“In fondo, […] si sente oggi che il lavoro come tale costituisce la migliore polizia e tiene ciascuno a freno e riesce a impedire validamente il potenziarsi della ragione, della cupidigia, del desiderio d’indipendenza. Esso logora straordinariamente una gran quantità d’energia nervosa, e la sottrae al riflettere, allo scervellarsi, al sognare, al preoccuparsi, all’amare, all’odiare”.
Friedrich Wilhelm Nietzsche
Friedrich Wilhelm Nietzsche
C’era una volta un piccolo Paese. Nel piccolo Paese c’era un piccolo fornaio che lavorava il giusto, né troppo né poco. E infatti quel giorno lì era di domenica nel piccolo Paese e il piccolo fornaio se ne stata a casa, nella sua piccola casa, insieme alla piccola moglie. Però a un certo punto al piccolo fornaio gli venne voglia di una pagnotta di pane. Disse, ma sì, vado a lavorare un'oretta e mi faccio 'na bella pagnotta di pane in più per questa piccola domenica. Disse alla moglie “Vado a fare una pagnotta e la riporto a casa per il pranzo”.
Uscì fuori, si mise la strada sotto le scarpe e arrivò al forno, lavorò un'ora e fece 'na bella pagnotta di pane. Poi uscì dal forno per tornarsene a casa con la sua pagnotta di pane. Lungo la strada incontrò il piccolo salumiere del piccolo Paese, che nonstante fosse domenica, pure lui lavorava. Il piccolo salumiere disse al piccolo fornaio:
“Ma che fai? Ti mangi il pane e basta? Senza companatico? Lo vorresti un po’ di salame?”
“E magari”, gli disse il piccolo fornaio, "ma con che te lo pago?"
“Mi dai la pagnotta di pane e io ti do il salame”, gli disse il piccolo salumiere.
“Ma se ti do la pagnotta di pane, poi io rimango senza pane... solamente col salame”, gli rispose il piccolo fornaio.
"Ma no", gli disse il piccolo salumiere "Il piccolo Paese è un piccolo Paese capitalista. Si lavora e si produce... e più produci più consumi. Produci e consuma, produci e consuma!”
"Certo!" disse il piccolo fornaio. A quel punto il fornaio parve di capire il discorso e corse al forno, lavorò un’altra ora e tornò nel suo piccolo forno e fece un'altra pagnotta di pane. Lavorò un'altra ora, perciò dopo due ore di lavoro uscì fuori con queste due pagnotte. Una la dette al piccolo salumiere, e il piccolo salumiere in cambio gli dette un piccolo salame. Così adesso tutto contento il piccolo fornaio con il pane e il companatico se ne tornò verso casa.
Però lungo la strada incontrò il piccolo oste, che nonostante fosse domenica pure il piccolo oste quella volta lì lavorava. Il piccolo oste disse al piccolo fornaio:
“Ma che fai? Muri a secco? Mangi pane e salame e non bevi? Non lo vorresti un bel bicchiere di vino? Lo vuoi un fiasco di vino? Te lo do?”
“E magari” gli disse il piccolo fornaio "ma con che te lo pago?".
“Me lo paghi col pane e col salame che c'hai”.
“E vabè", gli dice il piccolo fornaio "ma se ti do il pane e salame e mi prendo il vino, io poi c'ho il vino e che ci mangio insieme al vino che ho preso da te?”
“Ma no", gli disse il piccolo oste "il piccolo Paese è un piccolo Paese capitalista. Bisogna lavorare. Se lavori…produci, e più produci più consumi. Produci e consuma, produci e consuma!”
" E già...", quel piccolo fornaio si ricordò che l’aveva già sentita ‘sta cosa. Corse al piccolo forno e lavorò altre due ore, fece altre due pagnotte e potè comprare il salame dal salumiere. Quindi col salame e col pane che aveva prodotto prendersi un bel fiasco di vino dall'oste.
E così adesso tutto contento, dopo mezza giornata di lavoro, quella domenica lì nel piccolo Paese, il piccolo fornaio se ne tornò verso casa con il pane, con il salame e con il suo fiasco di vino.
Lungo la strada però incontrò il piccolo sarto del piccolo Paese, che nonostante fosse di domenica pure lui quel giorno di domenica lavorava. Il piccolo sarto fermò il piccolo fornaio e disse:
“Piccolo fornaio, ma che fai? Vedo che sei un benestante, ormai... C'hai da mangiare e da bere, e vai in giro come un barbone? Co' 'sti vestiti vecchi, tutti sporchi di farina? Ma lo vorresti un abito nuovo?”
“E magari” disse il piccolo fornaio. “Ma con che te lo pago un abito nuovo?”
“E con che me lo paghi..." disse il piccolo sarto del piccolo Paese "Mi dai pane, salame e un fiasco di vino e io ti faccio un bel vestito nuovo”.
“Ma se ti do pane, salame e un fiasco di vino", gli disse il piccolo fornaio "senza pranzo che mi mangio io? Vado a casa vestito per bene, ma rimango a stomaco vuoto”
“Ma no", gli disse il piccolo sarto del piccolo Paese "il piccolo Paese è un piccolo Paese capitalista. Bisogna lavorare. Se lavori…produci, e più produci più consumi. Produci e consuma, produci e consuma!”
"Certo..." disse il piccolo fornaio che sapeva bene come comportarsi. Corse al piccolo forno e lavorò n'altra mezza giornata e dopo quattro ore fece tante pagnotte per poter dare il pane al sarto e potergli anche comprare il vino e il salumiere.
Finalmente, dopo una gionata intera di lavoro e di fatica, stanco ma felice, se ne tornò a casa col vestito pulito. Si mise seduto vestito per bene e cominciò a mangiare il suo pranzo che ormai era diventato una cena.
Appena seduto la moglie disse: “Oh... Sei uscito per fare 'na pagnotta, dovevi tornare dopo un’oretta e invece sei stato fuori tutto il giorno. Adesso che torni ben vestito e con una cena completa ti mangi tutto da solo. Lo sai che chi mangia da solo se strozza? Dammi almeno un pezzo di pane”.
“No", rispose il piccolo fornaio "Non ti do un pezzo di pane. Adesso siamo ricchi e tu sei mia moglie e quindi devi avere pure tu la pagnotta di pane e un salame e del vino e un vestito nuovo! Ho lavorato e guadagnato tanto e lavorerò e guadagnerò per tutt’e due. Noi viviamo in un piccolo Paese capitalista. Se lavori…produci, e più produci più consumi. Produci e consuma, produci e consuma!”
E così il piccolo fornaio lasciò tutto quanto e corse a lavorare nel suo piccolo forno. Lavorò tutta la notte e dopo tante ore di lavoro finalmente tornò a casa con la cena fredda e un altro vestito per la moglie. La trovò che dormiva e pure lui, che era stanco morto, si addormentò senza la forza per mangiare.
La mattina appresso non si svegliò. La sera prima era stanco morto, adesso era morto e basta. Cosi la moglie quando si svegliò e lo trovò morto fece una piccola telefonata. Chiamò il piccolo becchino e il piccolo prete del piccolo Paese. “Facciamogli la messa”, disse il piccolo prete. “Facciamogli il funerale”, disse il piccolo becchino.
La vedova sembrava indecisa. “Ma voi siete benestanti”, disse il prete. “C'avete da mangiare e da bere... pane, companatico, vino. Siete vestiti bene”. “Pure noi vogliamo mangiare, bere e vestirci meglio”, aggiunse il becchino.
Cosi la piccola moglie del piccolo fornaio capì e uscì fuori per andare al forno a lavorare. Camminava per strada la piccola moglie intanto vedeva che per le strade del piccolo Paese si muovevano e andavano al lavoro piccoli fornai, piccoli salumieri, piccoli osti, piccoli sarti, piccoli preti e piccoli becchini, piccoli operatori di call center e piccoli cassieri di supermercato, piccoli operai e piccoli impiegati, piccole maestre e piccoli soldati. Tutti correvano al lavoro.
Era un'altra bella giornata nel piccolo Paese capitalista. Intanto la radio trasmetteva una famosa canzonetta. La musica era allegra, il ritornello orecchiabile restava nel cervello. Diceva: “Produci e consuma...".
"Produci e consuma...", diceva la televisione.
"Produci e consuma...", c'era scritto sui giornali.
Produci, consuma e... crepa.
Ascanio Celestini
Uscì fuori, si mise la strada sotto le scarpe e arrivò al forno, lavorò un'ora e fece 'na bella pagnotta di pane. Poi uscì dal forno per tornarsene a casa con la sua pagnotta di pane. Lungo la strada incontrò il piccolo salumiere del piccolo Paese, che nonstante fosse domenica, pure lui lavorava. Il piccolo salumiere disse al piccolo fornaio:
“Ma che fai? Ti mangi il pane e basta? Senza companatico? Lo vorresti un po’ di salame?”
“E magari”, gli disse il piccolo fornaio, "ma con che te lo pago?"
“Mi dai la pagnotta di pane e io ti do il salame”, gli disse il piccolo salumiere.
“Ma se ti do la pagnotta di pane, poi io rimango senza pane... solamente col salame”, gli rispose il piccolo fornaio.
"Ma no", gli disse il piccolo salumiere "Il piccolo Paese è un piccolo Paese capitalista. Si lavora e si produce... e più produci più consumi. Produci e consuma, produci e consuma!”
"Certo!" disse il piccolo fornaio. A quel punto il fornaio parve di capire il discorso e corse al forno, lavorò un’altra ora e tornò nel suo piccolo forno e fece un'altra pagnotta di pane. Lavorò un'altra ora, perciò dopo due ore di lavoro uscì fuori con queste due pagnotte. Una la dette al piccolo salumiere, e il piccolo salumiere in cambio gli dette un piccolo salame. Così adesso tutto contento il piccolo fornaio con il pane e il companatico se ne tornò verso casa.
Però lungo la strada incontrò il piccolo oste, che nonostante fosse domenica pure il piccolo oste quella volta lì lavorava. Il piccolo oste disse al piccolo fornaio:
“Ma che fai? Muri a secco? Mangi pane e salame e non bevi? Non lo vorresti un bel bicchiere di vino? Lo vuoi un fiasco di vino? Te lo do?”
“E magari” gli disse il piccolo fornaio "ma con che te lo pago?".
“Me lo paghi col pane e col salame che c'hai”.
“E vabè", gli dice il piccolo fornaio "ma se ti do il pane e salame e mi prendo il vino, io poi c'ho il vino e che ci mangio insieme al vino che ho preso da te?”
“Ma no", gli disse il piccolo oste "il piccolo Paese è un piccolo Paese capitalista. Bisogna lavorare. Se lavori…produci, e più produci più consumi. Produci e consuma, produci e consuma!”
" E già...", quel piccolo fornaio si ricordò che l’aveva già sentita ‘sta cosa. Corse al piccolo forno e lavorò altre due ore, fece altre due pagnotte e potè comprare il salame dal salumiere. Quindi col salame e col pane che aveva prodotto prendersi un bel fiasco di vino dall'oste.
E così adesso tutto contento, dopo mezza giornata di lavoro, quella domenica lì nel piccolo Paese, il piccolo fornaio se ne tornò verso casa con il pane, con il salame e con il suo fiasco di vino.
Lungo la strada però incontrò il piccolo sarto del piccolo Paese, che nonostante fosse di domenica pure lui quel giorno di domenica lavorava. Il piccolo sarto fermò il piccolo fornaio e disse:
“Piccolo fornaio, ma che fai? Vedo che sei un benestante, ormai... C'hai da mangiare e da bere, e vai in giro come un barbone? Co' 'sti vestiti vecchi, tutti sporchi di farina? Ma lo vorresti un abito nuovo?”
“E magari” disse il piccolo fornaio. “Ma con che te lo pago un abito nuovo?”
“E con che me lo paghi..." disse il piccolo sarto del piccolo Paese "Mi dai pane, salame e un fiasco di vino e io ti faccio un bel vestito nuovo”.
“Ma se ti do pane, salame e un fiasco di vino", gli disse il piccolo fornaio "senza pranzo che mi mangio io? Vado a casa vestito per bene, ma rimango a stomaco vuoto”
“Ma no", gli disse il piccolo sarto del piccolo Paese "il piccolo Paese è un piccolo Paese capitalista. Bisogna lavorare. Se lavori…produci, e più produci più consumi. Produci e consuma, produci e consuma!”
"Certo..." disse il piccolo fornaio che sapeva bene come comportarsi. Corse al piccolo forno e lavorò n'altra mezza giornata e dopo quattro ore fece tante pagnotte per poter dare il pane al sarto e potergli anche comprare il vino e il salumiere.
Finalmente, dopo una gionata intera di lavoro e di fatica, stanco ma felice, se ne tornò a casa col vestito pulito. Si mise seduto vestito per bene e cominciò a mangiare il suo pranzo che ormai era diventato una cena.
Appena seduto la moglie disse: “Oh... Sei uscito per fare 'na pagnotta, dovevi tornare dopo un’oretta e invece sei stato fuori tutto il giorno. Adesso che torni ben vestito e con una cena completa ti mangi tutto da solo. Lo sai che chi mangia da solo se strozza? Dammi almeno un pezzo di pane”.
“No", rispose il piccolo fornaio "Non ti do un pezzo di pane. Adesso siamo ricchi e tu sei mia moglie e quindi devi avere pure tu la pagnotta di pane e un salame e del vino e un vestito nuovo! Ho lavorato e guadagnato tanto e lavorerò e guadagnerò per tutt’e due. Noi viviamo in un piccolo Paese capitalista. Se lavori…produci, e più produci più consumi. Produci e consuma, produci e consuma!”
E così il piccolo fornaio lasciò tutto quanto e corse a lavorare nel suo piccolo forno. Lavorò tutta la notte e dopo tante ore di lavoro finalmente tornò a casa con la cena fredda e un altro vestito per la moglie. La trovò che dormiva e pure lui, che era stanco morto, si addormentò senza la forza per mangiare.
La mattina appresso non si svegliò. La sera prima era stanco morto, adesso era morto e basta. Cosi la moglie quando si svegliò e lo trovò morto fece una piccola telefonata. Chiamò il piccolo becchino e il piccolo prete del piccolo Paese. “Facciamogli la messa”, disse il piccolo prete. “Facciamogli il funerale”, disse il piccolo becchino.
La vedova sembrava indecisa. “Ma voi siete benestanti”, disse il prete. “C'avete da mangiare e da bere... pane, companatico, vino. Siete vestiti bene”. “Pure noi vogliamo mangiare, bere e vestirci meglio”, aggiunse il becchino.
Cosi la piccola moglie del piccolo fornaio capì e uscì fuori per andare al forno a lavorare. Camminava per strada la piccola moglie intanto vedeva che per le strade del piccolo Paese si muovevano e andavano al lavoro piccoli fornai, piccoli salumieri, piccoli osti, piccoli sarti, piccoli preti e piccoli becchini, piccoli operatori di call center e piccoli cassieri di supermercato, piccoli operai e piccoli impiegati, piccole maestre e piccoli soldati. Tutti correvano al lavoro.
Era un'altra bella giornata nel piccolo Paese capitalista. Intanto la radio trasmetteva una famosa canzonetta. La musica era allegra, il ritornello orecchiabile restava nel cervello. Diceva: “Produci e consuma...".
"Produci e consuma...", diceva la televisione.
"Produci e consuma...", c'era scritto sui giornali.
Produci, consuma e... crepa.
Ascanio Celestini
Che lavoro fai? Solitamente è la seconda domanda dopo come ti chiami? quando conosci una persona. Ognuno di noi ha un lavoro però è difficile spiegare cosa sia. È un qualcosa che si dovrebbe aver voglia di fare, ma per la maggior parte dei lavoratori questa voglia non c’è. Avere un lavoro significa fare sempre la stessa identica cosa. Fare una cosa uguale o simile tutti i giorni per decine di anni e la si fa per ottenere un salario non perché ne abbiamo realmente voglia o la consideriamo particolarmente utile, la facciamo perché abbiamo bisogno di reddito.
Dopo tanti anni che si fa lo stesso lavoro si sa fare solo quello, diventiamo degli esperti ma solo dell’attività che siamo costretti a fare per un salario.
Il lavoro impedisce l’invenzione e la sperimentazione di rapporti più ricchi e articolati, ci priva della gioia del saper fare tante attività diverse e di farle non perché dobbiamo ma perché ci sembra giusto e necessario farle per la nostra comunità.
La storia della modernità è la storia dell’imposizione del lavoro, che ha lasciato sull’intero pianeta una lunga scia di desolazione e di orrori. Infatti la sfacciata richiesta di sprecare la maggior parte dell’energia vitale per un fine tautologico, deciso da altri, non è stata sempre a tal punto interiorizzata come oggi. Ci sono voluti diversi secoli di violenza aperta su larga scala per far entrare, letteralmente a forza di torture, gli uomini al servizio incondizionato dell’idolo “lavoro”.
Andrea Staid
Dopo tanti anni che si fa lo stesso lavoro si sa fare solo quello, diventiamo degli esperti ma solo dell’attività che siamo costretti a fare per un salario.
Il lavoro impedisce l’invenzione e la sperimentazione di rapporti più ricchi e articolati, ci priva della gioia del saper fare tante attività diverse e di farle non perché dobbiamo ma perché ci sembra giusto e necessario farle per la nostra comunità.
La storia della modernità è la storia dell’imposizione del lavoro, che ha lasciato sull’intero pianeta una lunga scia di desolazione e di orrori. Infatti la sfacciata richiesta di sprecare la maggior parte dell’energia vitale per un fine tautologico, deciso da altri, non è stata sempre a tal punto interiorizzata come oggi. Ci sono voluti diversi secoli di violenza aperta su larga scala per far entrare, letteralmente a forza di torture, gli uomini al servizio incondizionato dell’idolo “lavoro”.
Andrea Staid
IL LAVORO, UN'ATTIVITA' INUMANA
Il lavoro oggi serve a qualcos’altro, che non sia l’accumulazione di merci e il soddisfacimento di una voglia o di un presunto bisogno di consumo individualizzato, se non individualista? Che cosa cerca il lavoratore mentre sta svolgendo un compito che gli divora un buon terzo dell’esistenza, se non acquisire con il denaro ciò che gli permetterà di consumare, quindi di distruggere o di usare altre merci create con l’unico scopo di soddisfarlo? È così evidente che il lavoro ha perso ogni senso trascendente. Lungi dall’essere superiore alle altre attività umane, ne rappresenta invece la feccia, perché, con il posto che occupa nella vita e nei rapporti sociali, impedisce la creazione e l’invenzione di altre relazioni. Anzi, peggio: attraverso la struttura ideologica che lo giustifica e che domina il pensiero politico ed economico, è dominio in atto sugli esseri umani – e sulla natura in generale. In sintesi, il lavoro non fa altro che nuocere all’individuo e alle comunità.
Il lavoro è così il risultato di un rapporto di dominio, in origine estremamente semplice. Ma mentre gli eventuali rapporti di dominio primitivi erano interni alla specie – dell’uomo rispetto alla donna o viceversa, cioè patriarcato o matriarcato, maschio dominante rispetto a maschio dominato e così via, ovvero rapporti “animali” – il lavoro introduce una nuova dimensione: i rapporti di dominio non sono più, come nel caso degli animali, interni alla specie, ma si affermano ora tra la specie e un’entità concepita direttamente come esterna, la natura. La mano non raccoglie e non caccia più: fa della natura il proprio prolungamento, il proprio complemento o strumento.
UN'IMMAGINE DI DOMINIO
Dunque, fin dall’inizio il lavoro nuoce all’individuo e all’umanità, perché pone un estraneo che si dovrà dominare e si rivelerà ostile, fino a farlo diventare il Nemico. La natura è addirittura un’incarnazione del Male, secondo la convinzione più diffusa, è la lotta per la vita, struggle for life, di tutti contro tutti che la caratterizza. Questa natura rigogliosa ed esuberante si contrappone al lavoro fin dall’inizio, perché è d’intralcio all’agricoltura – come esprime il concetto distorto delle “male erbe” da estirpare dagli orti e dai campi.
Ma i rapporti di dominio tra specie in seno alla natura sono un mito inventato dai biologi per giustificare l’immagine che l’umanità ha di se stessa – perché non può averne un’altra, come vedremo. È un’immagine di dominio, quindi di asservimento. In realtà, non esiste nessun rapporto di dominio di una specie sull’altra in natura. La selezione naturale, la lotta per la sopravvivenza, l’imperativo dell’adattamento sono visioni ideologiche. Niente di questo s’impone agli individui delle diverse specie. In uno spazio equilibrato – dove non interviene l’uomo – le specie si evolvono e si adattano continuamente. Le eventuali prede non sono “riserve alimentari” ma un elemento del tutto – così un animale erbivoro si colloca nella lunga catena che va dal microrganismo all’animale che si nutre di carogne, passando dal vegetale, dall’erbivoro e dal suo predatore. Quest’ultimo non è né un dominante né un padrone: d’altronde il leone sazio vive accanto alle mandrie che possono evolversi liberamente. Non le tormenta come fa il padrone con coloro che domina. Per questo la selezione naturale - oggi diventata del tutto artificiale – interviene solo a seguito di mutazioni più generali, che comportano per esempio un cambiamento del clima, della vegetazione o di altri elementi sovradeterminanti. La parte dell’uomo contemporaneo in questo genere di catastrofi non è più contestata da nessuno: l’uomo crea solo modifiche dagli effetti inauditi.
In natura quella che è determinante è la complementarità delle specie. Se gli scienziati vi hanno visto per lo più il contrario, è per il fatto che essi navigavano nel metadiscorso: credendo di parlare della natura, parlavano in realtà dell’umanità alienata e in questo modo le indicavano il credo al quale essa doveva aderire e che doveva trasmettere di generazione in generazione. Doveva diffondere un credo di conflitto, di lotta, perché essa stessa era un luogo di lotta. La sua alienazione rendeva necessario disporre di un tale credo per credere ancora un po’ in se stessa, credere nonostante tutto che quella aggressività di cui faceva mostra verso se stessa – e non solo l’aggressività di alcuni individui nei confronti di altri, ma semplicemente quella di tutta l’umanità contro se stessa, la sua eterna furia autodistruttrice, vergogna del suo passato, orrore del suo presente... – che quella aggressività altro non fosse che quella che regnava nella natura. E gli scienziati, ricadendo in piedi e facendo credere all’umanità alienata di essere profondi pensatori o addirittura i veri poeti dell’epoca moderna, proclamano ad alta voce il proprio desiderio di fare uscire l’umanità dal suo guscio naturale, di renderla conforme all’idea che pretendono di farsi dell’uomo, un uomo superiore, non aggressivo. Il trionfo di questo discorso contribuisce a separare sempre di più l’umanità dalla natura, dal vero universo di complementarità, per farlo immergere sempre di più nell’universo ostile, aggressivo, distruttivo dell’umanità sotto alienazione scientifica. Purtroppo gli scienziati non operano in questo senso. Perfino il famosissimo Einstein non ha fatto altro che incitare alla realizzazione di una bomba nucleare per liquidare il nazismo, senza capire che comportandosi in quel modo, in ultima analisi, esortava le democrazie ad attuare esse stesse il modello totalitario della Megamacchina hitleriana. Ed è esattamente quello che è avvenuto, con i diluvi di fuoco scatenati sulla Germania, al di fuori da ogni logica militare negli ultimi mesi del 1944 e all’inizio del 1945, e ovviamente con le due bombe di Hiroshima e Nagasaki.
SOCIALISMO O BARBARIE
Da allora il modello della società totalitaria si è adattato alla democrazia e Fukuyama rimpiange solo che i democratici non siano più capaci di ammettere che la dittatura è molto più efficace economicamente della democrazia. Se fosse universalmente adottato questo schema, le cose sarebbero chiare e i politici saprebbero esattamente qual è il loro ruolo: imbellettare la dittatura con il fondo tinta della democrazia. L’apparato ideologico e spettacolare è pronto: basta solo un passo…
Fin dall’inizio il lavoro ha svolto il proprio ruolo cruciale in questo trionfo a tutto tondo dell’aggressività, in quanto ha rappresentato la prima separazione in atto dell’umanità dalla natura. Ma, per un singolare rovesciamento di congiuntura, i nostri dirigenti sono costretti a comporre con le vestigia della democrazia e le opposizioni interne al vertice della propria gerarchia, nel momento stesso in cui la crisi ecologica, diffondendo la paura dell’apocalisse, avrebbe permesso di passare senza grosse scosse a una dittatura dal volto ecologico… Che disdetta: riecco l’alternativa barbarie o socialismo!
Contro il lavoro, Philippe Godard
Il lavoro oggi serve a qualcos’altro, che non sia l’accumulazione di merci e il soddisfacimento di una voglia o di un presunto bisogno di consumo individualizzato, se non individualista? Che cosa cerca il lavoratore mentre sta svolgendo un compito che gli divora un buon terzo dell’esistenza, se non acquisire con il denaro ciò che gli permetterà di consumare, quindi di distruggere o di usare altre merci create con l’unico scopo di soddisfarlo? È così evidente che il lavoro ha perso ogni senso trascendente. Lungi dall’essere superiore alle altre attività umane, ne rappresenta invece la feccia, perché, con il posto che occupa nella vita e nei rapporti sociali, impedisce la creazione e l’invenzione di altre relazioni. Anzi, peggio: attraverso la struttura ideologica che lo giustifica e che domina il pensiero politico ed economico, è dominio in atto sugli esseri umani – e sulla natura in generale. In sintesi, il lavoro non fa altro che nuocere all’individuo e alle comunità.
Il lavoro è così il risultato di un rapporto di dominio, in origine estremamente semplice. Ma mentre gli eventuali rapporti di dominio primitivi erano interni alla specie – dell’uomo rispetto alla donna o viceversa, cioè patriarcato o matriarcato, maschio dominante rispetto a maschio dominato e così via, ovvero rapporti “animali” – il lavoro introduce una nuova dimensione: i rapporti di dominio non sono più, come nel caso degli animali, interni alla specie, ma si affermano ora tra la specie e un’entità concepita direttamente come esterna, la natura. La mano non raccoglie e non caccia più: fa della natura il proprio prolungamento, il proprio complemento o strumento.
UN'IMMAGINE DI DOMINIO
Dunque, fin dall’inizio il lavoro nuoce all’individuo e all’umanità, perché pone un estraneo che si dovrà dominare e si rivelerà ostile, fino a farlo diventare il Nemico. La natura è addirittura un’incarnazione del Male, secondo la convinzione più diffusa, è la lotta per la vita, struggle for life, di tutti contro tutti che la caratterizza. Questa natura rigogliosa ed esuberante si contrappone al lavoro fin dall’inizio, perché è d’intralcio all’agricoltura – come esprime il concetto distorto delle “male erbe” da estirpare dagli orti e dai campi.
Ma i rapporti di dominio tra specie in seno alla natura sono un mito inventato dai biologi per giustificare l’immagine che l’umanità ha di se stessa – perché non può averne un’altra, come vedremo. È un’immagine di dominio, quindi di asservimento. In realtà, non esiste nessun rapporto di dominio di una specie sull’altra in natura. La selezione naturale, la lotta per la sopravvivenza, l’imperativo dell’adattamento sono visioni ideologiche. Niente di questo s’impone agli individui delle diverse specie. In uno spazio equilibrato – dove non interviene l’uomo – le specie si evolvono e si adattano continuamente. Le eventuali prede non sono “riserve alimentari” ma un elemento del tutto – così un animale erbivoro si colloca nella lunga catena che va dal microrganismo all’animale che si nutre di carogne, passando dal vegetale, dall’erbivoro e dal suo predatore. Quest’ultimo non è né un dominante né un padrone: d’altronde il leone sazio vive accanto alle mandrie che possono evolversi liberamente. Non le tormenta come fa il padrone con coloro che domina. Per questo la selezione naturale - oggi diventata del tutto artificiale – interviene solo a seguito di mutazioni più generali, che comportano per esempio un cambiamento del clima, della vegetazione o di altri elementi sovradeterminanti. La parte dell’uomo contemporaneo in questo genere di catastrofi non è più contestata da nessuno: l’uomo crea solo modifiche dagli effetti inauditi.
In natura quella che è determinante è la complementarità delle specie. Se gli scienziati vi hanno visto per lo più il contrario, è per il fatto che essi navigavano nel metadiscorso: credendo di parlare della natura, parlavano in realtà dell’umanità alienata e in questo modo le indicavano il credo al quale essa doveva aderire e che doveva trasmettere di generazione in generazione. Doveva diffondere un credo di conflitto, di lotta, perché essa stessa era un luogo di lotta. La sua alienazione rendeva necessario disporre di un tale credo per credere ancora un po’ in se stessa, credere nonostante tutto che quella aggressività di cui faceva mostra verso se stessa – e non solo l’aggressività di alcuni individui nei confronti di altri, ma semplicemente quella di tutta l’umanità contro se stessa, la sua eterna furia autodistruttrice, vergogna del suo passato, orrore del suo presente... – che quella aggressività altro non fosse che quella che regnava nella natura. E gli scienziati, ricadendo in piedi e facendo credere all’umanità alienata di essere profondi pensatori o addirittura i veri poeti dell’epoca moderna, proclamano ad alta voce il proprio desiderio di fare uscire l’umanità dal suo guscio naturale, di renderla conforme all’idea che pretendono di farsi dell’uomo, un uomo superiore, non aggressivo. Il trionfo di questo discorso contribuisce a separare sempre di più l’umanità dalla natura, dal vero universo di complementarità, per farlo immergere sempre di più nell’universo ostile, aggressivo, distruttivo dell’umanità sotto alienazione scientifica. Purtroppo gli scienziati non operano in questo senso. Perfino il famosissimo Einstein non ha fatto altro che incitare alla realizzazione di una bomba nucleare per liquidare il nazismo, senza capire che comportandosi in quel modo, in ultima analisi, esortava le democrazie ad attuare esse stesse il modello totalitario della Megamacchina hitleriana. Ed è esattamente quello che è avvenuto, con i diluvi di fuoco scatenati sulla Germania, al di fuori da ogni logica militare negli ultimi mesi del 1944 e all’inizio del 1945, e ovviamente con le due bombe di Hiroshima e Nagasaki.
SOCIALISMO O BARBARIE
Da allora il modello della società totalitaria si è adattato alla democrazia e Fukuyama rimpiange solo che i democratici non siano più capaci di ammettere che la dittatura è molto più efficace economicamente della democrazia. Se fosse universalmente adottato questo schema, le cose sarebbero chiare e i politici saprebbero esattamente qual è il loro ruolo: imbellettare la dittatura con il fondo tinta della democrazia. L’apparato ideologico e spettacolare è pronto: basta solo un passo…
Fin dall’inizio il lavoro ha svolto il proprio ruolo cruciale in questo trionfo a tutto tondo dell’aggressività, in quanto ha rappresentato la prima separazione in atto dell’umanità dalla natura. Ma, per un singolare rovesciamento di congiuntura, i nostri dirigenti sono costretti a comporre con le vestigia della democrazia e le opposizioni interne al vertice della propria gerarchia, nel momento stesso in cui la crisi ecologica, diffondendo la paura dell’apocalisse, avrebbe permesso di passare senza grosse scosse a una dittatura dal volto ecologico… Che disdetta: riecco l’alternativa barbarie o socialismo!
Contro il lavoro, Philippe Godard
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Il primo che, avendo cintato un terreno, pensò di dire: “questo è mio” e trovò delle persone abbastanza stupide da credergli, fu il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, quante guerre, quanti assassinii, quante miserie e quanti errori avrebbe risparmiato al genere umano chi, strappati i pioli o colmando il fossato, avesse gridato ai suoi simili: “Guardatevi dal dare ascolto a questo impostore! Se dimenticate che i frutti sono di tutti e la terra non è di nessuno, siete perduti!” [….]
Come un cavallo indomito alla sola vista del morso rizza i crini, batte la terra con i piedi e si dibatte furiosamente, mentre invece un cavallo domato sopporta pazientemente la frusta e lo sperone, così l’uomo barbaro non piega la testa al giogo che l’uomo civile porta senza protestare, e preferisce la libertà più tempestosa a una tranquilla soggezione.
Non è dunque dall'avvilimento dei popoli asserviti che bisogna giudicare delle disposizioni dell'uomo verso la servitù, ma dai prodigi che hanno fatto tutti i popoli liberi per garantirsi dall'oppressione. I primi non fanno altro che vantare continuamente la pace e la quiete che godono nelle loro catene, e miserrimam servitutem pacem appellant (chiamano pace una miseranda schiavitù): ma quando vedo gli altri sacrificare i piaceri, la quiete, la ricchezza, la potenza, la vita stessa per conservare quel solo bene che è tanto disprezzato da coloro che l'hanno perduto; quando vedo degli animali nati liberi che odiano la cattività e che si rompono la testa contro le sbarre della loro prigione; quando vedo turbe di selvaggi nudi spregiare i piaceri europei e sfidare la fame, il fuoco, il ferro e la morte pur di conservare soltanto la loro indipendenza, sento che non spetta agli schiavi il parlare di libertà.
Origine della Disueguaglianza tra gli Uomini, Jean-Jacques Rousseau
Come un cavallo indomito alla sola vista del morso rizza i crini, batte la terra con i piedi e si dibatte furiosamente, mentre invece un cavallo domato sopporta pazientemente la frusta e lo sperone, così l’uomo barbaro non piega la testa al giogo che l’uomo civile porta senza protestare, e preferisce la libertà più tempestosa a una tranquilla soggezione.
Non è dunque dall'avvilimento dei popoli asserviti che bisogna giudicare delle disposizioni dell'uomo verso la servitù, ma dai prodigi che hanno fatto tutti i popoli liberi per garantirsi dall'oppressione. I primi non fanno altro che vantare continuamente la pace e la quiete che godono nelle loro catene, e miserrimam servitutem pacem appellant (chiamano pace una miseranda schiavitù): ma quando vedo gli altri sacrificare i piaceri, la quiete, la ricchezza, la potenza, la vita stessa per conservare quel solo bene che è tanto disprezzato da coloro che l'hanno perduto; quando vedo degli animali nati liberi che odiano la cattività e che si rompono la testa contro le sbarre della loro prigione; quando vedo turbe di selvaggi nudi spregiare i piaceri europei e sfidare la fame, il fuoco, il ferro e la morte pur di conservare soltanto la loro indipendenza, sento che non spetta agli schiavi il parlare di libertà.
Origine della Disueguaglianza tra gli Uomini, Jean-Jacques Rousseau
LAVORO O ATTIVITA'?
A questo punto occorre sgomberare il campo dalla grande confusione concettuale che avvolge oggigiorno il termine “lavoro”. Dovrebbe essere ovvio che lavoro non è sinonimo di fatica, anche se la implica. Una certa quantità di fatica è insita in qualsiasi attività – anche in quelle più immanenti al fatto stesso di esistere – questa è una legge fisica inaggirabile. Ma il punto non è questo. L’uomo ha sempre avuto un rapporto ambiguo con lo sforzo fisico. (...)
Da un lato è naturalmente portato a ridurre la difficoltà che deve affrontare nello svolgere una data attività, e ciò potrebbe essere una delle cause dell’origine e dello sviluppo della tecnica.
Uno dei primi principi fisici inconsapevolmente seguito per diminuire la fatica, sarà stato verosimilmente quello della leva, un fantastico ausilio tecnico funzionante al giorno d’oggi come millenni di anni fa. Da un altro lato, l’uomo non ha mai disdegnato la fatica, quando essa era immediatamente diretta a soddisfare un suo desiderio o a ottenere un vantaggio immediato per sé o per i suoi: raggiungere un frutto su di un ramo lontano, costruire un riparo dalla pioggia o una piroga per andare a pescare o solo per attraversare il fiume, fabbricarsi un arco per cacciare con maggiore efficacia (qui le due tendenze si sovrappongono), intagliare un ramo cavo per regalarsi un flauto, cucirsi un bel perizoma per proteggere i genitali, cercare erbe e terre con cui ornarsi il corpo ecc.
Anche l’attività sessuale volta a procurarci l’orgasmo implica un gran dispendio d‘energia, eppure l’affrontiamo con gioia. L’uomo delle società tecnicamente avanzate, che ha sempre meno bisogno di compiere sforzo fisico per guadagnarsi da vivere, che aborrisce la fatica e snobba i mestieri che ne richiedono (accettando per contro lo sforzo intellettuale insito in molteplici attività lavorative moderne), ricerca la fatica volontariamente, quasi come un piacevole diversivo, un benefico compenso: scalando montagne, correndo in bicicletta, macinando in piscina vasca dopo vasca o, più prosaicamente, sudando come una fontana in palestra “per tenersi in forma”.
L’attività sentita come obbligo, dovere, imposizione, costrizione, necessità ineludibile, questa è lavoro. Tento di illustrare ciò con un esempio personale. Io faccio tante cose che mi tornano utili e facendole ne traggo soddisfazione: curo l’orto per procurarmi la mia verdura, poto alberi da frutto per mangiare mele e susine sane, taglio piante per ricavarne legna da ardere, riparo vecchi muri a secco perché non franino… Mai, però, farei queste cose per altre persone a pagamento, perché in quel momento tali attività muterebbero natura, svilirebbero in lavoro perdendo per me qualsiasi fascino.
Quando la vita segue il principio del gioco e del godimento, o l’innata pulsione creativa, l’attività che ne consegue è positiva, salutare sia per l’individuo che per la collettività.
Questa profonda spinta naturale (il gioco è una costante anche nell’apprendimento alla vita degli animali) si manifesta esemplarmente nei bambini, che possono passare ore, fino allo sfinimento, a spingere una slitta su per un pendio dal quale scendere poi urlando di gioia, a sguazzare nell’acqua sollecitando anche il più piccolo muscolo del corpo, a costruire e ricostruire con pazienza da Sisifo castelli di sabbia. E lo scaltro genitore ben riesce a sfruttare questo piacere per l’attività ludica per portare il figlio-bambino a compiere suo malgrado un lavoro, ché se chiesto con questo termine incorrerebbe nel rifiuto o nell’obbedire controvoglia.
Lavoro e libera attività si possono descrivere anche con altri concetti o immagini. Svolgere un’attività per procurarsi i soldi per comperare i mezzi con cui soddisfare bisogni per lo più indotti – la tipica modalità a cui s’è ridotta l’iniziativa individuale nella società capitalistica – questo è lavoro, per leggero e piacevole che possa sembrare; darsi da fare in prima persona per carpire alla natura il necessario per campare decentemente, questo non è lavoro, anche se implica fatica.
Oppure: raccogliere bacche, catturare un cervo, fabbricarsi delle ciabatte, produrre le proprie patate, dedicarsi alla pittura o al cucito non è lavoro; cogliere o produrre una cosa qualsiasi, vendere le proprie abilità manuali, la propria capacità intellettuale, la propria fantasia per procurarsi i soldi con cui acquistare frutta, carne, vestiti, verdura, libri, CD o quadri, questo è lavoro.
O ancora: vendersi per un salario è lavoro. Il fatto di essere costretti a lavorare non può produrre piacere o solo un suo infido surrogato, indipendentemente dalla “qualità” della mansione svolta.
Purtroppo, nell’attuale organizzazione sociale finalizzata alla produzione di merce, profitto e potere, le due distinte caratteristiche dell’intraprendenza umana si sono confuse o, più precisamente, l’attività lavorativa, eterodiretta, resa subdolamente necessaria al soddisfacimento di sempre nuovi falsi bisogni, ha fagocitato quella ludica, il termine “lavoro” è ormai sinonimo di “attività”.
E SE IL LAVORO PIACE?
Non si può fare all’amore dalla mattina alla sera, per questo hanno inventato il lavoro
Il motto sotto il titolo allude alla funzione del lavoro quale surrogato della sessualità: libido repressa, carenza affettiva, difficoltà relazionali ecc. possono “efficacemente” essere compensate attraverso il lavoro e indirettamente attraverso i consumi che esso rende possibili. Sublimazione e compenso riescono a tal punto a snaturare il principio del piacere quale fondamentale fine della vita, da confonderlo con il lavoro, cioè con la maniera più sicura di passare a lato della vita.
Che il lavoro piaccia a molta gente è purtroppo vero. Da parecchi decenni la medicina ha coniato il termine “workaholic” per designare una vera e propria malattia psico-fisica, quasi una pandemia persistente, che affligge tanti individui d’ambo i sessi dipendenti dal lavoro come si può essere dipendenti dalla droga, dai medicinali, dal fumo o dall’alcol.
Una categoria particolarmente affetta da questo morbo è quella dei quadri superiori, manager, direttori, amministratori delegati di SA e multinazionali. (...)
Fuori dalla letteratura, nella società reale esiste – oltre alle élite dirigenti, la cui malattia da lavoro può trovare una forte giustificazione materiale (ricchezza e potere) – una schiera più numerosa di persone d’ogni ceto affette da una sindrome ideologica altrettanto micidiale; alludo a chi vede nel lavoro l’unica via degna di essere praticata per garantirsi la sopravvivenza, assumendolo nel contempo quale mezzo per realizzare l’illusorio sogno di emulare le suddette élite.
A parziale discolpa di chi vede nel lavoro un valore positivo va considerato il triste fatto che, troppo spesso, il mondo del lavoro rappresenta per la singola persona l’unica maniera di socializzare: vedere altra gente, stringere amicizie, partecipare a eventi vari, conoscere altre realtà, superando così la ristretta sfera della vita familiare.
Non va comunque scordato che solo in casi rari si può veramente scegliere per impulso proprio una professione che piaccia o soddisfi. La libertà di scelta è sempre limitata dall’offerta altrui. I mestieri sono prestabiliti ed i giovani vengono per lo più influenzati da genitori, maestri e orientatori professionali in base alle necessità congiunturali dell’economia o dello Stato. Oltre che influenzata, la scelta è inoltre obbligata: la società attuale chiede ad ognuno/a di sottoporsi al lavoro salariato.
Liberarsi dal lavoro significa quindi anche liberarsi da quest’obbligo di scegliere tra finalità altrui, acquistando la possibilità di agire secondo le proprie pulsioni..
Il turista e il pescatore
Concludo il mio testo con una parabola che riassume tante sfaccettature di un modo di vivere e di pensare positivo, responsabile e sostenibile: sottrazione alla logica del mercato e del consumismo, sintonia con i ritmi naturali, sobrietà, attività autonoma, padronanza dei mezzi di sostentamento e, non da ultimo, rifiuto del lavoro salariato.
A metà mattino, l’industriale tedesco in vacanza nell’isoletta greca trova l’amico pescatore seduto sulla veranda di casa che osserva il mare e le navi che vi passano lente e silenziose.
- Buon giorno Kiriakos. Non lavori oggi?
- Sì, ho già finito.
- Come, sono appena le nove e mezzo!
- Finito, ti ho detto. Oggi il mare è stato generoso. Ci ho messo poco a riempire la rete.
- Ma quanto pesce prendi?
- Quanto basta alla mia famiglia e per alcuni anziani che non escono più a mare.
- Dovresti pescarne di più.
- Per che farne?
- Per venderlo e guadagnare più soldi.
- E perché?
- Per comperare una barca più grossa, con la quale puoi pescare ancora di più.
- Ah. E perché?
- Così potresti recarti sul continente, vendere ai molti ristoranti e negozi della città. Fare più soldi e arredare la barca ancora meglio. Così guadagneresti ancora di più.
- Ah. E poi?
- Fra una decina d’anni potresti assumere alcuni marinai che lavorano al tuo posto.
- Ed io, che farei?
- Te ne staresti tranquillo in veranda ad ammirare il mare.
- Ah. Ma quello lo faccio già ora!
Lavoro? No grazie! Ovvero: la vita è altrove, Alberto Tognola
A questo punto occorre sgomberare il campo dalla grande confusione concettuale che avvolge oggigiorno il termine “lavoro”. Dovrebbe essere ovvio che lavoro non è sinonimo di fatica, anche se la implica. Una certa quantità di fatica è insita in qualsiasi attività – anche in quelle più immanenti al fatto stesso di esistere – questa è una legge fisica inaggirabile. Ma il punto non è questo. L’uomo ha sempre avuto un rapporto ambiguo con lo sforzo fisico. (...)
Da un lato è naturalmente portato a ridurre la difficoltà che deve affrontare nello svolgere una data attività, e ciò potrebbe essere una delle cause dell’origine e dello sviluppo della tecnica.
Uno dei primi principi fisici inconsapevolmente seguito per diminuire la fatica, sarà stato verosimilmente quello della leva, un fantastico ausilio tecnico funzionante al giorno d’oggi come millenni di anni fa. Da un altro lato, l’uomo non ha mai disdegnato la fatica, quando essa era immediatamente diretta a soddisfare un suo desiderio o a ottenere un vantaggio immediato per sé o per i suoi: raggiungere un frutto su di un ramo lontano, costruire un riparo dalla pioggia o una piroga per andare a pescare o solo per attraversare il fiume, fabbricarsi un arco per cacciare con maggiore efficacia (qui le due tendenze si sovrappongono), intagliare un ramo cavo per regalarsi un flauto, cucirsi un bel perizoma per proteggere i genitali, cercare erbe e terre con cui ornarsi il corpo ecc.
Anche l’attività sessuale volta a procurarci l’orgasmo implica un gran dispendio d‘energia, eppure l’affrontiamo con gioia. L’uomo delle società tecnicamente avanzate, che ha sempre meno bisogno di compiere sforzo fisico per guadagnarsi da vivere, che aborrisce la fatica e snobba i mestieri che ne richiedono (accettando per contro lo sforzo intellettuale insito in molteplici attività lavorative moderne), ricerca la fatica volontariamente, quasi come un piacevole diversivo, un benefico compenso: scalando montagne, correndo in bicicletta, macinando in piscina vasca dopo vasca o, più prosaicamente, sudando come una fontana in palestra “per tenersi in forma”.
L’attività sentita come obbligo, dovere, imposizione, costrizione, necessità ineludibile, questa è lavoro. Tento di illustrare ciò con un esempio personale. Io faccio tante cose che mi tornano utili e facendole ne traggo soddisfazione: curo l’orto per procurarmi la mia verdura, poto alberi da frutto per mangiare mele e susine sane, taglio piante per ricavarne legna da ardere, riparo vecchi muri a secco perché non franino… Mai, però, farei queste cose per altre persone a pagamento, perché in quel momento tali attività muterebbero natura, svilirebbero in lavoro perdendo per me qualsiasi fascino.
Quando la vita segue il principio del gioco e del godimento, o l’innata pulsione creativa, l’attività che ne consegue è positiva, salutare sia per l’individuo che per la collettività.
Questa profonda spinta naturale (il gioco è una costante anche nell’apprendimento alla vita degli animali) si manifesta esemplarmente nei bambini, che possono passare ore, fino allo sfinimento, a spingere una slitta su per un pendio dal quale scendere poi urlando di gioia, a sguazzare nell’acqua sollecitando anche il più piccolo muscolo del corpo, a costruire e ricostruire con pazienza da Sisifo castelli di sabbia. E lo scaltro genitore ben riesce a sfruttare questo piacere per l’attività ludica per portare il figlio-bambino a compiere suo malgrado un lavoro, ché se chiesto con questo termine incorrerebbe nel rifiuto o nell’obbedire controvoglia.
Lavoro e libera attività si possono descrivere anche con altri concetti o immagini. Svolgere un’attività per procurarsi i soldi per comperare i mezzi con cui soddisfare bisogni per lo più indotti – la tipica modalità a cui s’è ridotta l’iniziativa individuale nella società capitalistica – questo è lavoro, per leggero e piacevole che possa sembrare; darsi da fare in prima persona per carpire alla natura il necessario per campare decentemente, questo non è lavoro, anche se implica fatica.
Oppure: raccogliere bacche, catturare un cervo, fabbricarsi delle ciabatte, produrre le proprie patate, dedicarsi alla pittura o al cucito non è lavoro; cogliere o produrre una cosa qualsiasi, vendere le proprie abilità manuali, la propria capacità intellettuale, la propria fantasia per procurarsi i soldi con cui acquistare frutta, carne, vestiti, verdura, libri, CD o quadri, questo è lavoro.
O ancora: vendersi per un salario è lavoro. Il fatto di essere costretti a lavorare non può produrre piacere o solo un suo infido surrogato, indipendentemente dalla “qualità” della mansione svolta.
Purtroppo, nell’attuale organizzazione sociale finalizzata alla produzione di merce, profitto e potere, le due distinte caratteristiche dell’intraprendenza umana si sono confuse o, più precisamente, l’attività lavorativa, eterodiretta, resa subdolamente necessaria al soddisfacimento di sempre nuovi falsi bisogni, ha fagocitato quella ludica, il termine “lavoro” è ormai sinonimo di “attività”.
E SE IL LAVORO PIACE?
Non si può fare all’amore dalla mattina alla sera, per questo hanno inventato il lavoro
Il motto sotto il titolo allude alla funzione del lavoro quale surrogato della sessualità: libido repressa, carenza affettiva, difficoltà relazionali ecc. possono “efficacemente” essere compensate attraverso il lavoro e indirettamente attraverso i consumi che esso rende possibili. Sublimazione e compenso riescono a tal punto a snaturare il principio del piacere quale fondamentale fine della vita, da confonderlo con il lavoro, cioè con la maniera più sicura di passare a lato della vita.
Che il lavoro piaccia a molta gente è purtroppo vero. Da parecchi decenni la medicina ha coniato il termine “workaholic” per designare una vera e propria malattia psico-fisica, quasi una pandemia persistente, che affligge tanti individui d’ambo i sessi dipendenti dal lavoro come si può essere dipendenti dalla droga, dai medicinali, dal fumo o dall’alcol.
Una categoria particolarmente affetta da questo morbo è quella dei quadri superiori, manager, direttori, amministratori delegati di SA e multinazionali. (...)
Fuori dalla letteratura, nella società reale esiste – oltre alle élite dirigenti, la cui malattia da lavoro può trovare una forte giustificazione materiale (ricchezza e potere) – una schiera più numerosa di persone d’ogni ceto affette da una sindrome ideologica altrettanto micidiale; alludo a chi vede nel lavoro l’unica via degna di essere praticata per garantirsi la sopravvivenza, assumendolo nel contempo quale mezzo per realizzare l’illusorio sogno di emulare le suddette élite.
A parziale discolpa di chi vede nel lavoro un valore positivo va considerato il triste fatto che, troppo spesso, il mondo del lavoro rappresenta per la singola persona l’unica maniera di socializzare: vedere altra gente, stringere amicizie, partecipare a eventi vari, conoscere altre realtà, superando così la ristretta sfera della vita familiare.
Non va comunque scordato che solo in casi rari si può veramente scegliere per impulso proprio una professione che piaccia o soddisfi. La libertà di scelta è sempre limitata dall’offerta altrui. I mestieri sono prestabiliti ed i giovani vengono per lo più influenzati da genitori, maestri e orientatori professionali in base alle necessità congiunturali dell’economia o dello Stato. Oltre che influenzata, la scelta è inoltre obbligata: la società attuale chiede ad ognuno/a di sottoporsi al lavoro salariato.
Liberarsi dal lavoro significa quindi anche liberarsi da quest’obbligo di scegliere tra finalità altrui, acquistando la possibilità di agire secondo le proprie pulsioni..
Il turista e il pescatore
Concludo il mio testo con una parabola che riassume tante sfaccettature di un modo di vivere e di pensare positivo, responsabile e sostenibile: sottrazione alla logica del mercato e del consumismo, sintonia con i ritmi naturali, sobrietà, attività autonoma, padronanza dei mezzi di sostentamento e, non da ultimo, rifiuto del lavoro salariato.
A metà mattino, l’industriale tedesco in vacanza nell’isoletta greca trova l’amico pescatore seduto sulla veranda di casa che osserva il mare e le navi che vi passano lente e silenziose.
- Buon giorno Kiriakos. Non lavori oggi?
- Sì, ho già finito.
- Come, sono appena le nove e mezzo!
- Finito, ti ho detto. Oggi il mare è stato generoso. Ci ho messo poco a riempire la rete.
- Ma quanto pesce prendi?
- Quanto basta alla mia famiglia e per alcuni anziani che non escono più a mare.
- Dovresti pescarne di più.
- Per che farne?
- Per venderlo e guadagnare più soldi.
- E perché?
- Per comperare una barca più grossa, con la quale puoi pescare ancora di più.
- Ah. E perché?
- Così potresti recarti sul continente, vendere ai molti ristoranti e negozi della città. Fare più soldi e arredare la barca ancora meglio. Così guadagneresti ancora di più.
- Ah. E poi?
- Fra una decina d’anni potresti assumere alcuni marinai che lavorano al tuo posto.
- Ed io, che farei?
- Te ne staresti tranquillo in veranda ad ammirare il mare.
- Ah. Ma quello lo faccio già ora!
Lavoro? No grazie! Ovvero: la vita è altrove, Alberto Tognola