Io e Ali eravamo forti ma quando salivamo sul ring con lui, lo rispettavamo. La prima cosa che ricordo è quando mi ha mancato, mi sono spaventato così tanto che l'ho colpito sei volte. E anche quando hanno fermato l'incontro, dando a me il titolo, lui era ancora in piedi.
George Foreman
____________
Ricorderò sempre Joe con rispetto e ammirazione.
Muhammed Alì
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Mi piace essere sempre in moto, arrivare e andarmene presto. A che cosa mi serve avere vicino un altro? A farmi portare in giro in automobile e a lasciare che sia lui a divertirsi? L'unico posto in cui ho bisogno di aiuto è sul ring, e lì vogliono che ci vada da solo.
Joe Frazier
George Foreman
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Ricorderò sempre Joe con rispetto e ammirazione.
Muhammed Alì
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Mi piace essere sempre in moto, arrivare e andarmene presto. A che cosa mi serve avere vicino un altro? A farmi portare in giro in automobile e a lasciare che sia lui a divertirsi? L'unico posto in cui ho bisogno di aiuto è sul ring, e lì vogliono che ci vada da solo.
Joe Frazier
C’è sempre qualcosa d’impuro nella riuscita, una volgarità nella vittoria... Di totalmente grande c’è solo la sconfitta.
Charles Peguy
La boxe è secca nei colpi e negli addii. Joe Frazier è morto l'8 novembre scorso, a 67 anni. Con lui se ne va un altro pezzo di un'epoca della boxe che mollava jab, sputava sangue, ma non indietreggiava di un centimetro. Questo colosso, un carro armato di 110 kg per 1 metro e 85, è stato ucciso da un tumore fulminante al fegato.
Nato a Beaufort, nella Carolina del Sud, dodicesimo di 13 figli, Joe prima di cominciare la carriera pugilistica feceva l'apprendista macellaio a Philadelphia. Stallone nel film "Rocky" l'idea di allenarsi nei macelli la prese proprio dalla vita Frazier (lo so bene io, nipote e figlio di macellaio, i muscoli che vengon su a furia di sollevare quarti e mezzene di manzo!). Una carriera pugilistica fatta di 37 incontri, di cui 32 vittorie (27 per ko), 1 pareggio e 4 sconfitte. Fu anche medaglia d’oro alle Olimpiadi di Tokio nel ’64, dopo una finale giocata con una mano rotta, poi subito ingessata. Nel 1968 diventò campione dei pesi massimi, titolo che l’anno prima era stato tolto a Muhammad Alì per la sua renitenza alla leva.
Di tutta la sontuosa lista di successi, restano però memorabili le quattro sconfitte, per mano di Alì e di George Foreman: perchè Joe Frazier fu un grande sconfitto, un gigantesco, struggente, “numero due”. Che però visse la sua notte di gloria: la sera dell’8 marzo 1971 al Madison Square Garden sconfisse ai punti Alì, il suo rivale di sempre, che tornava sul ring dopo 43 mesi di esilio.
Grazie al suo infinito carisma quest’ultimo era riuscito, a livello psicologico e mass-mediatico, ad invertire i ruoli dello scontro: anche se di fatto egli era lo sfidante, colui che inseguiva il titolo che gli era stato tolto senza alcuna sconfitta sul ring quattro anni prima, alla fine dei conti risultava che era Frazier a inseguire, a cercare di legittimarsi sconfiggendo la fama e poi la persona che gli stava davanti, sempre avanti.
Alì e Frazier, come Mozart e Salieri, come Kennedy e Nixon, il Bello e la Bestia. Ali chiamava Joe il Gorilla, ma tra i due, a parte il battage pubblicitario, c'era stima reciproca. Organizzarono da soli l’incontro. I dettagli furono stabliti in un viaggio in macchina fatto da Filadelfia a New York con Alì che era andato a prendere Frazier nella sua casa in Pennsylvania. Una borsa immensa, i diritti spartiti tra i due pugili senza l’intermediazione dei promoter.
Quella sera tutto il mondo era lì al Madison Square Garden: Ted Kennedy e Aretha Franklin, Bing Crosby e Frank Sinatra, e Burt Lancaster che commentando per una rete televisiva ad un certo punto esclamò: “Frazier non è pugile, ma un carroarmato Sherman!”.
Questo era lo stile, privo di stile, di Joe Frazier: avanzare. Prendere i pugni dell’avversario, anche tanti pugni, ma riuscire a sferrarne uno, uno di quei sinistri devastanti che “sembravano provenire dal pavimento”, come ebbe a dire Alì che al quindicesimo round, dopo averne preso uno che lo aveva letteralmente sollevato dal ring, era finito al tappeto, conoscendo l’umiliazione dell’essere contato, anche se per soli quattro secondi.
Alla fine Frazier si ruppe il polso destro e Alì la mascella. La cantante Diana Ross si mise a terra a piangere, ma Alì con fierezza disse: "Io non piango e non dovrebbero farlo nemmeno i miei amici". Ebbe ragione il più basso, il meno dotato di scherma, ma il più forte fisicamente. Frazier divenne The Champ.
"Frazier era diventato il pugile dell'uomo bianco, Charley tifava per Frazier, e questo significava che in cuor loro i neri lo boicottavano. Poteva essere veleno per il suo morale, perché Frazier era nero il doppio di Clay, e quasi bello quanto lui". Norman Mailer consegna così alle cronache, precisamente per le pagine del settimanale Life, la sua roboante visione dell'incontro del secolo, così è passato alla storia, al Madison Square Garden di New York. Il lungo articolo fu titolato Ego e uscì appena 11 giorni dopo la prima sconfitta sul ring di Muhammad Alì: Joe Frazier lo aveva messo al tappeto!
E la sfida tra i due, con le successive rivincite per il titolo dei pesi massimi - il 28 gennaio 1974 ancora a New York e il 1 ottobre 1975 nelle Filippine per la battaglia finale, "Thrilla in Manila" - è stata la più sanguinosa, sul ring e a parole.
Alì uscì vittorioso dagli ultimi due incontri, ma sfinito. Ferdie Pacheco, il suo inseparabile uomo dell'angolo, si era già convinto che corresse il serio pericolo di subire danni cerebrali se non si fosse ritirato.
In Jamaica Frazier fu a sua volta umiliato per sei volte dal tornado-Foreman, che in due brutalissimi round conquistò il titolo che poi perderà nell’incontro più celebre e incredibile della boxe, quello di Kinshasa del ’74 con Alì (ko all’ottavo round!).
Un po’ come nella vita, le cose si combinano non perfettamente ma misteriosamente: Frazier aveva battuto Alì ma aveva perso con Foreman, mentre Alì avrebbe battuto Foreman in una performance unica e irripetibile.
Tra Alì e Frazier nacque un vero e proprio lungo rapporto di rivalità-amicizia, di stima e contrapposizione profonda, un dualismo fuori e dentro il ring che alimentava il mito dell’epica della boxe. “Io senza di lui non potrei essere quello che sono e viceversa” dirà poi Alì, “insieme abbiamo fatto una bella squadra”.
I tre incontri della “squadra" Alì-Frazier sono rimasti nella storia della noble art che forse proprio il 30 settembre del 1975, nelle Filippine, ha conosciuto il suo canto del cigno. Il terzo, durissimo e ultimo match si tenne infatti a Manila (“the Thrilla in Manila”, secondo le filastrocche di Alì che avrebbe dovuto “to beat the Gorilla”) e finì con l’abbandono di Frazier all’inizio dell’ultimo round. Voleva combattere fino alla fine, ma da due riprese non ci vedeva più. Il suo trainer Eddie Futch con dolcezza gli disse: "Siediti, ragazzo, è finita. Nessuno dimenticherà mai quello che hai fatto oggi".
Così furono i suoi secondi a gettare la spugna, perchè Joe non l’avrebbe mai fatto! “Frazier è capace, se lo butti giù, di rimettersi in piedi prima ancora di toccare terra” pensava con atroce timore Alì mentre cercava di sferrare il colpo del ko a Foreman chiedendosi: “...E se George fosse simile a Joe?”.
Ma Joe era unico; egli era da un certo punto di vista, il vero pugile. Con la sua incredibile arte di incassatore e la tenace e commovente furia che lo spingeva a procedere sempre in avanti, noncurante dei sacrifici da pagare pur di mantenere questa tattica semplice quanto ostinata, Frazier ha incarnato l’idea platonica del pugile molto più dei suoi vincitori.
In questo senso Frazier è molto “più pugile” di Alì, perchè Alì appartiene ad un’altra sfera, quella dell'ottava meraviglia, quella del genio, dell’arte, della bellezza, ma è Smokin’ Joe Frazier (Il soprannome glielo aveva dato il suo manager Yank Durham, che prima dei match aveva sempre l´abitudine di dirgli: "Vai lì fuori e fai uscire fumo da quei guanti") ad appartenere alla boxe, a quello sport che come ebbe a dire George Foreman, è “lo sport verso cui tutti gli altri tendono”. Quando lui picchiava, e sapeva farlo, i campioni dei massimi guadagnavano più dell'inquilino della Casa Bianca. Erano conosciuti e rispettati. Erano il simbolo di come si sta in piedi nella vita: pestati, ma a testa alta!
Charles Peguy
La boxe è secca nei colpi e negli addii. Joe Frazier è morto l'8 novembre scorso, a 67 anni. Con lui se ne va un altro pezzo di un'epoca della boxe che mollava jab, sputava sangue, ma non indietreggiava di un centimetro. Questo colosso, un carro armato di 110 kg per 1 metro e 85, è stato ucciso da un tumore fulminante al fegato.
Nato a Beaufort, nella Carolina del Sud, dodicesimo di 13 figli, Joe prima di cominciare la carriera pugilistica feceva l'apprendista macellaio a Philadelphia. Stallone nel film "Rocky" l'idea di allenarsi nei macelli la prese proprio dalla vita Frazier (lo so bene io, nipote e figlio di macellaio, i muscoli che vengon su a furia di sollevare quarti e mezzene di manzo!). Una carriera pugilistica fatta di 37 incontri, di cui 32 vittorie (27 per ko), 1 pareggio e 4 sconfitte. Fu anche medaglia d’oro alle Olimpiadi di Tokio nel ’64, dopo una finale giocata con una mano rotta, poi subito ingessata. Nel 1968 diventò campione dei pesi massimi, titolo che l’anno prima era stato tolto a Muhammad Alì per la sua renitenza alla leva.
Di tutta la sontuosa lista di successi, restano però memorabili le quattro sconfitte, per mano di Alì e di George Foreman: perchè Joe Frazier fu un grande sconfitto, un gigantesco, struggente, “numero due”. Che però visse la sua notte di gloria: la sera dell’8 marzo 1971 al Madison Square Garden sconfisse ai punti Alì, il suo rivale di sempre, che tornava sul ring dopo 43 mesi di esilio.
Grazie al suo infinito carisma quest’ultimo era riuscito, a livello psicologico e mass-mediatico, ad invertire i ruoli dello scontro: anche se di fatto egli era lo sfidante, colui che inseguiva il titolo che gli era stato tolto senza alcuna sconfitta sul ring quattro anni prima, alla fine dei conti risultava che era Frazier a inseguire, a cercare di legittimarsi sconfiggendo la fama e poi la persona che gli stava davanti, sempre avanti.
Alì e Frazier, come Mozart e Salieri, come Kennedy e Nixon, il Bello e la Bestia. Ali chiamava Joe il Gorilla, ma tra i due, a parte il battage pubblicitario, c'era stima reciproca. Organizzarono da soli l’incontro. I dettagli furono stabliti in un viaggio in macchina fatto da Filadelfia a New York con Alì che era andato a prendere Frazier nella sua casa in Pennsylvania. Una borsa immensa, i diritti spartiti tra i due pugili senza l’intermediazione dei promoter.
Quella sera tutto il mondo era lì al Madison Square Garden: Ted Kennedy e Aretha Franklin, Bing Crosby e Frank Sinatra, e Burt Lancaster che commentando per una rete televisiva ad un certo punto esclamò: “Frazier non è pugile, ma un carroarmato Sherman!”.
Questo era lo stile, privo di stile, di Joe Frazier: avanzare. Prendere i pugni dell’avversario, anche tanti pugni, ma riuscire a sferrarne uno, uno di quei sinistri devastanti che “sembravano provenire dal pavimento”, come ebbe a dire Alì che al quindicesimo round, dopo averne preso uno che lo aveva letteralmente sollevato dal ring, era finito al tappeto, conoscendo l’umiliazione dell’essere contato, anche se per soli quattro secondi.
Alla fine Frazier si ruppe il polso destro e Alì la mascella. La cantante Diana Ross si mise a terra a piangere, ma Alì con fierezza disse: "Io non piango e non dovrebbero farlo nemmeno i miei amici". Ebbe ragione il più basso, il meno dotato di scherma, ma il più forte fisicamente. Frazier divenne The Champ.
"Frazier era diventato il pugile dell'uomo bianco, Charley tifava per Frazier, e questo significava che in cuor loro i neri lo boicottavano. Poteva essere veleno per il suo morale, perché Frazier era nero il doppio di Clay, e quasi bello quanto lui". Norman Mailer consegna così alle cronache, precisamente per le pagine del settimanale Life, la sua roboante visione dell'incontro del secolo, così è passato alla storia, al Madison Square Garden di New York. Il lungo articolo fu titolato Ego e uscì appena 11 giorni dopo la prima sconfitta sul ring di Muhammad Alì: Joe Frazier lo aveva messo al tappeto!
E la sfida tra i due, con le successive rivincite per il titolo dei pesi massimi - il 28 gennaio 1974 ancora a New York e il 1 ottobre 1975 nelle Filippine per la battaglia finale, "Thrilla in Manila" - è stata la più sanguinosa, sul ring e a parole.
Alì uscì vittorioso dagli ultimi due incontri, ma sfinito. Ferdie Pacheco, il suo inseparabile uomo dell'angolo, si era già convinto che corresse il serio pericolo di subire danni cerebrali se non si fosse ritirato.
In Jamaica Frazier fu a sua volta umiliato per sei volte dal tornado-Foreman, che in due brutalissimi round conquistò il titolo che poi perderà nell’incontro più celebre e incredibile della boxe, quello di Kinshasa del ’74 con Alì (ko all’ottavo round!).
Un po’ come nella vita, le cose si combinano non perfettamente ma misteriosamente: Frazier aveva battuto Alì ma aveva perso con Foreman, mentre Alì avrebbe battuto Foreman in una performance unica e irripetibile.
Tra Alì e Frazier nacque un vero e proprio lungo rapporto di rivalità-amicizia, di stima e contrapposizione profonda, un dualismo fuori e dentro il ring che alimentava il mito dell’epica della boxe. “Io senza di lui non potrei essere quello che sono e viceversa” dirà poi Alì, “insieme abbiamo fatto una bella squadra”.
I tre incontri della “squadra" Alì-Frazier sono rimasti nella storia della noble art che forse proprio il 30 settembre del 1975, nelle Filippine, ha conosciuto il suo canto del cigno. Il terzo, durissimo e ultimo match si tenne infatti a Manila (“the Thrilla in Manila”, secondo le filastrocche di Alì che avrebbe dovuto “to beat the Gorilla”) e finì con l’abbandono di Frazier all’inizio dell’ultimo round. Voleva combattere fino alla fine, ma da due riprese non ci vedeva più. Il suo trainer Eddie Futch con dolcezza gli disse: "Siediti, ragazzo, è finita. Nessuno dimenticherà mai quello che hai fatto oggi".
Così furono i suoi secondi a gettare la spugna, perchè Joe non l’avrebbe mai fatto! “Frazier è capace, se lo butti giù, di rimettersi in piedi prima ancora di toccare terra” pensava con atroce timore Alì mentre cercava di sferrare il colpo del ko a Foreman chiedendosi: “...E se George fosse simile a Joe?”.
Ma Joe era unico; egli era da un certo punto di vista, il vero pugile. Con la sua incredibile arte di incassatore e la tenace e commovente furia che lo spingeva a procedere sempre in avanti, noncurante dei sacrifici da pagare pur di mantenere questa tattica semplice quanto ostinata, Frazier ha incarnato l’idea platonica del pugile molto più dei suoi vincitori.
In questo senso Frazier è molto “più pugile” di Alì, perchè Alì appartiene ad un’altra sfera, quella dell'ottava meraviglia, quella del genio, dell’arte, della bellezza, ma è Smokin’ Joe Frazier (Il soprannome glielo aveva dato il suo manager Yank Durham, che prima dei match aveva sempre l´abitudine di dirgli: "Vai lì fuori e fai uscire fumo da quei guanti") ad appartenere alla boxe, a quello sport che come ebbe a dire George Foreman, è “lo sport verso cui tutti gli altri tendono”. Quando lui picchiava, e sapeva farlo, i campioni dei massimi guadagnavano più dell'inquilino della Casa Bianca. Erano conosciuti e rispettati. Erano il simbolo di come si sta in piedi nella vita: pestati, ma a testa alta!
C'era anche Muhammad Ali, il rivale di tante battaglie, ai funerali di Smokin’ Joe. L'orazione funebre è stata celebrata dal reverendo Jesse Jackson, il quale al termine ha chiesto ai presenti di alzarsi e "mostrare il vostro amore" nei confronti di Smokin' Joe. E' stato il momento in cui anche Alì si è alzato per applaudire e salutare il suo vecchio rivale.
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