfrentar ese conflicto. Pero no pueden pensar que ese conflicto va a seguir latente o va a ser controlado. Va a tronar. Lo que van a señalar ahora es si el conflicto lo van a enfrentar por la vía del diálogo o la negociación, o van a recurrir al recurso de las armas, al recurso de la violencia. Van a tener que escoger entre la vía política y la vía armada para enfrentar ese conflicto.
— La miseria es mucho más que un cuerpo famélico. Es la niña que vio Heberto Castillo abrazada a una piedra, su hija, y son las 50 niñas de un internado que compartían una muñeca de la que sólo quedaban hilachos. ¿Usted, Marcos, cómo se representa la miseria?
— En una niña también. Una niña que se me murió en los brazos, de menos de cinco años de edad, de calentura, en la comunidad de Las Tazas, porque no había un mejoral para bajarle la fiebre, y se me fue en las manos. Tratamos de bajarle la fiebre con agua, con trapos mojados, la bañábamos y todo, su padre y yo. Se nos fue. No requería intervención quirúrgica, ni un hospital. Necesitaba una pastilla, un mejoralito... Es ridículo, porque además esa niña ni siquiera nació, no había un acta de nacimiento. ¿Qué hay de más miserable que nazcas y que mueras y nadie te conozca?
— ¿Qué sintió usted?
— Impotencia, coraje. Se te cae todo el mundo encima, que todo lo que pensabas y todo lo que hiciste antes es inútil si no puedo evitar esa muerte injusta, absurda, irracional, estúpida...
— Y si esas emociones terribles se repiten en muchísimas partes, ¿es posible una lucha que se percibe en el fondo, aunque no lo declaren, de venganza?
— Ése es el peligro. Si ese rencor social no se organiza, necesariamente viene la venganza. Y en el caso de los grupos indígenas puede tenderse al fundamentalismo, y ahí sí no hay diálogo que valga... Por eso nosotros decimos que es preferible que se organice ese descontento. En todo caso, que la sabiduría o la sapiencia de ese movimiento escoja.
— Marcos, ¿cuántas víctimas vivieron sin saber lo que es la vida?
— Eso es lo que ya no queremos que se repita. No queremos que se repita la gente que no nace y que no se muere. No existe. No existe para ti, no existe para el público, no existe para Fox ni para nadie. Fuera de sus familias, no existieron para nadie. Ahora, con la resistencia de las comunidades indígenas, nosotros bajamos la tasa de mortalidad a entre 200 y 300 al año. Teníamos, antes de 1994, 15 mil al año. La mayoría, menores de cinco años, que nunca tuvieron acta de nacimiento (...).
— Vivir sin ser, Marcos...
— Y no sólo eso. Si vives siendo, es con vergüenza. Tratabas de dejar de serlo para que te aceptaran en las cabeceras municipales y los centros de producción. Con la cara indígena, eras objeto de burla y engaños. Por el hecho de tener una piel morena y hablar otra lengua, ya significaba que tu producto bajaba de precio.
— ¿Es usted un rebelde que exige cambios profundos o un revolucionario que lucha por transformaciones radicales, otra manera de hacer patria?
— Nosotros nos ubicamos más como un rebelde que quiere cambios sociales. Es decir, la definición como el revolucionario clásico no nos queda. En el contexto en el que surgimos, en las comunidades indígenas, no existía esa expectativa. Porque el sujeto colectivo lo es también en el proceso revolucionario, y es el que marca las pautas.
— ¿Si fracasara usted como rebelde, optaría por la vía revolucionaria?
— El destino es diferente. El revolucionario tiende a convertirse en un político y el rebelde social no deja de ser un rebelde social. En el momento en que Marcos o el zapatismo se conviertan en un proyecto revolucionario, es decir, en algo que devenga en un actor político dentro de la clase política, el zapatismo va a fracasar como propuesta alternativa.
— ¿Por qué un revolucionario se convierte en político?
— Porque un revolucionario se plantea fundamentalmente transformar las cosas desde arriba, no desde abajo, al revés del rebelde social. El revolucionario se plantea: Vamos a hacer un movimiento, tomo el poder y desde arriba transformo las cosas. Y el rebelde social no. El rebelde social organiza a las masas y desde abajo va transformando sin tener que plantearse la cuestión de la toma del poder.
— Cuando dice eso, ¿piensa en la Revolución Mexicana?
— Sí, pienso en Zapata y en Carranza, fundamentalmente. Carranza, que se plantea los cambios a la hora de tomar el poder. Y Zapata, que se plantea las demandas y al momento de tomarse la foto ni siquiera roza la silla. Nosotros nos identificamos con el zapatismo. Se necesitan políticos, desgraciadamente, pero sobre todo líderes sociales. Creo que el zapatismo tiene que optar y va a optar por los líderes sociales...
LA REPUBLICA DE TV
— A lo mejor la palabra político está bien o está mal. Usted me hará favor de aclararlo. Yo creo que usted es político. No tengo duda de que es escritor de prosa rimada. ¿Qué poeta le inspira, qué estadista le atrae, qué guerrillero le da fuerza?
— De atrás para adelante, como jefe militar, Villa. Como movimiento social armado, Zapata. Como líder social, no veo a ninguno en el horizonte actual que realmente responda al concepto de hombre de Estado. No hay. Los grandes hombres de Estado son de la prehistoria ya. Ahorita hay mercadólogos, buenos o malos (...) Ahorita no metería la mano al fuego por ninguno como líder político, porque no veo a ninguno que responda al concepto de hombre de Estado, porque el hombre de Estado tiene la capacidad de ver hacia adelante, y no conozco ahora ningún líder político que vea más allá de sus narices, en todo el espectro.
— Los indígenas soportan siglos de explotación, pero su hambre es la misma hambre de los marginados. Usted ha dicho que su lucha es nacional y chiapaneca, por supuesto. Alguna vez, Marcos, allá en las pesadillas y los sueños, ¿ha escuchado el clamor unido de los agraviados?
— Sobre todo en esta marcha. Nosotros previmos que iba a pasar eso y las comunidades, cuando nos mandan, acotan, o ponen el lazo, como decimos allá, para que sólo se vaya sobre un objetivo. De una u otra forma, a cada paso de la marcha, surge no sólo la escucha de ese grito, sino la tentación de hacerle eco. Y nada más fácil ni más irresponsable. Porque es fácil ir al paso y decir: "Yo también reivindico tu lucha y luego regresamos". Nosotros hemos tratado de resistir a eso, y decirle a la gente: "Nosotros reconocemos que tu grito es justo, pero ahorita vamos sobre esto". No podemos ir sobre algo más.
— ¿Le preocupa la posibilidad de que los marginados se les unan?
— Ojalá. No me asusta y lo deseo. Lo que no deseo es que se creen falsas expectativas sobre una persona o sobre un movimiento que no nace el 1 de enero de 94. Nosotros teníamos un trabajo previo de muchos años y de muchos sacrificios. No es fácil tener la cohesión, la homogeneidad, la unidad que tienen los zapatistas, que han resistido tantos embates, tantos ataques. Y de pronto, para los medios, parece que el EZLN nace el 1 de enero de 94. Ésa puede ser una tentación: que un movimiento pueda empezar así, que el primer paso será la legitimidad, y no es cierto. Porque el primer paso de la legitimidad es el reconocimiento propio.
— Pero piense en los agraviados, tantos millones...
— Ese conflicto es irremediable, y eso se lo dijimos a Fox. Sobre eso no hay vuelta de hoja. Lo que está en juego aquí, en nuestro movimiento, al acercarnos a la capital, es cómo se va a enfrentar ese conflicto. Pero no pueden pensar que ese conflicto va a seguir latente o va a ser controlado. Va a tronar. Lo que van a señalar ahora es si el conflicto lo van a enfrentar por la vía del diálogo o la negociación, o van a recurrir al recurso de las armas, al recurso de la violencia. Van a tener que escoger entre la vía política y la vía armada para enfrentar ese conflicto.
— La miseria es mucho más que un cuerpo famélico. Es la niña que vio Heberto Castillo abrazada a una piedra, su hija, y son las 50 niñas de un internado que compartían una muñeca de la que sólo quedaban hilachos. ¿Usted, Marcos, cómo se representa la miseria?
— En una niña también. Una niña que se me murió en los brazos, de menos de cinco años de edad, de calentura, en la comunidad de Las Tazas, porque no había un mejoral para bajarle la fiebre, y se me fue en las manos. Tratamos de bajarle la fiebre con agua, con trapos mojados, la bañábamos y todo, su padre y yo. Se nos fue. No requería intervención quirúrgica, ni un hospital. Necesitaba una pastilla, un mejoralito... Es ridículo, porque además esa niña ni siquiera nació, no había un acta de nacimiento. ¿Qué hay de más miserable que nazcas y que mueras y nadie te conozca?
— ¿Qué sintió usted?
— Impotencia, coraje. Se te cae todo el mundo encima, que todo lo que pensabas y todo lo que hiciste antes es inútil si no puedo evitar esa muerte injusta, absurda, irracional, estúpida...
— Y si esas emociones terribles se repiten en muchísimas partes, ¿es posible una lucha que se percibe en el fondo, aunque no lo declaren, de venganza?
— Ése es el peligro. Si ese rencor social no se organiza, necesariamente viene la venganza. Y en el caso de los grupos indígenas puede tenderse al fundamentalismo, y ahí sí no hay diálogo que valga... Por eso nosotros decimos que es preferible que se organice ese descontento. En todo caso, que la sabiduría o la sapiencia de ese movimiento escoja.
— Marcos, ¿cuántas víctimas vivieron sin saber lo que es la vida?
— Eso es lo que ya no queremos que se repita. No queremos que se repita la gente que no nace y que no se muere. No existe. No existe para ti, no existe para el público, no existe para Fox ni para nadie. Fuera de sus familias, no existieron para nadie. Ahora, con la resistencia de las comunidades indígenas, nosotros bajamos la tasa de mortalidad a entre 200 y 300 al año. Teníamos, antes de 1994, 15 mil al año. La mayoría, menores de cinco años, que nunca tuvieron acta de nacimiento (...).
— Vivir sin ser, Marcos...
— Y no sólo eso. Si vives siendo, es con vergüenza. Tratabas de dejar de serlo para que te aceptaran en las cabeceras municipales y los centros de producción. Con la cara indígena, eras objeto de burla y engaños. Por el hecho de tener una piel morena y hablar otra lengua, ya significaba que tu producto bajaba de precio.
— ¿Es usted un rebelde que exige cambios profundos o un revolucionario que lucha por transformaciones radicales, otra manera de hacer patria?
— Nosotros nos ubicamos más como un rebelde que quiere cambios sociales. Es decir, la definición como el revolucionario clásico no nos queda. En el contexto en el que surgimos, en las comunidades indígenas, no existía esa expectativa. Porque el sujeto colectivo lo es también en el proceso revolucionario, y es el que marca las pautas.
— ¿Si fracasara usted como rebelde, optaría por la vía revolucionaria?
— El destino es diferente. El revolucionario tiende a convertirse en un político y el rebelde social no deja de ser un rebelde social. En el momento en que Marcos o el zapatismo se conviertan en un proyecto revolucionario, es decir, en algo que devenga en un actor político dentro de la clase política, el zapatismo va a fracasar como propuesta alternativa.
— ¿Por qué un revolucionario se convierte en político?
— Porque un revolucionario se plantea fundamentalmente transformar las cosas desde arriba, no desde abajo, al revés del rebelde social. El revolucionario se plantea: Vamos a hacer un movimiento, tomo el poder y desde arriba transformo las cosas. Y el rebelde social no. El rebelde social organiza a las masas y desde abajo va transformando sin tener que plantearse la cuestión de la toma del poder.
— Cuando dice eso, ¿piensa en la Revolución Mexicana?
— Sí, pienso en Zapata y en Carranza, fundamentalmente. Carranza, que se plantea los cambios a la hora de tomar el poder. Y Zapata, que se plantea las demandas y al momento de tomarse la foto ni siquiera roza la silla. Nosotros nos identificamos con el zapatismo. Se necesitan políticos, desgraciadamente, pero sobre todo líderes sociales. Creo que el zapatismo tiene que optar y va a optar por los líderes sociales...
LA REPUBLICA DE TV
— A lo mejor la palabra político está bien o está mal. Usted me hará favor de aclararlo. Yo creo que usted es político. No tengo duda de que es escritor de prosa rimada. ¿Qué poeta le inspira, qué estadista le atrae, qué guerrillero le da fuerza?
— De atrás para adelante, como jefe militar, Villa. Como movimiento social armado, Zapata. Como líder social, no veo a ninguno en el horizonte actual que realmente responda al concepto de hombre de Estado. No hay. Los grandes hombres de Estado son de la prehistoria ya. Ahorita hay mercadólogos, buenos o malos (...) Ahorita no metería la mano al fuego por ninguno como líder político, porque no veo a ninguno que responda al concepto de hombre de Estado, porque el hombre de Estado tiene la capacidad de ver hacia adelante, y no conozco ahora ningún líder político que vea más allá de sus narices, en todo el espectro.
— A propósito de Villa, Marcos, en su encuentro con Vicente Leñero en 1994, usted le expresó su admiración por el personaje; guerrillero implacable, buen soldado y hombre de gobierno en Chihuahua, según la biografía monumental de Friedrich Katz. ¿Se identifica usted con El Centauro?
— Quisiera hacerlo. Era un hombre que tenía la visión de cuerpo, un hombre preocupado por sus tropas, y no me refiero sólo a sus tropas regulares, sino a los territorios que iba conquistando. No sólo se preocupaba por combatir, sino también por organizar. Desgraciadamente, esa parte es la menos conocida...Pero desgraciadamente, Villa es el de los corridos, el del caballo Siete Leguas.
— Ante esas virtudes, ¿qué tanto pesa la violencia inútil?
— La violencia siempre va a ser inútil, pero uno no se da cuenta hasta que la ejerce o la padece.
— ¿Y él no se dio cuenta, Marcos?
— No sé. Yo pienso que a la distancia igual nos va a pasar a nosotros, siempre va a haber vacíos o huecos a la hora de valorar a una persona (...) Definitivamente, un militar, me incluyo entre ellos, es un hombre absurdo e irracional, porque tiene la capacidad de recurrir a la violencia para convencer. Finalmente eso es lo que hace un militar cuando da una orden: Convence con la fuerza de las armas. Por eso nosotros decimos que los militares no deben gobernar nunca, y eso nos incluye a nosotros. Porque quien ha tenido que recurrir a las armas para hacer valer sus ideas, es muy pobre en ideas.
— Le voy a hacer una observación de buen gusto: Las armas no convencen, se imponen.
— Sí. Finalmente así es. Por eso nosotros decimos que los movimientos armados, por muy revolucionarios que sean, son fundamentalmente movimientos arbitrarios. En todo caso, lo que tiene que hacer un movimiento armado es plantear el problema y hacerse a un lado. Es lo que nosotros estamos ahora logrando con éxito, después de siete años en las comunidades. De los errores que cometimos, está no haber aprendido más rápido cómo podíamos desprendernos de eso. Realmente nos hemos hecho a un lado. Los municipios autónomos son tan autónomos que no nos hacen caso.
— No es popular el comandante Germán. Dispone, dirige, ordena, sube al camión el primero, lo abandona antes que nadie, recibe los documentos, los distribuye, habla con la fuerza del mando. Pesan sospechas sobre él y de su humanitarismo nadie habla. No me explico a Germán, tan diferente a usted y tan diferente a los indígenas, en calidad de portavoz central de lo que hace el EZLN. En los grados del Ejército Zapatista, él es el comandante y usted el sub. Germán es el que ordena, él es el que dispone. Usted, de alguna manera cumple, recibe o atiende las instrucciones u órdenes...
— ¡No! El arquitecto Fernando Yáñez, que es conocido como el comandante Germán, significa, a la hora que lo pone el EZLN, el enlace con el Poder Legislativo y los partidos políticos; significa una señal que, como muchas que hemos dado, el gobierno no ha sabido leer. Con él, está diciendo el EZLN: estamos dispuestos a transitar de la clandestinidad a la vida pública. Eso es fundamental. El arquitecto Yáñez sube y baja del camión porque se le ha encargado la seguridad. Los que mandan en el Ejército Zapatista de Liberación Nacional son los jefes indígenas. Ésa es la verdad. Pero la percepción que tienes tú y los que nos están viendo ahorita, es que estoy yo y atrás de mí debe estar Tacho cuidándome (...) Pero del lado de las comunidades las cosas son al revés: están ellos primero, y nosotros detrás... El arquitecto Yáñez no tiene mando ni ascendencia militar dentro del EZLN. Está respondiendo a un llamado que estamos haciendo nosotros porque queremos dar esa señal que, coño, nadie está leyendo. Y si un movimiento armado está diciendo ahí va esta parte, vean, a esto estamos dispuestos, y no lo lee, entonces ya de plano necesita la clase política una gran lección.
— No me siento aludido, porque esa señal no fue explícita.
— Pero va acompañada por otras. Lo que se está preguntando el gobierno mexicano es hasta qué punto Marcos y el EZLN no están jugando con una apuesta de popularidad y de desgaste, a ganar tiempo. Antes, con Zedillo, nosotros estábamos dispuestos a firmar la paz con él, que era un imbécil, un mediocre, ahorita ya se puede decir, por qué no la vamos a hacer con Fox, que además es producto de un proceso electoral legítimo de elección. A nosotros no nos espanta firmar la paz con la derecha, porque nuestro problema no es ése. Sería igual el problema si fuera la izquierda electoral la que estuviera en el poder. Nosotros estamos tratando de convencer al otro, en este caso el gobierno federal, de que estamos dispuestos a resolver esto y a hacerlo rápido, pero necesitamos una serie de señales. Nosotros damos una. No la ven, pues es que no le hallamos todavía al modo político, pero voluntad no nos ha faltado. Si no logramos que tú veas esa señal o que la clase política vea esa señal, es que ahí fracasamos y vamos a buscar otra, pero creo que este país tiene que saldar una cuenta pendiente con mucha gente, no sólo con Yáñez, sino con mucha gente que quedó en el camino con todos los movimientos clandestinos, que son mucho más poderosos en términos de patriotismo y compromiso social, de sacrificio, que lo que pueda decir cualquier corrido a Lucio Cabañas o a Genaro Vázquez. Lo que nosotros quisimos hacer, y es evidente que no se consiguió, es reunirnos con el Poder Legislativo, que ha sido receptivo a su persona y a su trato (...) Lo que queremos decir es que nosotros no vamos a fingir la paz. Nos vamos a sentar a negociar y, si de la otra parte hay voluntad, nos vamos a lo último. Si estuvimos dispuestos a que nos maten, ¿por qué no vamos a estar dispuestos a negociar? No tenemos vocación suicida.
— Quisiera hacerlo. Era un hombre que tenía la visión de cuerpo, un hombre preocupado por sus tropas, y no me refiero sólo a sus tropas regulares, sino a los territorios que iba conquistando. No sólo se preocupaba por combatir, sino también por organizar. Desgraciadamente, esa parte es la menos conocida...Pero desgraciadamente, Villa es el de los corridos, el del caballo Siete Leguas.
— Ante esas virtudes, ¿qué tanto pesa la violencia inútil?
— La violencia siempre va a ser inútil, pero uno no se da cuenta hasta que la ejerce o la padece.
— ¿Y él no se dio cuenta, Marcos?
— No sé. Yo pienso que a la distancia igual nos va a pasar a nosotros, siempre va a haber vacíos o huecos a la hora de valorar a una persona (...) Definitivamente, un militar, me incluyo entre ellos, es un hombre absurdo e irracional, porque tiene la capacidad de recurrir a la violencia para convencer. Finalmente eso es lo que hace un militar cuando da una orden: Convence con la fuerza de las armas. Por eso nosotros decimos que los militares no deben gobernar nunca, y eso nos incluye a nosotros. Porque quien ha tenido que recurrir a las armas para hacer valer sus ideas, es muy pobre en ideas.
— Le voy a hacer una observación de buen gusto: Las armas no convencen, se imponen.
— Sí. Finalmente así es. Por eso nosotros decimos que los movimientos armados, por muy revolucionarios que sean, son fundamentalmente movimientos arbitrarios. En todo caso, lo que tiene que hacer un movimiento armado es plantear el problema y hacerse a un lado. Es lo que nosotros estamos ahora logrando con éxito, después de siete años en las comunidades. De los errores que cometimos, está no haber aprendido más rápido cómo podíamos desprendernos de eso. Realmente nos hemos hecho a un lado. Los municipios autónomos son tan autónomos que no nos hacen caso.
— No es popular el comandante Germán. Dispone, dirige, ordena, sube al camión el primero, lo abandona antes que nadie, recibe los documentos, los distribuye, habla con la fuerza del mando. Pesan sospechas sobre él y de su humanitarismo nadie habla. No me explico a Germán, tan diferente a usted y tan diferente a los indígenas, en calidad de portavoz central de lo que hace el EZLN. En los grados del Ejército Zapatista, él es el comandante y usted el sub. Germán es el que ordena, él es el que dispone. Usted, de alguna manera cumple, recibe o atiende las instrucciones u órdenes...
— ¡No! El arquitecto Fernando Yáñez, que es conocido como el comandante Germán, significa, a la hora que lo pone el EZLN, el enlace con el Poder Legislativo y los partidos políticos; significa una señal que, como muchas que hemos dado, el gobierno no ha sabido leer. Con él, está diciendo el EZLN: estamos dispuestos a transitar de la clandestinidad a la vida pública. Eso es fundamental. El arquitecto Yáñez sube y baja del camión porque se le ha encargado la seguridad. Los que mandan en el Ejército Zapatista de Liberación Nacional son los jefes indígenas. Ésa es la verdad. Pero la percepción que tienes tú y los que nos están viendo ahorita, es que estoy yo y atrás de mí debe estar Tacho cuidándome (...) Pero del lado de las comunidades las cosas son al revés: están ellos primero, y nosotros detrás... El arquitecto Yáñez no tiene mando ni ascendencia militar dentro del EZLN. Está respondiendo a un llamado que estamos haciendo nosotros porque queremos dar esa señal que, coño, nadie está leyendo. Y si un movimiento armado está diciendo ahí va esta parte, vean, a esto estamos dispuestos, y no lo lee, entonces ya de plano necesita la clase política una gran lección.
— No me siento aludido, porque esa señal no fue explícita.
— Pero va acompañada por otras. Lo que se está preguntando el gobierno mexicano es hasta qué punto Marcos y el EZLN no están jugando con una apuesta de popularidad y de desgaste, a ganar tiempo. Antes, con Zedillo, nosotros estábamos dispuestos a firmar la paz con él, que era un imbécil, un mediocre, ahorita ya se puede decir, por qué no la vamos a hacer con Fox, que además es producto de un proceso electoral legítimo de elección. A nosotros no nos espanta firmar la paz con la derecha, porque nuestro problema no es ése. Sería igual el problema si fuera la izquierda electoral la que estuviera en el poder. Nosotros estamos tratando de convencer al otro, en este caso el gobierno federal, de que estamos dispuestos a resolver esto y a hacerlo rápido, pero necesitamos una serie de señales. Nosotros damos una. No la ven, pues es que no le hallamos todavía al modo político, pero voluntad no nos ha faltado. Si no logramos que tú veas esa señal o que la clase política vea esa señal, es que ahí fracasamos y vamos a buscar otra, pero creo que este país tiene que saldar una cuenta pendiente con mucha gente, no sólo con Yáñez, sino con mucha gente que quedó en el camino con todos los movimientos clandestinos, que son mucho más poderosos en términos de patriotismo y compromiso social, de sacrificio, que lo que pueda decir cualquier corrido a Lucio Cabañas o a Genaro Vázquez. Lo que nosotros quisimos hacer, y es evidente que no se consiguió, es reunirnos con el Poder Legislativo, que ha sido receptivo a su persona y a su trato (...) Lo que queremos decir es que nosotros no vamos a fingir la paz. Nos vamos a sentar a negociar y, si de la otra parte hay voluntad, nos vamos a lo último. Si estuvimos dispuestos a que nos maten, ¿por qué no vamos a estar dispuestos a negociar? No tenemos vocación suicida.
— Anunció usted su regreso a Chiapas, estrategia al fin, ¿cuáles serán sus próximos pasos? En otros términos, ¿qué sigue y hasta dónde?
— Sigue el proceso de paz. Si nosotros logramos, y creo que lo haremos, el reconocimiento de los derechos y la cultura indígena en la Constitución, convencer a Fox de que se siente, que dé las señales y decida trabajar con las comunidades para que ese proceso de paz sea expedito y terso, entonces se necesitará un trabajo interno muy intenso, porque el EZLN todavía tiene que responder una cuestión, una incógnita, porque sabe qué no va hacer cuando esto termine, pero no sabe qué sí va a hacer.
LA INVITACIÓN A LOS PINOS... UNA TRAPA
— Fox dice que lo invita a Los Pinos...
— Es una trampa. Finalmente está tratando de convertir un movimiento serio reivindicativo en un evento de horario triple A. Qué va a ganar el país, qué van a ganar los pueblos indígenas y qué va a ganar el gobierno, ya como proyecto político, el que tenga, si es que lo tiene, con esa foto.
— ¿Le haría un servicio a Fox?
— ¿Por qué?... Sí, yo creo que saldría ganando mucho, pero qué...
— ¿Y usted perdería?
— No, yo no, pero las comunidades sí, porque todo el movimiento que se levantó finalmente sería trivializado. Sería un fenómeno mediático hueco, tan breve, tan fugaz, tan soluble como fue el concierto ése de...
— ¿Dirías que con alguna vileza o perversión, Marcos?
— Sería deshonesto, ruin, vil. Además, yo lo entiendo. Él está haciendo bien su trabajo, necesita construirse esa imagen de gobernabilidad. Sabe que mientras más lo mencionen los medios, aunque sea para mal, su presencia se va haciendo cada vez más fuerte.
— Marcos, yo le digo a usted: Fox está haciendo bien su trabajo a sus ojos...
— A sus ojos de él.
— ¿A los de usted?
— No, porque lo que necesita este país es un gobierno, no un locutor. Y él piensa que sí, que su función es ser locutor porque le va a dar prestigio con la gente, porque lo van a conocer y lo van a parar en la calle.
— ¿Pero para qué?
— Eso es lo que yo digo... finalmente le van a decir: "Nosotros que votamos por ti, o no votamos por ti pero sí votamos en contra del PRI, no te pusimos para eso". Porque una cosa es una campaña electoral y otra cosa es un programa de gobierno. Y la responsabilidad no es sólo de él; es también de su equipo. Pero también de él porque él formó el equipo, o se lo formaron, yo no sé cómo esté ahí. Pero cuentas y te sobran los dedos de una mano de los que son políticos en ese gabinete. Son empresarios bien o mal intencionados. Ni siquiera son empresarios, son gerente. O sea, son empleados de un empresario. Y con esa lógica no se puede dirigir un país.
— ¿A quién salvaría del gabinete?
— A Sari Bermúdez, como escritora. Ella no escribió el libro, bueno... (Dirigiéndose a los camarógrafos de Televisa) Ahí le cortan. Yo hago pausas para que corten lo que vaya a censurar Azcárraga.
EL CUENTO SOBRE LA CARAVANA
— Marcos, a usted le gustan los cuentos. ¿Por qué no nos cuenta uno?
— ¿No los cuenta el gobierno?
— No, ¿por qué no nos cuenta uno? ¿Por qué no nos cuenta el cuento de la Caravana?
— ¿Cómo nació la idea?
— El cuento de la Caravana. Usted escribe un cuento para que se conozca la Caravana. ¿Cómo lo contaría en forma de cuento? Así, en el lenguaje más sencillo, más cálido, lleno de humor. Claro, Marcos, el humor se explica a través del drama. ¿Cómo contaría usted ese cuento?
— Bueno, vamos a pensar así. Nosotros nos quedamos sin salidas. La única forma de hacernos fuertes era salir, era caminar. No teníamos ningún pie. Éramos minusválidos en ese sentido. Teníamos la voz y la mirada, pero teníamos que llevar esa voz y esa mirada a donde fuera escuchada y a donde tuviera dirección esa mirada. Entonces tuvimos que pedir prestados los pies de otros. A la hora que tuvimos que pedir prestados los pies de esos otros, tuvimos que construirlos porque no existían. Entonces empezamos a hablarle al otro y empezamos a darle un rostro, el que otros le negaron, el que es un número, el que es un porcentaje de una encuesta, si es que le toca la suerte de que lo encuesten, y empezamos a llamarlo y a intentar darle rostro y a pedirle que fuera los pies de nosotros. Encontramos unos pies muy disparejos. Es decir, el cuerpo que ya éramos, la mirada, los oídos, los labios que éramos, eran muy pequeños para unos pies muy grandes. Finalmente, cuando empezamos la marcha, empieza una especie de muñeco grotesco. A primera vista, un gigante. Con una vista detenida, un muñeco deforme y grande, con unos grandes pies y un cuerpo muy pequeño, el tronco y la cabeza. Ese muñeco grotesco empieza a andar a traspiés y empieza a tratar de convencer a los pies que no son suyos, que es, de una u otra forma, lo que ha tratado de hacer la Caravana a cada momento que se detiene: decir que no somos nosotros los que hacemos posible eso, sino el pie que nos está llevando, que es la gente que nos está recibiendo. Es en ese momento que se encuentra con el problema de que los pies dicen que quien manda es la cabeza, porque así está la historia hecha y que no ocurre que los pies manden a la cabeza. Y la cabeza, necia con que los que tienen que mandar son los pies. Llega el momento en que los pies y la cabeza dicen lo que todos están pensando y nadie se atreve a decir: Que en el recorrido se dan cuenta de que el mundo está de cabeza, que tiene el que no necesita y el que necesita no tiene nada. Finalmente, ese día, mañana 11, llegan al lugar donde se puede voltear esto para un lado y para otro, y a la hora en que el mundo se voltea de nuevo, los pies descubren que en realidad eran la cabeza, y la cabeza descubre que nunca dejó de ser un pie descalzo; moreno, además. ¡Qué mal me salió!
— Tengo un escrúpulo y una preocupación: que lo más importante que tuviera que decirme no lo haya yo acertado con la pregunta adecuada.
— No, si yo estaba aterrado, porque no sabía qué me iba a preguntar...
— Una cosa que le importe muchísimo y que yo no haya tenido la suerte de preguntarle, Marcos...
— Yo creo que la pregunta que se están haciendo en la clase política: ¿Es sincero Marcos cuando dice que está dispuesto al diálogo y a llegar a la paz? Y la respuesta es sí. Lo único que tenemos para respaldarlo es nuestra palabra. Realmente si nos piden otra cosa, no tenemos otra cosa que darles. Pero tenemos la historia de lo que esa palabra ha significado. No podemos ceder en las tres condiciones porque si cedemos, faltamos a la palabra y eso quiere decir que estaríamos en la posibilidad de subir nuestras demandas, y la garantía que tiene el gobierno de que no vamos a subir nuestras demandas es que tampoco las vamos a bajar. Si decimos una cosa, ésa es. Eso es lo que yo quisiera que entendieran; no sé cómo hacerle, porque las señales que he dado no las entienden. A lo mejor si se desvelan y ven tu programa, me escuchan, a lo mejor es chicle y pega y me creen, pero realmente nosotros estamos siendo sinceros. Y si no lo creen, lo que estamos tratando de hacer con toda esta gente de este movimiento es obligarlos a creer. Nosotros tenemos ese compromiso.
— Muchas gracias.
— A usted... Un anuncio comercial. ¡Es que no tenemos dinero, y el camión se nos acaba el 16!
Subcomandante Insurgente Marcos
— Sigue el proceso de paz. Si nosotros logramos, y creo que lo haremos, el reconocimiento de los derechos y la cultura indígena en la Constitución, convencer a Fox de que se siente, que dé las señales y decida trabajar con las comunidades para que ese proceso de paz sea expedito y terso, entonces se necesitará un trabajo interno muy intenso, porque el EZLN todavía tiene que responder una cuestión, una incógnita, porque sabe qué no va hacer cuando esto termine, pero no sabe qué sí va a hacer.
LA INVITACIÓN A LOS PINOS... UNA TRAPA
— Fox dice que lo invita a Los Pinos...
— Es una trampa. Finalmente está tratando de convertir un movimiento serio reivindicativo en un evento de horario triple A. Qué va a ganar el país, qué van a ganar los pueblos indígenas y qué va a ganar el gobierno, ya como proyecto político, el que tenga, si es que lo tiene, con esa foto.
— ¿Le haría un servicio a Fox?
— ¿Por qué?... Sí, yo creo que saldría ganando mucho, pero qué...
— ¿Y usted perdería?
— No, yo no, pero las comunidades sí, porque todo el movimiento que se levantó finalmente sería trivializado. Sería un fenómeno mediático hueco, tan breve, tan fugaz, tan soluble como fue el concierto ése de...
— ¿Dirías que con alguna vileza o perversión, Marcos?
— Sería deshonesto, ruin, vil. Además, yo lo entiendo. Él está haciendo bien su trabajo, necesita construirse esa imagen de gobernabilidad. Sabe que mientras más lo mencionen los medios, aunque sea para mal, su presencia se va haciendo cada vez más fuerte.
— Marcos, yo le digo a usted: Fox está haciendo bien su trabajo a sus ojos...
— A sus ojos de él.
— ¿A los de usted?
— No, porque lo que necesita este país es un gobierno, no un locutor. Y él piensa que sí, que su función es ser locutor porque le va a dar prestigio con la gente, porque lo van a conocer y lo van a parar en la calle.
— ¿Pero para qué?
— Eso es lo que yo digo... finalmente le van a decir: "Nosotros que votamos por ti, o no votamos por ti pero sí votamos en contra del PRI, no te pusimos para eso". Porque una cosa es una campaña electoral y otra cosa es un programa de gobierno. Y la responsabilidad no es sólo de él; es también de su equipo. Pero también de él porque él formó el equipo, o se lo formaron, yo no sé cómo esté ahí. Pero cuentas y te sobran los dedos de una mano de los que son políticos en ese gabinete. Son empresarios bien o mal intencionados. Ni siquiera son empresarios, son gerente. O sea, son empleados de un empresario. Y con esa lógica no se puede dirigir un país.
— ¿A quién salvaría del gabinete?
— A Sari Bermúdez, como escritora. Ella no escribió el libro, bueno... (Dirigiéndose a los camarógrafos de Televisa) Ahí le cortan. Yo hago pausas para que corten lo que vaya a censurar Azcárraga.
EL CUENTO SOBRE LA CARAVANA
— Marcos, a usted le gustan los cuentos. ¿Por qué no nos cuenta uno?
— ¿No los cuenta el gobierno?
— No, ¿por qué no nos cuenta uno? ¿Por qué no nos cuenta el cuento de la Caravana?
— ¿Cómo nació la idea?
— El cuento de la Caravana. Usted escribe un cuento para que se conozca la Caravana. ¿Cómo lo contaría en forma de cuento? Así, en el lenguaje más sencillo, más cálido, lleno de humor. Claro, Marcos, el humor se explica a través del drama. ¿Cómo contaría usted ese cuento?
— Bueno, vamos a pensar así. Nosotros nos quedamos sin salidas. La única forma de hacernos fuertes era salir, era caminar. No teníamos ningún pie. Éramos minusválidos en ese sentido. Teníamos la voz y la mirada, pero teníamos que llevar esa voz y esa mirada a donde fuera escuchada y a donde tuviera dirección esa mirada. Entonces tuvimos que pedir prestados los pies de otros. A la hora que tuvimos que pedir prestados los pies de esos otros, tuvimos que construirlos porque no existían. Entonces empezamos a hablarle al otro y empezamos a darle un rostro, el que otros le negaron, el que es un número, el que es un porcentaje de una encuesta, si es que le toca la suerte de que lo encuesten, y empezamos a llamarlo y a intentar darle rostro y a pedirle que fuera los pies de nosotros. Encontramos unos pies muy disparejos. Es decir, el cuerpo que ya éramos, la mirada, los oídos, los labios que éramos, eran muy pequeños para unos pies muy grandes. Finalmente, cuando empezamos la marcha, empieza una especie de muñeco grotesco. A primera vista, un gigante. Con una vista detenida, un muñeco deforme y grande, con unos grandes pies y un cuerpo muy pequeño, el tronco y la cabeza. Ese muñeco grotesco empieza a andar a traspiés y empieza a tratar de convencer a los pies que no son suyos, que es, de una u otra forma, lo que ha tratado de hacer la Caravana a cada momento que se detiene: decir que no somos nosotros los que hacemos posible eso, sino el pie que nos está llevando, que es la gente que nos está recibiendo. Es en ese momento que se encuentra con el problema de que los pies dicen que quien manda es la cabeza, porque así está la historia hecha y que no ocurre que los pies manden a la cabeza. Y la cabeza, necia con que los que tienen que mandar son los pies. Llega el momento en que los pies y la cabeza dicen lo que todos están pensando y nadie se atreve a decir: Que en el recorrido se dan cuenta de que el mundo está de cabeza, que tiene el que no necesita y el que necesita no tiene nada. Finalmente, ese día, mañana 11, llegan al lugar donde se puede voltear esto para un lado y para otro, y a la hora en que el mundo se voltea de nuevo, los pies descubren que en realidad eran la cabeza, y la cabeza descubre que nunca dejó de ser un pie descalzo; moreno, además. ¡Qué mal me salió!
— Tengo un escrúpulo y una preocupación: que lo más importante que tuviera que decirme no lo haya yo acertado con la pregunta adecuada.
— No, si yo estaba aterrado, porque no sabía qué me iba a preguntar...
— Una cosa que le importe muchísimo y que yo no haya tenido la suerte de preguntarle, Marcos...
— Yo creo que la pregunta que se están haciendo en la clase política: ¿Es sincero Marcos cuando dice que está dispuesto al diálogo y a llegar a la paz? Y la respuesta es sí. Lo único que tenemos para respaldarlo es nuestra palabra. Realmente si nos piden otra cosa, no tenemos otra cosa que darles. Pero tenemos la historia de lo que esa palabra ha significado. No podemos ceder en las tres condiciones porque si cedemos, faltamos a la palabra y eso quiere decir que estaríamos en la posibilidad de subir nuestras demandas, y la garantía que tiene el gobierno de que no vamos a subir nuestras demandas es que tampoco las vamos a bajar. Si decimos una cosa, ésa es. Eso es lo que yo quisiera que entendieran; no sé cómo hacerle, porque las señales que he dado no las entienden. A lo mejor si se desvelan y ven tu programa, me escuchan, a lo mejor es chicle y pega y me creen, pero realmente nosotros estamos siendo sinceros. Y si no lo creen, lo que estamos tratando de hacer con toda esta gente de este movimiento es obligarlos a creer. Nosotros tenemos ese compromiso.
— Muchas gracias.
— A usted... Un anuncio comercial. ¡Es que no tenemos dinero, y el camión se nos acaba el 16!
Subcomandante Insurgente Marcos
Entrevista de Julio Scherer García
• Carismatico? No, è solo venuto a riempire un vuoto
• Tutti i militari, compreso il sottoscritto, sono uomini assurdi ed irrazionali
• La violenza è sempre inutile
• Fox deve convincersi che governare non è un rating
• Tutti i militari, compreso il sottoscritto, sono uomini assurdi ed irrazionali
• La violenza è sempre inutile
• Fox deve convincersi che governare non è un rating
Alle 11 di notte di venerdì 9 marzo è squillato il telefono alla Direzione del Proceso.
- Rafael? Parla Marcos...
- Come stai Marcos? Che succede? Ci tieni nell'incertezza, che è peggio della delusione. Sei disponibile adesso?
- Certo, andiamo avanti. Per quando sarebbe?
- Anche subito, se puoi...
- A che ora?
- Bene, vediamo. All'una, quanto ci basta per arrivare, con tutta l'apparecchiatura di "Televisa"...
- Accidenti, anche con "Televisa" e tutto...
- Non ti stupire... Te lo avevo detto nella lettera...
- D'accordo, non te la prendere...
E fu così che alle due precise della mattina di sabato 10 iniziava l'intervista di Julio Scherer Garcìa al subcomandante Marcos nel cortile del convento annesso alla Parroquia de la Asunción de María, dove pernottava la carovana dell'EZLN, nella delegazione di Milpa Alta. Lo sforzo di varie settimane per mettere uno di fronte all'altro il fondatore di Proceso ed il leader ribelle dava così i suoi frutti in una intervista che ha avuto un'insolita aggiunta: la presenza delle telecamere di Televisa, che con questo settimanale condivide la diffusione dell'avvenimento giornalistico.
L'intervista, in una fredda notte di luna piena nel cortile del convento, è durata esattamente un'ora e 15 minuti, con le arcate e una fontana a far da scenario e con il comandante Tacho nel ruolo di silenzioso lontano spettatore.
Qui, un Marcos completamente rilassato, ha conversato, scherzato, distribuito autografi, rispondendo a qualsiasi domanda.
Qualcuno gli ha chiesto: "Quali sono gli incubi che più ti provocano insonnia?".
- Sognare che ascolto quel programma... Come si chiama?... Fox con te, Fox... non so che cosa.
Comunque, ecco qui di seguito la versione integrale dell'intervista di Marcos a Proceso.
- Che si fa, che si dice, chi si prega quando si è arrivati al punto in cui lei è arrivato, tanto contrastato, tanto temuto, tanto ammirato, tanto unico?
- Pensiamo che si sia costruita una immagine di Marcos che non corrisponde alla realtà, che ha solo a che vedere con il mondo che gestito dai mezzi di comunicazione, che hanno ormai smesso di interloquire con la gente e si sono fatti interlocutori della sola classe politica. In questo senso, i mezzi di comunicazione non sono più preoccupati di quello che chiede la maggioranza della gente, bensì, in un modo o nell'altro, si retroalimentano, perché nel processo di transizione il grande elettore si è trasformato in mezzo di comunicazione. La sua capacità di influenza nel momento di prendere delle decisioni, la sua capacità di decidere la rotta che il paese deve seguire, perfino definendo i ritmi nei periodi di transizione, tutto ciò ha fornito ai mezzi di comunicazione un potere sul quale essi non hanno neppure ben riflettuto ma, in questo senso, i mezzi di comunicazione di fatto trasformano quello che toccano...
- Marcos, lei non può negare la sua figura carismatica...
- Si, certo che posso, come no?
- Non deve farlo, perché lo è. Non m'immagino lei che fa mostra di cose nella consapevolezza non siano vere. Lei non può negare di riconoscere ciò che è, una figura che attrae moltissima gente.
- C'è un vuoto. Il fatto è che c'è un vuoto nella società. C'è un vuoto che si cerca di riempire in un modo o nell'altro. Il vuoto che ha riempito Fox, nel campo della politica, non significa che sia ciò che avrebbe potuto o dovuto essere. La stessa cosa accade con Marcos.
- Chi si può paragonare a lei per carisma? Nell'Esercito Zapatista, chi è alla sua altezza?
- All'interno dell'Esercito Zapatista?
- Chi si può paragonare a lei, della gente che lei conosce?
- All'interno, nessuno credo, ma questo non ha nulla a che vedere con...
- E all'esterno?
- All'esterno? Sempre nessuno.
- Ossia, lei è carismatico...
- No, la verità è che l'immagine di Marcos risponde ad alcune aspettative romantiche, idealiste. Ossia, l'uomo bianco in mezzo agli indigeni, più vicino a ciò che l'inconscio collettivo ha come punto di riferimento: Robin Hood, Juan Charrasqueado, ecc...
- Cos'è che la rende carismatico?
- Molti equivoci sono originati da un presunto talento letterario, da una presunta capacità di manovrare il timing politico, anche se in realtà si sta piuttosto rispondendo a delle necessità interne e, nello scompiglio della classe politica nazionale, tutto viene interpretato come se stessimo meditando ogni passo che facciamo. Mi creda, siamo molto più mediocri di quello che la gente pensa; soprattutto, non siamo così brillanti come ci pensa la classe politica.
- Lei non può dire questo...
- Sì che posso.
- La mediocrità non ha nulla a che vedere con lei, neppure come espressione verbale...
- No... Non sto negando ciò che sono, sto solo cercando di spiegare le circostanze nelle quali ci troviamo, altrimenti si cancella o si perde la prospettiva reale di ciò che è il personaggio. La maggioranza delle nostre dichiarazioni sono discutibili e non vengono poste in discussione solo perché sono inserite in un contesto sociale che implica altre cose. Mettere in discussione le posizioni di Marcos significa mettere in discussione la legittimità di una causa, e questo è sempre problematico, soprattutto a livello intellettuale. In un modo o nell'altro questo ci ha danneggiato, perché, mi creda, ci fa bene il dibattito, lo scambio di idee. In effetti, noi siamo stati pronti a questo scambio di idee e ci dispiace che per varie ragioni non si sia verificato.
- Vedo il paese pericolosamente diviso: da una parte, le ombre vive di Juan Rulfo; dall'altra, i corpi ben nutriti dal potere e dal denaro. Con tutte le sfumature che si vogliano, mi sembra che lei ed il Presidente Fox siate oggi le immagini di questi due mondi. Se è così, c'è tra di voi l'intesa, la fiducia che si possa dar vita alla comprensione?
- Sì. Pensiamo proprio di sì. Noi stiamo continuamente progettando la possibilità di un dialogo. Tutta questa mobilitazione ha l'obiettivo di convincere questa persona - che non ha nulla da perdere, ma solo molto da guadagnare - a sedersi davanti a noi con la seria volontà di risolvere il conflitto. Questo non è facile, perché intorno alla figura di Fox sono in gioco molte forze, tra le quali la sua stessa forza: una persona che ha scelto di costruirsi un'immagine attraverso una complessa operazione di marketing che ha dato dei risultati, dei buoni risultati nel periodo elettorale, ma che non può estendersi al periodo di governo. Allora, ecco che abbiamo bisogno di convincerlo che il problema non è un problema di rating, bensì di governabilità ed è questo che noi stiamo offrendo: non una rivolta sociale, ma il riconoscimento di questo settore sociale (gli indigeni), delle sue potenzialità e, infine, della sua differenza...
MONDI OPPOSTI
- A parte il fatto che entrambi esercitate una forma di potere, una forma di influenza, c'è qualcos'altro che vi accomuna?
- Il fatto che tutti e due raccontiamo male le barzellette... Però, a parte questo, non solo rappresentiamo due mondi diametralmente opposti, ma anche quello che vogliamo fare è diametralmente opposto. Noi siamo dalla parte del mondo che cammina verso il riconoscimento delle differenze, lui sta camminando verso il mondo che va ad egemonizzare ed omogeneizzare non solo la nazione ma l'intero pianeta. In questo caso si cerca di far sì che il concetto di uguaglianza abbia come riferimento la legge di mercato: siamo uguali quando abbiamo lo stesso potere d'acquisto. Noi invece stiamo sottolineando proprio le differenze: la differenza culturale, la differenza del rapporto con la terra, del rapporto tra le persone, della relazione con la storia, della relazione con l'altro. Proponiamo un mondo completamente opposto a quello che Vicente Fox rappresenta e andiamo ancora più in là, perché noi affermiamo che nel mondo che proponiamo c'è posto anche per Vicente Fox, mentre, al contrario, nel mondo che lui propone ci risulta molto chiaro che non c'è posto per gli zapatisti.
- Come potrebbe trovare posto Fox nel vostro mondo, dal momento che è un leader, nella dimensione che si voglia, della libera impresa?
- Imparando. Siamo convinti che la libera impresa può imparare a relazionarsi con noi. Non pensiamo che tutti gli impresari siano dei ladri, dato che alcuni di essi hanno costruito la loro ricchezza per mezzo di lavoro onesto ed onorato. Il fatto che alcuni dei personaggi che arrivano alla ribalta pubblica siano invischiati con la criminalità non vuol dire certamente che sia così per tutti. Noi non auspichiamo il ritorno del comunismo primitivo, né della cosiddetta uguaglianza a "tabula rasa", che in fin dei conti nasconde una differenza tra la élite politica - di sinistra o di destra che sia- e la grande maggioranza impoverita. Chiediamo che qualunque settore sociale abbia la possibilità di farsi sentire come tale; non vogliamo elemosine, ma solo l'opportunità di realizzarci, in questo paese, come una realtà diversa. Nel Tephè la popolazione sta portando avanti un progetto turistico. Tutti i guadagni vengono divisi collettivamente e l'impresa comunitaria può competere sul mercato, per quel che riguarda la sua efficienza, con qualsiasi catena di grandi hotel. E allora, perché non riconoscere a questo gruppo la sua capacità imprenditoriale dandogli i vantaggi e le possibilità di mercato che vengono concesse ai grandi imprenditori proprietari di hotel? È questo che è in gioco: la possibilità di costruire un altro tipo di relazioni, anche all'interno del mercato stesso, che non rappresentino il capitalismo selvaggio, dove tutti si divorano tra di loro. I potenti di questo paese non si accorgono che i loro giorni sono contati, e non a causa di una rivoluzione sociale, bensì proprio per l'avanzamento del grande potere finanziario. Nel Messico, i Garza Sada, gli Slim, gli Zambrano, i Romo e tanti altri delle loro dimensioni non hanno più un futuro assicurato, non per il pericolo che il popolo si sollevi ed instauri una repubblica socialista, ma perché le loro fortune sono ormai nelle mire del grande capitale di altre latitudini.
E allora noi sosteniamo: nel governo non si stanno più prendendo le decisioni fondamentali. E quindi, perché preoccuparci se il governo è di sinistra, di destra o del centro, sempre che esista un centro? Pensiamo che in Messico debba essere ricostruito il concetto di Nazione e che ricostruire non vuol dire tornare al passato, non è un tornare a Juarez, né al liberalismo contrapposto al conservatorismo. Non è quella la storia che dobbiamo riscattare. Dobbiamo ricostruire la nazione su basi ben diverse, e queste basi poggiano sul riconoscimento della differenza.
Quando diciamo che il nuovo secolo ed il nuovo millennio rappresentano il secolo ed il millennio delle differenze, sottolineiamo una rottura fondamentale con quello che ha rappresentato il secolo XX: la grande lotta delle egemonie. L'ultima che ricordiamo, tra il campo socialista e quello capitalista, ha dato luogo a due guerre mondiali. Se non ci si rende conto di questo, il mondo finirà per essere un arcipelago in guerra continua all'interno e all'esterno. E così non sarà possibile vivere.
IL PROGETTO PUEBLA-PANAMA
Ciò nonostante, il mercato può adattarsi a questa realtà; gli è possibile operare in uno scenario di destabilizzazione o di guerra civile e continuare ad avere quotazioni alla borsa valori. Alla gente di tutto questo non si dice nulla ma, al contrario, viene offerto un mondo idilliaco nel quale apparentemente non esistono frontiere per comprare o per vendere... Però in realtà le frontiere non solo continueranno ad esistere, ma addirittura si moltiplicheranno, proprio come avverrà con la realizzazione del progetto Puebla-Panama, che sarà un enorme crimine: gli Stati Uniti estenderanno la loro frontiera fin qui, fino a Milpa Alta, dove ci troviamo adesso. Nel resto del Paese, verso Sud, sarà Centro-America, e "OK", che convivano con le loro guerriglie, con i loro governi dittatoriali, con i loro cacique, come in Yukatan e in Tabasco - il Chiapas fortunatamente ha avuto un break sotto questo aspetto -, che continuino a seguire la logica delle repubbliche delle banane. Nel resto del territorio messicano, da qui fino a nord, comincia ad essere attuato un brutale processo di eliminazione di grandi settori sociali. Inoltre, tutti gli indigeni che resteranno da questa parte dovranno sparire, perché non verranno accettati da questo modello neoliberale, dato che non rendono. Nessuno farà investimenti su di loro.
SOLO SE FOX E' UNA PERSONA SERIA, CI SARANNO RISULTATI
-Marcos, questo non è uno scherzo. Dal punto di vista del suo modo di vedere le cose, io credo il presidente Fox stia dicendo: quanto tempo ci vorrà perché tutto questo venga approvato?
- Noi stiamo cercando di aiutarlo il più possibile. Ovviamente, il nostro modo di procedere non è politico. Lui deve capire, tutti devono capire, che non siamo una forza politica nel vero senso della parola: siamo un gruppo armato che sta facendo politica e, in questo senso, ci portiamo dietro carenze, errori di valutazione, un orizzonte molto limitato, camminando sul filo del messianismo e del realismo politico, tutte cose molto difficili per noi. Ci proponiamo di cercare di convincere questo governo, non soltanto Fox, che può sedersi ad un tavolo con noi con la certezza di ottenere buoni risultati, se lo fa seriamente. Noi non siamo assolutamente impegnati a danneggiare o far fallire in qualche modo il suo programma di governo - che però fallirà, non perché sia un cattivo governo, ma semplicemente perché non esiste -. Ciò in cui siamo impegnati - lo abbiamo dichiarato in tutta questa marcia e lo vediamo riflesso in tutti i mezzi di comunicazione - è che si riconosca un consenso assoluto sul fatto che questo è il momento di saldare il debito storico.
Il Messico compie quasi 200 anni come nazione indipendente ed in ogni momento gli indigeni hanno rivestito un ruolo fondamentale, ma in nessun momento questo è stato loro riconosciuto. Non possono continuare a cercare di farci scomparire, perché su questo fronte già hanno fallito. Non potranno mai far scomparire il mondo indigeno con qualsiasi campagna, con qualsiasi bomba, con qualsiasi arma che vogliano usare, dato che, in un modo o nell'altro, il movimento indigeno resiste e si protegge. Hanno fallito gli spagnoli, i francesi, gli statunitensi e tutti i regimi liberali, da Juarez a quello di oggi. E allora, perché non ammettere che gli indigeni sono qui e che è necessari dar loro delle opportunità? Noi, quello che chiediamo, è una opportunità. E se poi sbaglieremo, lo riconosceremo, dato che non staremo peggio di come stavamo prima...
VOCAZIONE DI MORTE, PERSA
- Marcos, continuo a far paragoni tra lei ed il presidente. Entrambi parlate di pace. Può darsi che il presidente lo faccia per propaganda e lei perché è sotto lo sguardo e la voce adirata degli emarginati. Ho una certa qual percezione di violenza, ancora sopita, ma che già si respira nell'aria. Lei ha detto a Carlos Monsivàis che se non ci saranno accordi "scoppierà qualche cosa". Ha parlato di gruppi sovversivi e ha detto che ce ne saranno di più numerosi e di più intransigenti se non si arriverà a degli accordi. Queste parole mi riportano alla "guerra sporca" degli anni settanta, ma ancora più estesa. Su questo tema, qual è il suo pensiero?
- Guarda, ciò che noi pensiamo è che questa guerra è persa. La "guerra sporca" ormai è persa. In un modo o nell'altro, la nostra presenza e la persistenza dei processi nell'America Latina significano una realtà che nessuno si azzarda a riconoscere: la "guerra sporca" l'anno persa i promotori, quelli che l'hanno incominciata e che alla fine non hanno potuto smettere con i movimenti armati, proprio per il fatto che continuano a rinascere. Se noi falliremo in questo cammino del dialogo - e ci stiamo riferendo all'EZLN e Fox - il segnale sarà molto chiaro per i movimenti più radicali, perché farà riferimento alle loro prese di posizione di fronte al dialogo ed al negoziato, dato che queste cose, per loro, significano ammainare le bandiere, significano vendersi, significano tradire. Qualsiasi contatto con il nemico, che non sia per chiedere una resa, è per se stesso una resa. Se questo segnale in questo caso viene mandato dal PAN, dal governo di Fox e dall'EZLN, questa eventualità avrà in effetti molte probabilità di verificarsi. E non stiamo parlando di gruppi radicali isolati, solitari, che non hanno nessun consenso sociale...
- Come negli anni settanta?
- Lo zapatismo è un movimento sociale che, di fronte alla possibilità della lotta armata, ha preferito scegliere la via del dialogo e del negoziato e, per ora, ha fallito. Quando ci sono movimenti di ribellione, trionfa chi non muore, chi persiste, non chi vince. Dal punto di vista del governo, si può vincere solo se si annienta l'avversario. Ma sarebbe una guerra a lungo termine, durante la quale il terrorismo arriverebbe nella strada in cui vivi, nella tua casa, nel tuo televisore, un po' come è successo nei primi giorni della guerra del 1994, quando hanno incominciato a verificarsi alcuni atti terroristici che non avevano niente a che vedere con noi, quando già si diceva, in altro modo: la guerra non è soltanto in Chiapas, può essere qui, in una via qualunque, in un centro commerciale, nella nostra casa. È così importante per la nazione, e io oserei dire per il mondo intero, quello che qui è in gioco, che ormai la cosa non riguarda soltanto la Legge Indigena, non si tratta soltanto del successo mediatico di Fox o del rating alto o basso di Marcos, o di quello che lui rappresenta o non rappresenta come simbolo, come mito, come leader sociale o come futuro dirigente della sinistra. Quello che qui è in gioco è la stessa possibilità di una soluzione del conflitto. Noi andremo a sederci ad un tavolo e ad annullarci, nel senso che già abbiamo detto: aiutateci a perdere. Quello che stiamo dicendo a Fox e soprattutto al Parlamento è proprio questo: che ci aiutino a perdere. Se abbiamo successo in questa mobilitazione pacifica, che senso ha per l'EZLN o per i movimenti armati continuare ad imbracciare le armi? Però non vogliamo rinnovare le stesse sconfitte del passato.
Noi non vogliamo dare a questo paese un altro "corrido", un altro eroe frustrato nel lungo elenco di sconfitte che già abbiamo. Vogliamo scomparire, e che la gente che ci sta vedendo ed ascoltando in questo momento, o che leggerà il tuo articolo sul tuo giornale, sappia che può essere partecipe in tutto questo.
Non chiediamo che votino per noi, né che ci mandino un assegno, né che ci paghino una parcella, niente di tutto questo: chiediamo solo che si risolva una questione storica e che la persona x, chiunque sia, riconosca che occupa un posto, che è parte della propria storia. Non andiamo verso la sinistra, né verso la sinistra più radicale, perché qualche personaggio canti "corrido". Non lo faremo, perché proprio non abbiamo questa vocazione. L'abbiamo persa in qualche momento, stando a contatto con le nostre comunità; abbiamo perso la vocazione di morte in questo senso. Tuttavia, questo non vuole dire che la temiamo, dato che non stiamo giocando. Il fatto è che noi non aspiriamo a questo, né vogliamo forzare il movimento per arrivare ad una sconfitta. Questo sarà difficile farlo comprendere alla controparte, perché i loro schemi sono solo schemi del passato. E non li accuso se non comprendono, dato che a volte neppure noi ci capiamo.
- Non li accusa di non comprendere?
- Certo, a volte neppure noi ci comprendiamo. Però per lo meno siamo sinceri, siamo onesti e poco politici, e tutti in Messico lo possono dire.
GLI ERRORI DI MARCOS
- Dentro di lei, in tutta coscienza, quali sono gli errori che ha commesso l'Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale e quali sono gli errori che ha commesso lei personalmente? Trascorsi 20 anni, quanti lei ne ha passati su queste montagne, si dice che non vi è stato alcun miglioramento fra gli indigeni. Lei stesso ha affermato, a ragione, che pur se non vi è stato alcun miglioramento, ora avete la speranza e avete la dignità e che questa è una luce, non una semplice fiammella; è necessario essere liberi, sfuggire, vincere questo stato di miseria di anni... Quanta energia perde un uomo, Marcos, che non può provvedere a se stesso, che non può lavorare, che non può concentrarsi nella lettura di un libro? Ossia, la dignità e la speranza mi sembrano due valori fondamentali. Senza di esse la vita non ha senso, però nella miseria atroce, la dignità è molto difficile, la speranza è molto difficile...
- C'è qualcosa di ancora peggiore di tutto questo, ed è tramandare a quelli che verranno la mancanza di una speranza. In questo momento, sei cosciente che tutte le difficoltà che stai affrontando le passerai ai tuoi figli e non trasmetterai loro la possibilità di superarle. È questo sentimento di tenacia e di appartenenza alla collettività che ci ha dato la forza di continuare ad andare avanti. Tra gli errori che ha commesso l'EZLN come organizzazione c'è quello di non aver imparato più in fretta delle comunità. Quando si prospetta il fenomeno dei municipi autonomi, l'EZLN si trova tanto impelagato nelle comunità che, in un modo o nell'altro, permeano anche la presa di decisioni. Nel momento in cui le comunità incominciano ad organizzarsi come governo e a prendere delle decisioni, l'EZLN incomincia a scontrarsi con queste. Ed è così che ci rendiamo conto che le comunità hanno imparato, più in fretta di noi, non soltanto a vivere in situazione di resistenza di fronte ad un potere che stanno sfidando, ma anche perché stanno costruendo un'alternativa; tu stai pensando alla situazione in cui siamo e loro invece stanno già pensando a quelli che verranno. Loro stanno pensando alle generazioni che verranno, per non tramandare loro questa mancanza di speranza.
L'errore fondamentale di Marcos è quello di non aver dedicato attenzione - ed io lo perdono perché sono io e se non lo perdono io, chi lo perdona? non è così? -, di non aver previsto questa personalizzazione e questo protagonismo che spesso, se non quasi sempre, impedisce di vedere ciò che sta dietro. Tutto questo non ci procura un grande dispiacere come organizzazione, dato che noi sappiamo bene cosa c'è dietro, e vediamo tutta una organizzazione che può continuare a sopravvivere, anche senza guerra... Questo molta gente non lo ha percepito; ha molto a che vedere con il fatto che Marcos abbia offuscato, in qualche modo ostacolato la vista di ciò che sta dietro. Che, in un modo o nell'altro, Marcos sia responsabile anche di questo, bene, può darsi che la sua dose di vanità, di protagonismo o di buffoneria, o come la si voglia definire, abbia contribuito... Però la ragione principale è che la maggioranza della gente - vale a dire, dei giovani - non nutre aspettative nello spettro politico, ed è quindi logico che si afferri a quello che c'è a portata di mano; e dall'altro lato, c'è il rilievo che a tutto questo è stato dato nella vita nazionale, in modo particolare attraverso i mezzi di comunicazione, posto che questi ultimi non solo decidono quale protagonista si trasforma in politico, ma anche che posto occupa questo protagonista politico...
- O che il politico si trasformi in comico...
- E al contrario: che il comico si trasformi in politico ed arrivi ad essere presidente... questo taglialo. Sto parlando bene di Fox (...) o ne sto parlando male? Se adesso ne parlo bene, pensa come sarà quando ne parlerò male... Ecco come funziona la pubblicità...
LA NON ESISTENZA
- Gli indigeni sopportano secoli di sfruttamento, però la loro fame è la stessa fame degli emarginati. Lei ha affermato che la sua lotta è nazionale e chiapaneca, naturalmente. Qualche volta, Marcos, negli incubi e nei sogni, ha ascoltato il clamore di tutti gli oltraggiati?
- Soprattutto in questa marcia. Abbiamo previsto che questo sarebbe successo e le comunità, quando ce lo ordinano, delimitano, o "pongono il laccio", come diciamo noi, affinché si proceda solo verso un certo obiettivo. In un modo o nell'altro, ad ogni passo della marcia, non solo nasce l'ascolto di questo grido di dolore, ma anche la tentazione di fargli eco. E niente è più facile, né più irresponsabile. Perché è facile procedere allo stesso passo e dire: "Anche io rivendico la tua lotta e quindi torniamo indietro". Noi abbiamo cercato di resistere a tutto questo e di rispondere alla gente: "Riconosciamo che la tua protesta è giusta, ma per ora andiamo avanti su questo". Non possiamo occuparci d'altro.
- La preoccupa la possibilità che gli emarginati si uniscano a lei?
- Magari. Non mi spaventa e lo vorrei. Quello che non vorrei è che si creino false aspettative su una persona o su un movimento che non è nato il 1° di gennaio del 1994. Noi avevamo alle spalle un lavoro di molti anni e fatto di tanti sacrifici. Non è facile raggiungere la coesione, l'omogeneità e l'unità che hanno gli zapatisti, che hanno resistito a tanti assalti, a tanti attacchi. E all'improvviso, per i mezzi di comunicazione, sembra che l'EZLN sia nato il 1° di gennaio del 1994. Questa può essere una tentazione: che un movimento possa incominciare così, che il primo passo sarà la legittimità, ma questo non è vero. Perché il primo passo della legittimità è il proprio riconoscimento.
- Ma pensi agli emarginati, tanti milioni...
- Questo conflitto non ha rimedio, ed è quello che abbiamo detto a Fox. Su questo punto non ci sono alternative. Quello che adesso è in gioco qui, nel nostro movimento, avvicinandoci alla capitale, è il modo in cui si vuole affrontare questo conflitto. Però non si può pensare che questo conflitto resterà latente o che sarà controllato. Scoppierà. Ciò che adesso dovranno dire è se questo conflitto lo affronteranno per mezzo del dialogo o del negoziato, oppure se preferiranno ricorrere alle armi, ricorrere alla violenza. Dovranno scegliere tra la via politica e la via armata per affrontare questo conflitto.
- La miseria è molto più che un corpo affamato. È la bambina che Heberto Castillo ha visto abbracciata ad una pietra, sua figlia, e sono le 50 bambine di un istituto che giocano con la stessa bambolina ridotta ad uno straccio. Lei, Marcos, come vede la miseria?
- Anch'io con l'immagine di una bimba. Una bambina che mi è morta fra le braccia, di meno di 5 anni, morta di febbre, nella comunità di Las Tazas, perché non avevo nessuna medicina per abbassarle la febbre è così mi è morta fra le braccia. Abbiamo cercato di farle scendere la febbre con l'acqua, con panni bagnati, l'abbiamo immersa nell'acqua e tutto, suo padre ed io. Se n'è andata. Non aveva bisogno di un intervento chirurgico, né di un ospedale. Aveva solo bisogno di una pastiglia, di una piccola medicina... E' ridicolo, perché quella bambina in un certo senso neppure era nata, non esisteva un atto di nascita. Che c'è di più miserevole di nascere e morire senza che nessuno lo sappia?
- Lei che ha provato?
- Impotenza, rabbia. Ti cade il mondo addosso, pensi che tutto quello in cui pensavi e che tutto quello che hai fatto fino ad allora è inutile se non è valso ad evitare quella morte ingiusta, assurda, irrazionale, stupida...
- E se queste terribili emozioni si ripetono in moltissime occasioni, è possibile una lotta in cui si intravede nel fondo, anche se non dichiarato, un sentimento di vendetta?
- Questo è il pericolo. Se questo rancore sociale non si organizza, arriva necessariamente la vendetta. E nel caso dei gruppi indigeni, può tendere al fondamentalismo, e allora non c'è dialogo che tenga... Per questo noi abbiamo detto che è meglio che questo malcontento si organizzi. In ogni caso, che la saggezza e la sapienza di questo movimento scelga.
- Marcos, quante vittime hanno vissuto senza sapere cos'è la vita?
- E' proprio questo che non vogliamo che si ripeta. Non vogliamo che si ripetano casi di gente che non nasce e che non muore. Gente che non esiste. Non esiste per te, non esiste per il pubblico, non esiste per Fox e per nessuno. Al di fuori dello loro famiglie, non sono esistiti per nessuno. Adesso, nel periodo di resistenza delle comunità indigene, abbiamo abbassato il tasso di mortalità fino a 200-300 all'anno. Ne avevamo, prima del 1994, 15.000 all'anno. La maggioranza, minori di 5 anni, mai registrati con un atto di nascita...
- Vivere senza esistere, Marcos...
- E non soltanto questo. Se vivi ed esisti, è con vergogna. Si tratta di smettere di vergognarsi in modo da essere accettati nei capoluoghi municipali e nei centri di lavoro. Con la faccia indigena, si era oggetto di scherno e di inganni. Il solo fatto di aver la pelle scura e parlare un altro idioma, già voleva dire che il prodotto del tuo lavoro aveva un prezzo inferiore.
- Lei è un ribelle che esige cambiamenti profondi o un rivoluzionario che lotta per trasformazioni radicali, un altro modo di fare la patria?
- Noi ci consideriamo soprattutto dei ribelli che vogliono cambiamenti sociali. Come dire che la definizione classica del rivoluzionario non ci sta bene. Nel contesto in cui siamo nati, cioè nelle comunità indigene, non c'era questa aspettativa. Perché il soggetto collettivo è tale anche nel processo rivoluzionario, ed è proprio questo che indica le regole da seguire.
- Se lei dovesse fallire come ribelle, sceglierebbe la strada della rivoluzione?
- È un obiettivo diverso. Il rivoluzionario tende a convertirsi in un politico, mentre il ribelle sociale non smette di essere un ribelle sociale. Nel momento in cui Marcos o lo zapatismo dovessero trasformarsi in un progetto rivoluzionario, cioè in qualche cosa che lo trasformi in un attore politico all'interno della classe politica, lo zapatismo fallirebbe come proposta alternativa.
- Perché un rivoluzionario si trasforma in politico?
- Perché un rivoluzionario si propone fondamentalmente di cambiare le cose dall'alto e non dal basso, proprio all'opposto di un ribelle sociale. Il rivoluzionario si propone: formiamo un movimento, così prendo il potere e cambio le cose dall'alto. Il ribelle sociale no. Il ribelle sociale organizza le masse e dal basso cerca di trasformare le cose, senza porsi il problema della presa del potere.
- Quando dice tutto questo pensa alla Rivoluzione Messicana?
- Sì, penso a Zapata e a Carranza, soprattutto. Carranza, che si propone i cambiamenti nel momento di prendere il potere. E Zapata, che pensa alle rivendicazioni e al momento di farsi fotografare neppure si alza dalla sedia. Noi ci identifichiamo con lo zapatismo. C'è bisogno di politici, disgraziatamente, ma soprattutto di leader sociali. Credo che lo zapatismo debba fare delle scelte e che opterà per i leader sociali.
LA REPUBBLICA DELLA TV
- Forse il termine "politico" è adeguato o forse no. Lei me lo potrà chiarire. Io penso che lei sia un politico. Non ho dubbi sul fatto che sia uno scrittore di prosa rimata. Che poeta la ispira? Che statista l'attrae? Che guerrigliero le dà forza?
- Incominciamo dal fondo: come capo militare, Villa. Come movimento sociale armato, Zapata. Come leader sociale, non vedo nessuno nell'attuale orizzonte che risponda al concetto di uomo di Stato. Non c'è. I grandi uomini di Stato appartengono ormai alla preistoria. Adesso ci sono dei mercatologi, buoni o cattivi... Oggi come oggi non metterei la mano sul fuoco per nessuno come leader politico, perché non vedo nessuno che risponda al concetto di uomo di Stato, dal momento che l'uomo di Stato è quello che ha la capacità di guardare avanti e adesso non conosco nessun leader politico che sappia guardare oltre il proprio naso, in tutti i sensi.
- A proposito di Villa, Marcos, nel suo incontro con Vicente Leñero nel 1994 lei già aveva espresso la sua ammirazione per questo personaggio; guerrigliero implacabile, buon soldato e uomo di governo in Chihuahua, secondo la monumentale biografia di Friedrich Katz. Lei s'identifica con El Centauro?
- Vorrei poterlo fare. Era un uomo che aveva la visione di corpo, un uomo preoccupato per le sue truppe, e non mi riferisco soltanto alle sue truppe regolari, ma anche ai territori che andava conquistando. Non si preoccupava solo di combattere, ma anche di organizzare. Sfortunatamente, questa parte della sua vita è la meno conosciuta. Ma disgraziatamente, Villa è quello dei corridos, quello del cavallo Siete Leguas.
- Di fronte a queste capacità, quanto pesa la violenza inutile?
- La violenza si rivela sempre inutile, però uno non se ne rende conto finché non la pratica o la subisce
- E lei non se ne è reso conto, Marcos?
- Non lo so. Penso che alla lunga capiterà anche a noi, perché sempre si arriva ad avere dei vuoti o dei buchi al momento di valutare una persona... In definitiva, tutti i militari, compreso il sottoscritto, sono uomini assurdi ed irrazionali perché hanno la possibilità di ricorrere alla violenza per riuscire a convincere. In fin dei conti è proprio questo che fa un militare quando impartisce un ordine: convince con la forza delle armi. Per questo noi sosteniamo che i militari non debbono mai governare, noi compresi, ovviamente. Perché chi ha dovuto ricorrere alle armi per far valere le proprie idee, è molto povero di idee.
- Voglio farle un'osservazione: le armi non convincono, s'impongono.
- Sì. In fin dei conti è proprio così. Per questo noi sosteniamo che i movimenti armati, per quanto rivoluzionari siano, sono fondamentalmente dei movimenti arbitrari. Ad ogni modo, ciò che deve fare un movimento armato è sollevare il problema e mettersi da parte. È ciò che adesso stiamo riuscendo a fare con successo, dopo sette anni nelle comunità. Fra gli errori che abbiamo commesso vi è quello di non aver imparato più rapidamente come districarci da tutto questo. Ci siamo messi da parte per davvero. I municipi autonomi sono tanto autonomi che non ci fanno più neppure caso.
- Il comandante Germàn non è popolare. Dà disposizioni, dirige, dà ordini, sale per primo sul camion, scende per ultimo, riceve i documenti, li distribuisce, parla con la forza del comando. Pesano sospetti su di lui e nessuno parla del suo umanitarismo. Non me lo spiego Germàn, tanto diverso da voi e tanto diverso dagli indigeni, in qualità di portavoce centrale di quello che fa l'EZLN. Nei gradi dell'Esercito Zapatista lui è il comandante e lei il sub. Germàn è quello che dà ordini, è quello che dispone. Lei, in qualche modo, obbedisce, riceve o esegue le istruzioni o gli ordini...
- No! L'architetto Fernando Yañez, che è conosciuto come il comandante Germàn, rappresenta, quando lo convoca l'EZLN, il collegamento con il Potere Legislativo ed i partiti politici; rappresenta un segnale che, comei tanti che abbiamo dato, il governo non ha saputo leggere. Attraverso di lui, sta dicendo l'EZLN, siamo disposti a compiere il passo dalla clandestinità alla vita pubblica. Questo è fondamentale. L'architetto Yàñez sale e scende dal camion perché gli è stato affidato l'incarico della sicurezza. Quelli che comandano, nell'Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, sono i capi indigeni. Questa è la verità. Però, la percezione che hai tu e coloro che ci stanno vedendo adesso è che ci sono io e alle mie spalle deve esserci Tacho che mi protegge... Ma dalla parte delle comunità le cose sono al contrario: ci sono loro per prime e noi dietro... L'architetto Yañez non ha alcun comando né ascendenza militare all'interno dell'EZLN. Sta rispondendo ad una richiesta che noi gli stiamo facendo perché vogliamo dare questo segnale che nessuno sta percependo. E se un movimento armato sta dicendo che le cose vanno in un certo modo e che, guardate, siamo disposti a questo, ma nessuno ci fa caso, allora è chiaro che la classe politica ha bisogno di una bella lezione.
- Non mi sento coinvolto, perché questo segnale non è stato esplicito.
- Però si accompagna ad altri. Quello che il governo messicano si sta chiedendo è fino a che punto Marcos e l'EZLN non stiano giocando con una scommessa di popolarità e di logoramento di nervi, per guadagnare tempo. Prima, con Zedillo, noi eravamo disposti a firmare la pace, con lui che era un imbecille, un mediocre, e adesso ecco che si può allora dire, perché non andiamo a farlo con Fox, che per di più è il prodotto di un processo elettorale legittimo? A noi non spaventa il fatto di firmare la pace con la destra, perché non è questo il nostro problema. Ci sarebbe lo stesso problema se al potere ora ci fosse la sinistra elettorale. Noi stiamo cercando di convincere la controparte, in questo caso il governo federale, del fatto che siamo disposti a risolvere tutto questo e a farlo in fretta, ma abbiamo necessità di una serie di segnali. Noi ne diamo uno. Non lo vedono, forse perché non lo facciamo nella maniera politica, ma è chiaro non ci è mancata la volontà. Se non riusciamo a fare in modo che tu veda questo segnale o che la classe politica veda questo segnale, questo è per noi un fallimento e allora andiamo a cercarne un altro, ma penso che questo paese debba saldare un conto aperto con tanta gente, non solo con Yàñez, ma con molte persone che sono rimaste lungo il cammino con tutti i movimenti clandestini, che sono molto più potenti in termini di patriottismo e di impegno sociale, nonché di sacrificio, di quanto possa dire qualsiasi "corrido" in onore di Lucio Cabañas o di Genaro Vàsquez. Quello che noi volevamo fare, ed è evidente che non ci siamo riusciti, è riunirci con il Potere Legislativo... Ciò che vogliamo dire è che noi non intendiamo fingere di fare la pace. Vogliamo sederci a negoziare e, se dall'altra parte c'è volontà, arrivare fino in fondo. Se siamo stati disposti a farci ammazzare, perché non dovremmo essere disposti a negoziare? Non abbiamo nessuna vocazione suicida.
- Quali saranno i suoi prossimi passi?
- Continua il processo di pace. Se noi otteniamo, e credo lo otterremo, il riconoscimento dei diritti e della cultura degli indigeni nella Costituzione, se riusciamo quindi a convincere Fox a sedersi al tavolo del negoziato, a dare i segnali richiesti e a decidere di lavorare con le comunità affinché questo processo di pace sia veloce e limpido, allora ci sarà bisogno di una attività molto intensa all'interno, perché l'EZLN deve ancora dare risposta ad una questione, ad una incognita, perché anche se crede che non avrà più nulla da fare quando tutto questo avrà termine, non sa che al contrario avrà molto da fare.
L'INVITO A LOS PINOS... UNA TRAPPOLA
- Fox dice che la vuole invitare a Los Pinos...
- È una trappola. In fin dei conti, sta cercando di trasformare un movimento serio e rivendicativo in un evento da massima audience. Cosa ha da guadagnare il paese, cosa hanno da guadagnare le popolazioni indigene, cosa ha da guadagnare il governo, come progetto politico, qualunque progetto abbia, sempre che lo abbia, con questa foto?
- Lei farebbe un servizio fotografico con Fox?
- E perché? Certo, penso che guadagnerebbe molto, però che...
- E lei perderebbe?
- No, io no, ma le comunità sì, perché tutto il movimento che si è sollevato alla fine verrebbe oltraggiato. Sarebbe un fenomeno mediatico vuoto, tanto breve, tanto fugace, tanto solubile come è stato questo concerto di...
- Direbbe che sotto c'è qualche viltà, qualche perversione, Marcos?
- Sarebbe disonesto, distruttivo, vile. D'altronde, lo capisco. Lui sta facendo bene il suo lavoro, ha bisogno di costruirsi questa immagine di governabilità. Sa bene che fino a quando i mezzi di comunicazione parlano di lui, anche se in negativo, la sua presenza si rafforza sempre di più.
- Marcos, io dico a lei: Fox sta facendo bene il suo lavoro secondo lei...
- No, secondo lui.
- E secondo lei?
- No, perché ciò di cui ha bisogno questo paese è di un governo, non di un annunciatore televisivo. E lui invece pensa, al contrario, che la sua funzione sia quella di un annunciatore televisivo, perché questo gli crea prestigio con la gente, perché così tutti lo conoscono e lo fermano per strada.
- Però, perché?
- È proprio questo che io mi chiedo... dato che alla fine gli andranno a dire: "Noi che abbiamo votato per te, o che non abbiamo votato per te però abbiamo votato contro il PRI, non ti abbiamo dato questo posto perché tu faccia questo". Perché una cosa è una campagna elettorale ed un'altra cosa è un programma di governo. E la responsabilità non è soltanto sua, è anche della sua équipe. Ma soprattutto sua, perché è lui che ha formato l'équipe. Oppure è il contrario, non so come stiano le cose. Comunque, prova a contare e ti basteranno le dita in una mano per contare quelli che sono i politici di questo gabinetto. Sono imprenditori, bene o male intenzionati. Anzi, non sono neppure imprenditori, sono semplici gerenti. Ossia, sono degli impiegati di un imprenditore. E con questa logica non si può dirigere un paese.
- Chi salverebbe di questo gabinetto?
- Sari Bermùdez, come scrittrice. Lei non ha scritto un libro, bene... (Voltandosi verso i cameraman della Televisa) Questo lo tagliate. Adesso faccio una pausa in modo che possiate tagliare quello che sto per dire di Azcàrraga.
LA FAVOLA DELLA CAROVANA
- Marcos, a lei piacciono le favole. Perché non ce ne racconta una?
- Non le racconta già il governo?
- No, perché non ce ne racconta una? Perché non ci racconta la favola della Carovana?
- Di com'è venuta l'idea?
- La favola della Carovana. Lei scrive una favola per fare in modo che si conosca la Carovana. Come lo farebbe in forma di favola? Così, nel linguaggio più semplice, più caldo, pieno di humour. Certo, Marcos, l'humour si esprime attraverso il dramma. Come racconterebbe lei questa favola?
- Bene, mettiamola così. Noi eravamo rimasti senza vie d'uscita. L'unico modo per rafforzarci era quello di uscire, era quello di camminare. Ma non avevamo piedi. Eravamo menomati in questo senso. Avevamo la voce e lo sguardo, però dovevamo alzare questa voce e questo sguardo in un posto dove la voce potesse essere ascoltata e dove lo sguardo potesse spaziare in qualche direzione. Allora abbiamo dovuto chiedere ad altri di prestarci i piedi. Ma quando abbiamo dovuto chiedere ad altri di prestarci i piedi, questi altri li abbiamo dovuti costruire, perché non esistevano. Allora abbiamo incominciato a parlare a questo "altro", abbiamo incominciato a dargli un volto, che però non voleva, a spiegare che cosa è un numero, che cosa è una percentuale in una inchiesta, se è una fortuna far parte del campione, ed abbiamo incominciato a chiamarlo, a cercare di dargli un volto e a chiedergli che diventasse i nostri piedi. Ci siamo trovati alla fine con dei piedi molto disuguali. Ossia, il corpo che già avevamo, lo sguardo, gli occhi, le labbra che già avevamo, erano molto piccoli per dei piedi molto grandi. Alla fine, quando abbiamo iniziato la marcia, inizia a muoversi una specie di pupazzo grottesco. A prima vista, un gigante. Ad uno sguardo più attento, un pupazzo grande e deforme, con dei grandi piedi ed un corpo molto piccolo, nel tronco e nella testa. Questo pupazzo grottesco incomincia a muoversi inciampando ed incomincia a cercare di convincere i piedi, che non sono suoi, cosa che, in un modo o nell'altro, ha cercato di fare la Carovana in ogni occasione in cui si è fermata: spiegare che non siamo noi quelli che hanno reso possibile tutto questo, ma i piedi che ci stanno portando, che sono la stessa gente che ci sta accogliendo. E' in questo momento che sorge il problema dei piedi che dicono che chi comanda è la testa, perché così è stata fatta la storia e mai è successo che siano i piedi a dare ordini alla testa. E la testa, che da parte sua continua a sostenere che quelli che debbono comandare sono i piedi. Arriva allora il momento in cui sia i piedi che la testa dicono quello che tutti stanno pensando e nessuno ha il coraggio di dire. Durante il percorso, si rendono conto che questo mondo è pazzo: che chi non ha bisogno è ricco e chi ha bisogno non ha nulla. Finalmente, arriva quel giorno, domani 11, arrivano nel posto in cui si può raddrizzare tutto da un lato e dall'altro, nell'ora in cui il mondo si può riaggiustare, quando i piedi si rendono conto che in realtà loro erano la testa e la testa si accorge di non aver mai cessato di essere un piede scalzo, e per di più dalla pelle scura. Come mi è venuta male questa storia!
- Ho uno scrupolo e una preoccupazione: di non aver fatto le domande più importanti.
- Non credo, dato che io ero atterrito, dal momento che non sapevo che cosa mi sarebbe stato chiesto...
- Una cosa che per lei ha moltissima importanza e che io non ho avuto la buona sorte di chiederle, Marcos...
- Credo sia la domanda che si stanno facendo nella classe politica. Marcos è sincero quando dice che è disposto al dialogo e ad arrivare alla pace? La risposta è sì. L'unica cosa che abbiamo per avallarlo è la nostra parola. Per davvero, se ci chiedono qualcosa d'altro, non sappiamo che altro offrire. Però abbiamo dalla nostra parte la storia di ciò che questa parola ha significato. Non possiamo cedere nelle tre condizioni poste, perché se cediamo manchiamo di parola e questo vorrebbe anche dire che ci troveremmo nella possibilità di accrescere le nostre richieste, e la garanzia che ha il governo è che né le aumenteremo né le diminuiremo. Quando diciamo una cosa, è quella. È questo che io vorrei che capissero; ma non so come farlo, perché i segnali che ho dato non li capiscono. Forse se si tolgono le bende dagli occhi e vedono questo tuo programma, chissà che non mi ascoltino; forse questo è proprio quello che ci vuole affinché mi credano una buona volta; comunque sia, noi siamo veramente sinceri. E se non lo credono, ciò che ora stiamo cercando di fare con tutta la gente di questo movimento è obbligarli a crederlo. Abbiamo assunto questo impegno.
- Molte grazie.
- A lei... Un annuncio pubblicitario. Il fatto è che siamo senza soldi e il camion è noleggiato fino al 16!
Subcomandante Insurgente Marcos
- Rafael? Parla Marcos...
- Come stai Marcos? Che succede? Ci tieni nell'incertezza, che è peggio della delusione. Sei disponibile adesso?
- Certo, andiamo avanti. Per quando sarebbe?
- Anche subito, se puoi...
- A che ora?
- Bene, vediamo. All'una, quanto ci basta per arrivare, con tutta l'apparecchiatura di "Televisa"...
- Accidenti, anche con "Televisa" e tutto...
- Non ti stupire... Te lo avevo detto nella lettera...
- D'accordo, non te la prendere...
E fu così che alle due precise della mattina di sabato 10 iniziava l'intervista di Julio Scherer Garcìa al subcomandante Marcos nel cortile del convento annesso alla Parroquia de la Asunción de María, dove pernottava la carovana dell'EZLN, nella delegazione di Milpa Alta. Lo sforzo di varie settimane per mettere uno di fronte all'altro il fondatore di Proceso ed il leader ribelle dava così i suoi frutti in una intervista che ha avuto un'insolita aggiunta: la presenza delle telecamere di Televisa, che con questo settimanale condivide la diffusione dell'avvenimento giornalistico.
L'intervista, in una fredda notte di luna piena nel cortile del convento, è durata esattamente un'ora e 15 minuti, con le arcate e una fontana a far da scenario e con il comandante Tacho nel ruolo di silenzioso lontano spettatore.
Qui, un Marcos completamente rilassato, ha conversato, scherzato, distribuito autografi, rispondendo a qualsiasi domanda.
Qualcuno gli ha chiesto: "Quali sono gli incubi che più ti provocano insonnia?".
- Sognare che ascolto quel programma... Come si chiama?... Fox con te, Fox... non so che cosa.
Comunque, ecco qui di seguito la versione integrale dell'intervista di Marcos a Proceso.
- Che si fa, che si dice, chi si prega quando si è arrivati al punto in cui lei è arrivato, tanto contrastato, tanto temuto, tanto ammirato, tanto unico?
- Pensiamo che si sia costruita una immagine di Marcos che non corrisponde alla realtà, che ha solo a che vedere con il mondo che gestito dai mezzi di comunicazione, che hanno ormai smesso di interloquire con la gente e si sono fatti interlocutori della sola classe politica. In questo senso, i mezzi di comunicazione non sono più preoccupati di quello che chiede la maggioranza della gente, bensì, in un modo o nell'altro, si retroalimentano, perché nel processo di transizione il grande elettore si è trasformato in mezzo di comunicazione. La sua capacità di influenza nel momento di prendere delle decisioni, la sua capacità di decidere la rotta che il paese deve seguire, perfino definendo i ritmi nei periodi di transizione, tutto ciò ha fornito ai mezzi di comunicazione un potere sul quale essi non hanno neppure ben riflettuto ma, in questo senso, i mezzi di comunicazione di fatto trasformano quello che toccano...
- Marcos, lei non può negare la sua figura carismatica...
- Si, certo che posso, come no?
- Non deve farlo, perché lo è. Non m'immagino lei che fa mostra di cose nella consapevolezza non siano vere. Lei non può negare di riconoscere ciò che è, una figura che attrae moltissima gente.
- C'è un vuoto. Il fatto è che c'è un vuoto nella società. C'è un vuoto che si cerca di riempire in un modo o nell'altro. Il vuoto che ha riempito Fox, nel campo della politica, non significa che sia ciò che avrebbe potuto o dovuto essere. La stessa cosa accade con Marcos.
- Chi si può paragonare a lei per carisma? Nell'Esercito Zapatista, chi è alla sua altezza?
- All'interno dell'Esercito Zapatista?
- Chi si può paragonare a lei, della gente che lei conosce?
- All'interno, nessuno credo, ma questo non ha nulla a che vedere con...
- E all'esterno?
- All'esterno? Sempre nessuno.
- Ossia, lei è carismatico...
- No, la verità è che l'immagine di Marcos risponde ad alcune aspettative romantiche, idealiste. Ossia, l'uomo bianco in mezzo agli indigeni, più vicino a ciò che l'inconscio collettivo ha come punto di riferimento: Robin Hood, Juan Charrasqueado, ecc...
- Cos'è che la rende carismatico?
- Molti equivoci sono originati da un presunto talento letterario, da una presunta capacità di manovrare il timing politico, anche se in realtà si sta piuttosto rispondendo a delle necessità interne e, nello scompiglio della classe politica nazionale, tutto viene interpretato come se stessimo meditando ogni passo che facciamo. Mi creda, siamo molto più mediocri di quello che la gente pensa; soprattutto, non siamo così brillanti come ci pensa la classe politica.
- Lei non può dire questo...
- Sì che posso.
- La mediocrità non ha nulla a che vedere con lei, neppure come espressione verbale...
- No... Non sto negando ciò che sono, sto solo cercando di spiegare le circostanze nelle quali ci troviamo, altrimenti si cancella o si perde la prospettiva reale di ciò che è il personaggio. La maggioranza delle nostre dichiarazioni sono discutibili e non vengono poste in discussione solo perché sono inserite in un contesto sociale che implica altre cose. Mettere in discussione le posizioni di Marcos significa mettere in discussione la legittimità di una causa, e questo è sempre problematico, soprattutto a livello intellettuale. In un modo o nell'altro questo ci ha danneggiato, perché, mi creda, ci fa bene il dibattito, lo scambio di idee. In effetti, noi siamo stati pronti a questo scambio di idee e ci dispiace che per varie ragioni non si sia verificato.
- Vedo il paese pericolosamente diviso: da una parte, le ombre vive di Juan Rulfo; dall'altra, i corpi ben nutriti dal potere e dal denaro. Con tutte le sfumature che si vogliano, mi sembra che lei ed il Presidente Fox siate oggi le immagini di questi due mondi. Se è così, c'è tra di voi l'intesa, la fiducia che si possa dar vita alla comprensione?
- Sì. Pensiamo proprio di sì. Noi stiamo continuamente progettando la possibilità di un dialogo. Tutta questa mobilitazione ha l'obiettivo di convincere questa persona - che non ha nulla da perdere, ma solo molto da guadagnare - a sedersi davanti a noi con la seria volontà di risolvere il conflitto. Questo non è facile, perché intorno alla figura di Fox sono in gioco molte forze, tra le quali la sua stessa forza: una persona che ha scelto di costruirsi un'immagine attraverso una complessa operazione di marketing che ha dato dei risultati, dei buoni risultati nel periodo elettorale, ma che non può estendersi al periodo di governo. Allora, ecco che abbiamo bisogno di convincerlo che il problema non è un problema di rating, bensì di governabilità ed è questo che noi stiamo offrendo: non una rivolta sociale, ma il riconoscimento di questo settore sociale (gli indigeni), delle sue potenzialità e, infine, della sua differenza...
MONDI OPPOSTI
- A parte il fatto che entrambi esercitate una forma di potere, una forma di influenza, c'è qualcos'altro che vi accomuna?
- Il fatto che tutti e due raccontiamo male le barzellette... Però, a parte questo, non solo rappresentiamo due mondi diametralmente opposti, ma anche quello che vogliamo fare è diametralmente opposto. Noi siamo dalla parte del mondo che cammina verso il riconoscimento delle differenze, lui sta camminando verso il mondo che va ad egemonizzare ed omogeneizzare non solo la nazione ma l'intero pianeta. In questo caso si cerca di far sì che il concetto di uguaglianza abbia come riferimento la legge di mercato: siamo uguali quando abbiamo lo stesso potere d'acquisto. Noi invece stiamo sottolineando proprio le differenze: la differenza culturale, la differenza del rapporto con la terra, del rapporto tra le persone, della relazione con la storia, della relazione con l'altro. Proponiamo un mondo completamente opposto a quello che Vicente Fox rappresenta e andiamo ancora più in là, perché noi affermiamo che nel mondo che proponiamo c'è posto anche per Vicente Fox, mentre, al contrario, nel mondo che lui propone ci risulta molto chiaro che non c'è posto per gli zapatisti.
- Come potrebbe trovare posto Fox nel vostro mondo, dal momento che è un leader, nella dimensione che si voglia, della libera impresa?
- Imparando. Siamo convinti che la libera impresa può imparare a relazionarsi con noi. Non pensiamo che tutti gli impresari siano dei ladri, dato che alcuni di essi hanno costruito la loro ricchezza per mezzo di lavoro onesto ed onorato. Il fatto che alcuni dei personaggi che arrivano alla ribalta pubblica siano invischiati con la criminalità non vuol dire certamente che sia così per tutti. Noi non auspichiamo il ritorno del comunismo primitivo, né della cosiddetta uguaglianza a "tabula rasa", che in fin dei conti nasconde una differenza tra la élite politica - di sinistra o di destra che sia- e la grande maggioranza impoverita. Chiediamo che qualunque settore sociale abbia la possibilità di farsi sentire come tale; non vogliamo elemosine, ma solo l'opportunità di realizzarci, in questo paese, come una realtà diversa. Nel Tephè la popolazione sta portando avanti un progetto turistico. Tutti i guadagni vengono divisi collettivamente e l'impresa comunitaria può competere sul mercato, per quel che riguarda la sua efficienza, con qualsiasi catena di grandi hotel. E allora, perché non riconoscere a questo gruppo la sua capacità imprenditoriale dandogli i vantaggi e le possibilità di mercato che vengono concesse ai grandi imprenditori proprietari di hotel? È questo che è in gioco: la possibilità di costruire un altro tipo di relazioni, anche all'interno del mercato stesso, che non rappresentino il capitalismo selvaggio, dove tutti si divorano tra di loro. I potenti di questo paese non si accorgono che i loro giorni sono contati, e non a causa di una rivoluzione sociale, bensì proprio per l'avanzamento del grande potere finanziario. Nel Messico, i Garza Sada, gli Slim, gli Zambrano, i Romo e tanti altri delle loro dimensioni non hanno più un futuro assicurato, non per il pericolo che il popolo si sollevi ed instauri una repubblica socialista, ma perché le loro fortune sono ormai nelle mire del grande capitale di altre latitudini.
E allora noi sosteniamo: nel governo non si stanno più prendendo le decisioni fondamentali. E quindi, perché preoccuparci se il governo è di sinistra, di destra o del centro, sempre che esista un centro? Pensiamo che in Messico debba essere ricostruito il concetto di Nazione e che ricostruire non vuol dire tornare al passato, non è un tornare a Juarez, né al liberalismo contrapposto al conservatorismo. Non è quella la storia che dobbiamo riscattare. Dobbiamo ricostruire la nazione su basi ben diverse, e queste basi poggiano sul riconoscimento della differenza.
Quando diciamo che il nuovo secolo ed il nuovo millennio rappresentano il secolo ed il millennio delle differenze, sottolineiamo una rottura fondamentale con quello che ha rappresentato il secolo XX: la grande lotta delle egemonie. L'ultima che ricordiamo, tra il campo socialista e quello capitalista, ha dato luogo a due guerre mondiali. Se non ci si rende conto di questo, il mondo finirà per essere un arcipelago in guerra continua all'interno e all'esterno. E così non sarà possibile vivere.
IL PROGETTO PUEBLA-PANAMA
Ciò nonostante, il mercato può adattarsi a questa realtà; gli è possibile operare in uno scenario di destabilizzazione o di guerra civile e continuare ad avere quotazioni alla borsa valori. Alla gente di tutto questo non si dice nulla ma, al contrario, viene offerto un mondo idilliaco nel quale apparentemente non esistono frontiere per comprare o per vendere... Però in realtà le frontiere non solo continueranno ad esistere, ma addirittura si moltiplicheranno, proprio come avverrà con la realizzazione del progetto Puebla-Panama, che sarà un enorme crimine: gli Stati Uniti estenderanno la loro frontiera fin qui, fino a Milpa Alta, dove ci troviamo adesso. Nel resto del Paese, verso Sud, sarà Centro-America, e "OK", che convivano con le loro guerriglie, con i loro governi dittatoriali, con i loro cacique, come in Yukatan e in Tabasco - il Chiapas fortunatamente ha avuto un break sotto questo aspetto -, che continuino a seguire la logica delle repubbliche delle banane. Nel resto del territorio messicano, da qui fino a nord, comincia ad essere attuato un brutale processo di eliminazione di grandi settori sociali. Inoltre, tutti gli indigeni che resteranno da questa parte dovranno sparire, perché non verranno accettati da questo modello neoliberale, dato che non rendono. Nessuno farà investimenti su di loro.
SOLO SE FOX E' UNA PERSONA SERIA, CI SARANNO RISULTATI
-Marcos, questo non è uno scherzo. Dal punto di vista del suo modo di vedere le cose, io credo il presidente Fox stia dicendo: quanto tempo ci vorrà perché tutto questo venga approvato?
- Noi stiamo cercando di aiutarlo il più possibile. Ovviamente, il nostro modo di procedere non è politico. Lui deve capire, tutti devono capire, che non siamo una forza politica nel vero senso della parola: siamo un gruppo armato che sta facendo politica e, in questo senso, ci portiamo dietro carenze, errori di valutazione, un orizzonte molto limitato, camminando sul filo del messianismo e del realismo politico, tutte cose molto difficili per noi. Ci proponiamo di cercare di convincere questo governo, non soltanto Fox, che può sedersi ad un tavolo con noi con la certezza di ottenere buoni risultati, se lo fa seriamente. Noi non siamo assolutamente impegnati a danneggiare o far fallire in qualche modo il suo programma di governo - che però fallirà, non perché sia un cattivo governo, ma semplicemente perché non esiste -. Ciò in cui siamo impegnati - lo abbiamo dichiarato in tutta questa marcia e lo vediamo riflesso in tutti i mezzi di comunicazione - è che si riconosca un consenso assoluto sul fatto che questo è il momento di saldare il debito storico.
Il Messico compie quasi 200 anni come nazione indipendente ed in ogni momento gli indigeni hanno rivestito un ruolo fondamentale, ma in nessun momento questo è stato loro riconosciuto. Non possono continuare a cercare di farci scomparire, perché su questo fronte già hanno fallito. Non potranno mai far scomparire il mondo indigeno con qualsiasi campagna, con qualsiasi bomba, con qualsiasi arma che vogliano usare, dato che, in un modo o nell'altro, il movimento indigeno resiste e si protegge. Hanno fallito gli spagnoli, i francesi, gli statunitensi e tutti i regimi liberali, da Juarez a quello di oggi. E allora, perché non ammettere che gli indigeni sono qui e che è necessari dar loro delle opportunità? Noi, quello che chiediamo, è una opportunità. E se poi sbaglieremo, lo riconosceremo, dato che non staremo peggio di come stavamo prima...
VOCAZIONE DI MORTE, PERSA
- Marcos, continuo a far paragoni tra lei ed il presidente. Entrambi parlate di pace. Può darsi che il presidente lo faccia per propaganda e lei perché è sotto lo sguardo e la voce adirata degli emarginati. Ho una certa qual percezione di violenza, ancora sopita, ma che già si respira nell'aria. Lei ha detto a Carlos Monsivàis che se non ci saranno accordi "scoppierà qualche cosa". Ha parlato di gruppi sovversivi e ha detto che ce ne saranno di più numerosi e di più intransigenti se non si arriverà a degli accordi. Queste parole mi riportano alla "guerra sporca" degli anni settanta, ma ancora più estesa. Su questo tema, qual è il suo pensiero?
- Guarda, ciò che noi pensiamo è che questa guerra è persa. La "guerra sporca" ormai è persa. In un modo o nell'altro, la nostra presenza e la persistenza dei processi nell'America Latina significano una realtà che nessuno si azzarda a riconoscere: la "guerra sporca" l'anno persa i promotori, quelli che l'hanno incominciata e che alla fine non hanno potuto smettere con i movimenti armati, proprio per il fatto che continuano a rinascere. Se noi falliremo in questo cammino del dialogo - e ci stiamo riferendo all'EZLN e Fox - il segnale sarà molto chiaro per i movimenti più radicali, perché farà riferimento alle loro prese di posizione di fronte al dialogo ed al negoziato, dato che queste cose, per loro, significano ammainare le bandiere, significano vendersi, significano tradire. Qualsiasi contatto con il nemico, che non sia per chiedere una resa, è per se stesso una resa. Se questo segnale in questo caso viene mandato dal PAN, dal governo di Fox e dall'EZLN, questa eventualità avrà in effetti molte probabilità di verificarsi. E non stiamo parlando di gruppi radicali isolati, solitari, che non hanno nessun consenso sociale...
- Come negli anni settanta?
- Lo zapatismo è un movimento sociale che, di fronte alla possibilità della lotta armata, ha preferito scegliere la via del dialogo e del negoziato e, per ora, ha fallito. Quando ci sono movimenti di ribellione, trionfa chi non muore, chi persiste, non chi vince. Dal punto di vista del governo, si può vincere solo se si annienta l'avversario. Ma sarebbe una guerra a lungo termine, durante la quale il terrorismo arriverebbe nella strada in cui vivi, nella tua casa, nel tuo televisore, un po' come è successo nei primi giorni della guerra del 1994, quando hanno incominciato a verificarsi alcuni atti terroristici che non avevano niente a che vedere con noi, quando già si diceva, in altro modo: la guerra non è soltanto in Chiapas, può essere qui, in una via qualunque, in un centro commerciale, nella nostra casa. È così importante per la nazione, e io oserei dire per il mondo intero, quello che qui è in gioco, che ormai la cosa non riguarda soltanto la Legge Indigena, non si tratta soltanto del successo mediatico di Fox o del rating alto o basso di Marcos, o di quello che lui rappresenta o non rappresenta come simbolo, come mito, come leader sociale o come futuro dirigente della sinistra. Quello che qui è in gioco è la stessa possibilità di una soluzione del conflitto. Noi andremo a sederci ad un tavolo e ad annullarci, nel senso che già abbiamo detto: aiutateci a perdere. Quello che stiamo dicendo a Fox e soprattutto al Parlamento è proprio questo: che ci aiutino a perdere. Se abbiamo successo in questa mobilitazione pacifica, che senso ha per l'EZLN o per i movimenti armati continuare ad imbracciare le armi? Però non vogliamo rinnovare le stesse sconfitte del passato.
Noi non vogliamo dare a questo paese un altro "corrido", un altro eroe frustrato nel lungo elenco di sconfitte che già abbiamo. Vogliamo scomparire, e che la gente che ci sta vedendo ed ascoltando in questo momento, o che leggerà il tuo articolo sul tuo giornale, sappia che può essere partecipe in tutto questo.
Non chiediamo che votino per noi, né che ci mandino un assegno, né che ci paghino una parcella, niente di tutto questo: chiediamo solo che si risolva una questione storica e che la persona x, chiunque sia, riconosca che occupa un posto, che è parte della propria storia. Non andiamo verso la sinistra, né verso la sinistra più radicale, perché qualche personaggio canti "corrido". Non lo faremo, perché proprio non abbiamo questa vocazione. L'abbiamo persa in qualche momento, stando a contatto con le nostre comunità; abbiamo perso la vocazione di morte in questo senso. Tuttavia, questo non vuole dire che la temiamo, dato che non stiamo giocando. Il fatto è che noi non aspiriamo a questo, né vogliamo forzare il movimento per arrivare ad una sconfitta. Questo sarà difficile farlo comprendere alla controparte, perché i loro schemi sono solo schemi del passato. E non li accuso se non comprendono, dato che a volte neppure noi ci capiamo.
- Non li accusa di non comprendere?
- Certo, a volte neppure noi ci comprendiamo. Però per lo meno siamo sinceri, siamo onesti e poco politici, e tutti in Messico lo possono dire.
GLI ERRORI DI MARCOS
- Dentro di lei, in tutta coscienza, quali sono gli errori che ha commesso l'Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale e quali sono gli errori che ha commesso lei personalmente? Trascorsi 20 anni, quanti lei ne ha passati su queste montagne, si dice che non vi è stato alcun miglioramento fra gli indigeni. Lei stesso ha affermato, a ragione, che pur se non vi è stato alcun miglioramento, ora avete la speranza e avete la dignità e che questa è una luce, non una semplice fiammella; è necessario essere liberi, sfuggire, vincere questo stato di miseria di anni... Quanta energia perde un uomo, Marcos, che non può provvedere a se stesso, che non può lavorare, che non può concentrarsi nella lettura di un libro? Ossia, la dignità e la speranza mi sembrano due valori fondamentali. Senza di esse la vita non ha senso, però nella miseria atroce, la dignità è molto difficile, la speranza è molto difficile...
- C'è qualcosa di ancora peggiore di tutto questo, ed è tramandare a quelli che verranno la mancanza di una speranza. In questo momento, sei cosciente che tutte le difficoltà che stai affrontando le passerai ai tuoi figli e non trasmetterai loro la possibilità di superarle. È questo sentimento di tenacia e di appartenenza alla collettività che ci ha dato la forza di continuare ad andare avanti. Tra gli errori che ha commesso l'EZLN come organizzazione c'è quello di non aver imparato più in fretta delle comunità. Quando si prospetta il fenomeno dei municipi autonomi, l'EZLN si trova tanto impelagato nelle comunità che, in un modo o nell'altro, permeano anche la presa di decisioni. Nel momento in cui le comunità incominciano ad organizzarsi come governo e a prendere delle decisioni, l'EZLN incomincia a scontrarsi con queste. Ed è così che ci rendiamo conto che le comunità hanno imparato, più in fretta di noi, non soltanto a vivere in situazione di resistenza di fronte ad un potere che stanno sfidando, ma anche perché stanno costruendo un'alternativa; tu stai pensando alla situazione in cui siamo e loro invece stanno già pensando a quelli che verranno. Loro stanno pensando alle generazioni che verranno, per non tramandare loro questa mancanza di speranza.
L'errore fondamentale di Marcos è quello di non aver dedicato attenzione - ed io lo perdono perché sono io e se non lo perdono io, chi lo perdona? non è così? -, di non aver previsto questa personalizzazione e questo protagonismo che spesso, se non quasi sempre, impedisce di vedere ciò che sta dietro. Tutto questo non ci procura un grande dispiacere come organizzazione, dato che noi sappiamo bene cosa c'è dietro, e vediamo tutta una organizzazione che può continuare a sopravvivere, anche senza guerra... Questo molta gente non lo ha percepito; ha molto a che vedere con il fatto che Marcos abbia offuscato, in qualche modo ostacolato la vista di ciò che sta dietro. Che, in un modo o nell'altro, Marcos sia responsabile anche di questo, bene, può darsi che la sua dose di vanità, di protagonismo o di buffoneria, o come la si voglia definire, abbia contribuito... Però la ragione principale è che la maggioranza della gente - vale a dire, dei giovani - non nutre aspettative nello spettro politico, ed è quindi logico che si afferri a quello che c'è a portata di mano; e dall'altro lato, c'è il rilievo che a tutto questo è stato dato nella vita nazionale, in modo particolare attraverso i mezzi di comunicazione, posto che questi ultimi non solo decidono quale protagonista si trasforma in politico, ma anche che posto occupa questo protagonista politico...
- O che il politico si trasformi in comico...
- E al contrario: che il comico si trasformi in politico ed arrivi ad essere presidente... questo taglialo. Sto parlando bene di Fox (...) o ne sto parlando male? Se adesso ne parlo bene, pensa come sarà quando ne parlerò male... Ecco come funziona la pubblicità...
LA NON ESISTENZA
- Gli indigeni sopportano secoli di sfruttamento, però la loro fame è la stessa fame degli emarginati. Lei ha affermato che la sua lotta è nazionale e chiapaneca, naturalmente. Qualche volta, Marcos, negli incubi e nei sogni, ha ascoltato il clamore di tutti gli oltraggiati?
- Soprattutto in questa marcia. Abbiamo previsto che questo sarebbe successo e le comunità, quando ce lo ordinano, delimitano, o "pongono il laccio", come diciamo noi, affinché si proceda solo verso un certo obiettivo. In un modo o nell'altro, ad ogni passo della marcia, non solo nasce l'ascolto di questo grido di dolore, ma anche la tentazione di fargli eco. E niente è più facile, né più irresponsabile. Perché è facile procedere allo stesso passo e dire: "Anche io rivendico la tua lotta e quindi torniamo indietro". Noi abbiamo cercato di resistere a tutto questo e di rispondere alla gente: "Riconosciamo che la tua protesta è giusta, ma per ora andiamo avanti su questo". Non possiamo occuparci d'altro.
- La preoccupa la possibilità che gli emarginati si uniscano a lei?
- Magari. Non mi spaventa e lo vorrei. Quello che non vorrei è che si creino false aspettative su una persona o su un movimento che non è nato il 1° di gennaio del 1994. Noi avevamo alle spalle un lavoro di molti anni e fatto di tanti sacrifici. Non è facile raggiungere la coesione, l'omogeneità e l'unità che hanno gli zapatisti, che hanno resistito a tanti assalti, a tanti attacchi. E all'improvviso, per i mezzi di comunicazione, sembra che l'EZLN sia nato il 1° di gennaio del 1994. Questa può essere una tentazione: che un movimento possa incominciare così, che il primo passo sarà la legittimità, ma questo non è vero. Perché il primo passo della legittimità è il proprio riconoscimento.
- Ma pensi agli emarginati, tanti milioni...
- Questo conflitto non ha rimedio, ed è quello che abbiamo detto a Fox. Su questo punto non ci sono alternative. Quello che adesso è in gioco qui, nel nostro movimento, avvicinandoci alla capitale, è il modo in cui si vuole affrontare questo conflitto. Però non si può pensare che questo conflitto resterà latente o che sarà controllato. Scoppierà. Ciò che adesso dovranno dire è se questo conflitto lo affronteranno per mezzo del dialogo o del negoziato, oppure se preferiranno ricorrere alle armi, ricorrere alla violenza. Dovranno scegliere tra la via politica e la via armata per affrontare questo conflitto.
- La miseria è molto più che un corpo affamato. È la bambina che Heberto Castillo ha visto abbracciata ad una pietra, sua figlia, e sono le 50 bambine di un istituto che giocano con la stessa bambolina ridotta ad uno straccio. Lei, Marcos, come vede la miseria?
- Anch'io con l'immagine di una bimba. Una bambina che mi è morta fra le braccia, di meno di 5 anni, morta di febbre, nella comunità di Las Tazas, perché non avevo nessuna medicina per abbassarle la febbre è così mi è morta fra le braccia. Abbiamo cercato di farle scendere la febbre con l'acqua, con panni bagnati, l'abbiamo immersa nell'acqua e tutto, suo padre ed io. Se n'è andata. Non aveva bisogno di un intervento chirurgico, né di un ospedale. Aveva solo bisogno di una pastiglia, di una piccola medicina... E' ridicolo, perché quella bambina in un certo senso neppure era nata, non esisteva un atto di nascita. Che c'è di più miserevole di nascere e morire senza che nessuno lo sappia?
- Lei che ha provato?
- Impotenza, rabbia. Ti cade il mondo addosso, pensi che tutto quello in cui pensavi e che tutto quello che hai fatto fino ad allora è inutile se non è valso ad evitare quella morte ingiusta, assurda, irrazionale, stupida...
- E se queste terribili emozioni si ripetono in moltissime occasioni, è possibile una lotta in cui si intravede nel fondo, anche se non dichiarato, un sentimento di vendetta?
- Questo è il pericolo. Se questo rancore sociale non si organizza, arriva necessariamente la vendetta. E nel caso dei gruppi indigeni, può tendere al fondamentalismo, e allora non c'è dialogo che tenga... Per questo noi abbiamo detto che è meglio che questo malcontento si organizzi. In ogni caso, che la saggezza e la sapienza di questo movimento scelga.
- Marcos, quante vittime hanno vissuto senza sapere cos'è la vita?
- E' proprio questo che non vogliamo che si ripeta. Non vogliamo che si ripetano casi di gente che non nasce e che non muore. Gente che non esiste. Non esiste per te, non esiste per il pubblico, non esiste per Fox e per nessuno. Al di fuori dello loro famiglie, non sono esistiti per nessuno. Adesso, nel periodo di resistenza delle comunità indigene, abbiamo abbassato il tasso di mortalità fino a 200-300 all'anno. Ne avevamo, prima del 1994, 15.000 all'anno. La maggioranza, minori di 5 anni, mai registrati con un atto di nascita...
- Vivere senza esistere, Marcos...
- E non soltanto questo. Se vivi ed esisti, è con vergogna. Si tratta di smettere di vergognarsi in modo da essere accettati nei capoluoghi municipali e nei centri di lavoro. Con la faccia indigena, si era oggetto di scherno e di inganni. Il solo fatto di aver la pelle scura e parlare un altro idioma, già voleva dire che il prodotto del tuo lavoro aveva un prezzo inferiore.
- Lei è un ribelle che esige cambiamenti profondi o un rivoluzionario che lotta per trasformazioni radicali, un altro modo di fare la patria?
- Noi ci consideriamo soprattutto dei ribelli che vogliono cambiamenti sociali. Come dire che la definizione classica del rivoluzionario non ci sta bene. Nel contesto in cui siamo nati, cioè nelle comunità indigene, non c'era questa aspettativa. Perché il soggetto collettivo è tale anche nel processo rivoluzionario, ed è proprio questo che indica le regole da seguire.
- Se lei dovesse fallire come ribelle, sceglierebbe la strada della rivoluzione?
- È un obiettivo diverso. Il rivoluzionario tende a convertirsi in un politico, mentre il ribelle sociale non smette di essere un ribelle sociale. Nel momento in cui Marcos o lo zapatismo dovessero trasformarsi in un progetto rivoluzionario, cioè in qualche cosa che lo trasformi in un attore politico all'interno della classe politica, lo zapatismo fallirebbe come proposta alternativa.
- Perché un rivoluzionario si trasforma in politico?
- Perché un rivoluzionario si propone fondamentalmente di cambiare le cose dall'alto e non dal basso, proprio all'opposto di un ribelle sociale. Il rivoluzionario si propone: formiamo un movimento, così prendo il potere e cambio le cose dall'alto. Il ribelle sociale no. Il ribelle sociale organizza le masse e dal basso cerca di trasformare le cose, senza porsi il problema della presa del potere.
- Quando dice tutto questo pensa alla Rivoluzione Messicana?
- Sì, penso a Zapata e a Carranza, soprattutto. Carranza, che si propone i cambiamenti nel momento di prendere il potere. E Zapata, che pensa alle rivendicazioni e al momento di farsi fotografare neppure si alza dalla sedia. Noi ci identifichiamo con lo zapatismo. C'è bisogno di politici, disgraziatamente, ma soprattutto di leader sociali. Credo che lo zapatismo debba fare delle scelte e che opterà per i leader sociali.
LA REPUBBLICA DELLA TV
- Forse il termine "politico" è adeguato o forse no. Lei me lo potrà chiarire. Io penso che lei sia un politico. Non ho dubbi sul fatto che sia uno scrittore di prosa rimata. Che poeta la ispira? Che statista l'attrae? Che guerrigliero le dà forza?
- Incominciamo dal fondo: come capo militare, Villa. Come movimento sociale armato, Zapata. Come leader sociale, non vedo nessuno nell'attuale orizzonte che risponda al concetto di uomo di Stato. Non c'è. I grandi uomini di Stato appartengono ormai alla preistoria. Adesso ci sono dei mercatologi, buoni o cattivi... Oggi come oggi non metterei la mano sul fuoco per nessuno come leader politico, perché non vedo nessuno che risponda al concetto di uomo di Stato, dal momento che l'uomo di Stato è quello che ha la capacità di guardare avanti e adesso non conosco nessun leader politico che sappia guardare oltre il proprio naso, in tutti i sensi.
- A proposito di Villa, Marcos, nel suo incontro con Vicente Leñero nel 1994 lei già aveva espresso la sua ammirazione per questo personaggio; guerrigliero implacabile, buon soldato e uomo di governo in Chihuahua, secondo la monumentale biografia di Friedrich Katz. Lei s'identifica con El Centauro?
- Vorrei poterlo fare. Era un uomo che aveva la visione di corpo, un uomo preoccupato per le sue truppe, e non mi riferisco soltanto alle sue truppe regolari, ma anche ai territori che andava conquistando. Non si preoccupava solo di combattere, ma anche di organizzare. Sfortunatamente, questa parte della sua vita è la meno conosciuta. Ma disgraziatamente, Villa è quello dei corridos, quello del cavallo Siete Leguas.
- Di fronte a queste capacità, quanto pesa la violenza inutile?
- La violenza si rivela sempre inutile, però uno non se ne rende conto finché non la pratica o la subisce
- E lei non se ne è reso conto, Marcos?
- Non lo so. Penso che alla lunga capiterà anche a noi, perché sempre si arriva ad avere dei vuoti o dei buchi al momento di valutare una persona... In definitiva, tutti i militari, compreso il sottoscritto, sono uomini assurdi ed irrazionali perché hanno la possibilità di ricorrere alla violenza per riuscire a convincere. In fin dei conti è proprio questo che fa un militare quando impartisce un ordine: convince con la forza delle armi. Per questo noi sosteniamo che i militari non debbono mai governare, noi compresi, ovviamente. Perché chi ha dovuto ricorrere alle armi per far valere le proprie idee, è molto povero di idee.
- Voglio farle un'osservazione: le armi non convincono, s'impongono.
- Sì. In fin dei conti è proprio così. Per questo noi sosteniamo che i movimenti armati, per quanto rivoluzionari siano, sono fondamentalmente dei movimenti arbitrari. Ad ogni modo, ciò che deve fare un movimento armato è sollevare il problema e mettersi da parte. È ciò che adesso stiamo riuscendo a fare con successo, dopo sette anni nelle comunità. Fra gli errori che abbiamo commesso vi è quello di non aver imparato più rapidamente come districarci da tutto questo. Ci siamo messi da parte per davvero. I municipi autonomi sono tanto autonomi che non ci fanno più neppure caso.
- Il comandante Germàn non è popolare. Dà disposizioni, dirige, dà ordini, sale per primo sul camion, scende per ultimo, riceve i documenti, li distribuisce, parla con la forza del comando. Pesano sospetti su di lui e nessuno parla del suo umanitarismo. Non me lo spiego Germàn, tanto diverso da voi e tanto diverso dagli indigeni, in qualità di portavoce centrale di quello che fa l'EZLN. Nei gradi dell'Esercito Zapatista lui è il comandante e lei il sub. Germàn è quello che dà ordini, è quello che dispone. Lei, in qualche modo, obbedisce, riceve o esegue le istruzioni o gli ordini...
- No! L'architetto Fernando Yañez, che è conosciuto come il comandante Germàn, rappresenta, quando lo convoca l'EZLN, il collegamento con il Potere Legislativo ed i partiti politici; rappresenta un segnale che, comei tanti che abbiamo dato, il governo non ha saputo leggere. Attraverso di lui, sta dicendo l'EZLN, siamo disposti a compiere il passo dalla clandestinità alla vita pubblica. Questo è fondamentale. L'architetto Yàñez sale e scende dal camion perché gli è stato affidato l'incarico della sicurezza. Quelli che comandano, nell'Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, sono i capi indigeni. Questa è la verità. Però, la percezione che hai tu e coloro che ci stanno vedendo adesso è che ci sono io e alle mie spalle deve esserci Tacho che mi protegge... Ma dalla parte delle comunità le cose sono al contrario: ci sono loro per prime e noi dietro... L'architetto Yañez non ha alcun comando né ascendenza militare all'interno dell'EZLN. Sta rispondendo ad una richiesta che noi gli stiamo facendo perché vogliamo dare questo segnale che nessuno sta percependo. E se un movimento armato sta dicendo che le cose vanno in un certo modo e che, guardate, siamo disposti a questo, ma nessuno ci fa caso, allora è chiaro che la classe politica ha bisogno di una bella lezione.
- Non mi sento coinvolto, perché questo segnale non è stato esplicito.
- Però si accompagna ad altri. Quello che il governo messicano si sta chiedendo è fino a che punto Marcos e l'EZLN non stiano giocando con una scommessa di popolarità e di logoramento di nervi, per guadagnare tempo. Prima, con Zedillo, noi eravamo disposti a firmare la pace, con lui che era un imbecille, un mediocre, e adesso ecco che si può allora dire, perché non andiamo a farlo con Fox, che per di più è il prodotto di un processo elettorale legittimo? A noi non spaventa il fatto di firmare la pace con la destra, perché non è questo il nostro problema. Ci sarebbe lo stesso problema se al potere ora ci fosse la sinistra elettorale. Noi stiamo cercando di convincere la controparte, in questo caso il governo federale, del fatto che siamo disposti a risolvere tutto questo e a farlo in fretta, ma abbiamo necessità di una serie di segnali. Noi ne diamo uno. Non lo vedono, forse perché non lo facciamo nella maniera politica, ma è chiaro non ci è mancata la volontà. Se non riusciamo a fare in modo che tu veda questo segnale o che la classe politica veda questo segnale, questo è per noi un fallimento e allora andiamo a cercarne un altro, ma penso che questo paese debba saldare un conto aperto con tanta gente, non solo con Yàñez, ma con molte persone che sono rimaste lungo il cammino con tutti i movimenti clandestini, che sono molto più potenti in termini di patriottismo e di impegno sociale, nonché di sacrificio, di quanto possa dire qualsiasi "corrido" in onore di Lucio Cabañas o di Genaro Vàsquez. Quello che noi volevamo fare, ed è evidente che non ci siamo riusciti, è riunirci con il Potere Legislativo... Ciò che vogliamo dire è che noi non intendiamo fingere di fare la pace. Vogliamo sederci a negoziare e, se dall'altra parte c'è volontà, arrivare fino in fondo. Se siamo stati disposti a farci ammazzare, perché non dovremmo essere disposti a negoziare? Non abbiamo nessuna vocazione suicida.
- Quali saranno i suoi prossimi passi?
- Continua il processo di pace. Se noi otteniamo, e credo lo otterremo, il riconoscimento dei diritti e della cultura degli indigeni nella Costituzione, se riusciamo quindi a convincere Fox a sedersi al tavolo del negoziato, a dare i segnali richiesti e a decidere di lavorare con le comunità affinché questo processo di pace sia veloce e limpido, allora ci sarà bisogno di una attività molto intensa all'interno, perché l'EZLN deve ancora dare risposta ad una questione, ad una incognita, perché anche se crede che non avrà più nulla da fare quando tutto questo avrà termine, non sa che al contrario avrà molto da fare.
L'INVITO A LOS PINOS... UNA TRAPPOLA
- Fox dice che la vuole invitare a Los Pinos...
- È una trappola. In fin dei conti, sta cercando di trasformare un movimento serio e rivendicativo in un evento da massima audience. Cosa ha da guadagnare il paese, cosa hanno da guadagnare le popolazioni indigene, cosa ha da guadagnare il governo, come progetto politico, qualunque progetto abbia, sempre che lo abbia, con questa foto?
- Lei farebbe un servizio fotografico con Fox?
- E perché? Certo, penso che guadagnerebbe molto, però che...
- E lei perderebbe?
- No, io no, ma le comunità sì, perché tutto il movimento che si è sollevato alla fine verrebbe oltraggiato. Sarebbe un fenomeno mediatico vuoto, tanto breve, tanto fugace, tanto solubile come è stato questo concerto di...
- Direbbe che sotto c'è qualche viltà, qualche perversione, Marcos?
- Sarebbe disonesto, distruttivo, vile. D'altronde, lo capisco. Lui sta facendo bene il suo lavoro, ha bisogno di costruirsi questa immagine di governabilità. Sa bene che fino a quando i mezzi di comunicazione parlano di lui, anche se in negativo, la sua presenza si rafforza sempre di più.
- Marcos, io dico a lei: Fox sta facendo bene il suo lavoro secondo lei...
- No, secondo lui.
- E secondo lei?
- No, perché ciò di cui ha bisogno questo paese è di un governo, non di un annunciatore televisivo. E lui invece pensa, al contrario, che la sua funzione sia quella di un annunciatore televisivo, perché questo gli crea prestigio con la gente, perché così tutti lo conoscono e lo fermano per strada.
- Però, perché?
- È proprio questo che io mi chiedo... dato che alla fine gli andranno a dire: "Noi che abbiamo votato per te, o che non abbiamo votato per te però abbiamo votato contro il PRI, non ti abbiamo dato questo posto perché tu faccia questo". Perché una cosa è una campagna elettorale ed un'altra cosa è un programma di governo. E la responsabilità non è soltanto sua, è anche della sua équipe. Ma soprattutto sua, perché è lui che ha formato l'équipe. Oppure è il contrario, non so come stiano le cose. Comunque, prova a contare e ti basteranno le dita in una mano per contare quelli che sono i politici di questo gabinetto. Sono imprenditori, bene o male intenzionati. Anzi, non sono neppure imprenditori, sono semplici gerenti. Ossia, sono degli impiegati di un imprenditore. E con questa logica non si può dirigere un paese.
- Chi salverebbe di questo gabinetto?
- Sari Bermùdez, come scrittrice. Lei non ha scritto un libro, bene... (Voltandosi verso i cameraman della Televisa) Questo lo tagliate. Adesso faccio una pausa in modo che possiate tagliare quello che sto per dire di Azcàrraga.
LA FAVOLA DELLA CAROVANA
- Marcos, a lei piacciono le favole. Perché non ce ne racconta una?
- Non le racconta già il governo?
- No, perché non ce ne racconta una? Perché non ci racconta la favola della Carovana?
- Di com'è venuta l'idea?
- La favola della Carovana. Lei scrive una favola per fare in modo che si conosca la Carovana. Come lo farebbe in forma di favola? Così, nel linguaggio più semplice, più caldo, pieno di humour. Certo, Marcos, l'humour si esprime attraverso il dramma. Come racconterebbe lei questa favola?
- Bene, mettiamola così. Noi eravamo rimasti senza vie d'uscita. L'unico modo per rafforzarci era quello di uscire, era quello di camminare. Ma non avevamo piedi. Eravamo menomati in questo senso. Avevamo la voce e lo sguardo, però dovevamo alzare questa voce e questo sguardo in un posto dove la voce potesse essere ascoltata e dove lo sguardo potesse spaziare in qualche direzione. Allora abbiamo dovuto chiedere ad altri di prestarci i piedi. Ma quando abbiamo dovuto chiedere ad altri di prestarci i piedi, questi altri li abbiamo dovuti costruire, perché non esistevano. Allora abbiamo incominciato a parlare a questo "altro", abbiamo incominciato a dargli un volto, che però non voleva, a spiegare che cosa è un numero, che cosa è una percentuale in una inchiesta, se è una fortuna far parte del campione, ed abbiamo incominciato a chiamarlo, a cercare di dargli un volto e a chiedergli che diventasse i nostri piedi. Ci siamo trovati alla fine con dei piedi molto disuguali. Ossia, il corpo che già avevamo, lo sguardo, gli occhi, le labbra che già avevamo, erano molto piccoli per dei piedi molto grandi. Alla fine, quando abbiamo iniziato la marcia, inizia a muoversi una specie di pupazzo grottesco. A prima vista, un gigante. Ad uno sguardo più attento, un pupazzo grande e deforme, con dei grandi piedi ed un corpo molto piccolo, nel tronco e nella testa. Questo pupazzo grottesco incomincia a muoversi inciampando ed incomincia a cercare di convincere i piedi, che non sono suoi, cosa che, in un modo o nell'altro, ha cercato di fare la Carovana in ogni occasione in cui si è fermata: spiegare che non siamo noi quelli che hanno reso possibile tutto questo, ma i piedi che ci stanno portando, che sono la stessa gente che ci sta accogliendo. E' in questo momento che sorge il problema dei piedi che dicono che chi comanda è la testa, perché così è stata fatta la storia e mai è successo che siano i piedi a dare ordini alla testa. E la testa, che da parte sua continua a sostenere che quelli che debbono comandare sono i piedi. Arriva allora il momento in cui sia i piedi che la testa dicono quello che tutti stanno pensando e nessuno ha il coraggio di dire. Durante il percorso, si rendono conto che questo mondo è pazzo: che chi non ha bisogno è ricco e chi ha bisogno non ha nulla. Finalmente, arriva quel giorno, domani 11, arrivano nel posto in cui si può raddrizzare tutto da un lato e dall'altro, nell'ora in cui il mondo si può riaggiustare, quando i piedi si rendono conto che in realtà loro erano la testa e la testa si accorge di non aver mai cessato di essere un piede scalzo, e per di più dalla pelle scura. Come mi è venuta male questa storia!
- Ho uno scrupolo e una preoccupazione: di non aver fatto le domande più importanti.
- Non credo, dato che io ero atterrito, dal momento che non sapevo che cosa mi sarebbe stato chiesto...
- Una cosa che per lei ha moltissima importanza e che io non ho avuto la buona sorte di chiederle, Marcos...
- Credo sia la domanda che si stanno facendo nella classe politica. Marcos è sincero quando dice che è disposto al dialogo e ad arrivare alla pace? La risposta è sì. L'unica cosa che abbiamo per avallarlo è la nostra parola. Per davvero, se ci chiedono qualcosa d'altro, non sappiamo che altro offrire. Però abbiamo dalla nostra parte la storia di ciò che questa parola ha significato. Non possiamo cedere nelle tre condizioni poste, perché se cediamo manchiamo di parola e questo vorrebbe anche dire che ci troveremmo nella possibilità di accrescere le nostre richieste, e la garanzia che ha il governo è che né le aumenteremo né le diminuiremo. Quando diciamo una cosa, è quella. È questo che io vorrei che capissero; ma non so come farlo, perché i segnali che ho dato non li capiscono. Forse se si tolgono le bende dagli occhi e vedono questo tuo programma, chissà che non mi ascoltino; forse questo è proprio quello che ci vuole affinché mi credano una buona volta; comunque sia, noi siamo veramente sinceri. E se non lo credono, ciò che ora stiamo cercando di fare con tutta la gente di questo movimento è obbligarli a crederlo. Abbiamo assunto questo impegno.
- Molte grazie.
- A lei... Un annuncio pubblicitario. Il fatto è che siamo senza soldi e il camion è noleggiato fino al 16!
Subcomandante Insurgente Marcos
Intervista di Julio Scherer García
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