Escribo a usted Don Emiliano, para que sepa usted que aqui estamos...



Il subcomandante Marcos arrivò nella Selva Lacandona del Chiapas, nel sud est del Messico, nel 1984, e lì ha vissuto per 17 anni con le comunità indigene tzotziles e tzeltales fino all'11 marzo scorso, quando la marcia che ha guidato attraversando mezzo paese si è conclusa con una gigantesca manifestazione nella piazza della Costituzione - meglio nota come el Zocalo - di Città del Messico. In questo luogo, simbolo della storia del Messico, il capo dell'esercito zapatista, senza un'arma addosso, ha confermato la decisione del suo movimento di fare politica con le buone maniere. Da quel giorno, i messicani attendono con ansia l'esito delle trattative, perché sanno che il futuro del paese dipende in gran parte dai negoziati con questo misterioso uomo incappucciato e il gruppo di comandanti che compongono il suo stato maggiore. La sua missione è ottenere l'approvazione di una legge sui diritti degli indigeni. Marcos si è insediato con la sua gente nella Scuola Nazionale di Antropologia e Storia (Enah), nella zona sud della città, trasformando i suoi saloni e le sue classi in dormitori improvvisati e nel centro di attenzione dell'opinione pubblica mondiale sia per l'importanza dei suoi inquilini che per il numero di notizie che produce la loro presenza nel college. Alla fine Marcos ha ottenuto udienza dai deputati del Congresso: parlerà dalla tribuna del Parlamento mercoledì prossimo.

Sette anni dopo l'annuncio che l'Ezln sarebbe entrato trionfalmente a Città del Messico, lei è arrivato nello Zocalo e lo ha trovato strapieno di gente. Che effetto le ha fatto salire sul palco e vedere lo spettacolo?
Seguendo la tradizione zapatista dell'anticlimax, il posto peggiore per vedere una manifestazione nello Zócalo è il palco. C'era molto sole, molto smog, avevamo tutti un gran mal di testa ed eravamo preoccupati per le persone che svenivano dal caldo davanti a noi. Ho detto subito al comandante Tacho che dovevamo fare in fretta con il comizio perché c'era il rischio che quando avremmo cominciato a parlare noi, non sarebbe rimasto nessuno nella piazza. Non potevo vedere tutta la piazza. La distanza fisica di sicurezza tra noi e la gente era anche una distanza emotiva e non abbiamo capito nulla di quello che è accaduto fino al giorno dopo, quando abbiamo letto i resoconti dei giornali e abbiamo visto le foto. Credo che sia stata la fine di un percorso. I nostri discorsi sono stati equilibrati. Abbiamo stupito coloro che speravano saremmo andati a prendere il Palazzo o avremmo fatto un appello alla insurrezione generale. Ma anche quelli che pensavano che il nostro discorso si sarebbe limitato ad una questione lirica o poetica. Penso che il bilancio di quello che abbiamo ottenuto è sufficiente. Che in un modo o nell'altro l'Ezln stava parlando nello Zocalo l'11 marzo, ma non del 2001, stava parlando di qualcosa che doveva ancora concludersi: questo sentimento significa che la sconfitta definitiva del razzismo deve diventare una politica di Stato, una politica educativa, una scelta di tutta la società messicana. Come diciamo noi militari: la guerra è vinta ma ci sono ancora alcune battaglie da combattere. Penso che quel giorno nello Zocalo abbiamo capito che la scelta di lasciare le armi era stata giusta, che la scommessa della mobilitazione pacifica era corretta e che stava dando i suoi risultati. Manca che lo Stato messicano lo capisca, che il governo lo accetti concretamente.

Lei ha usato l'espressione "come diciamo noi militari". Per noi colombiani, che abbiamo ascoltato la nostra guerriglia, il suo non sembra un discorso militare. Che cosa ha lei di militare e come descriverebbe la guerra che ha combattuto?
Noi siamo cresciuti dentro un esercito, quello zapatista di liberazione nazionale. La struttura è militare. Il subcomandante Marcos è il capo militare di un esercito. In ogni caso il nostro è un esercito particolare perché sta proponendo di smettere di esserlo. Un militare è una persona assurda che ha bisogno di ricorrere alle armi per convincere l'altro delle sue ragioni. In questo senso il movimento non ha futuro se il suo futuro è militare. Se l'Ezln si perpetua come struttura militare armata, va al fallimento. Un fallimento come opzione ideale, di posizione di fronte al mondo. Arrivare al potere e insediarsi come un esercito rivoluzionario sarebbe la cosa peggiore che potrebbe accaderci. Per noi sarebbe un fallimento. Ciò che poteva essere considerato un successo per una organizzazione politico-militare degli anni '60 o '70, nata come movimento di liberazione nazionale, per noi sarebbe uno smacco. Abbiamo capito che quelle vittorie erano in realtà fallimenti, sconfitte nascoste dietro la loro stessa maschera. Che il problema rimane sempre quello del ruolo della gente, la società civile, il popolo. Che alla fine è una disputa tra due egemonie. C'è un gruppo di potere oppressore che dall'alto decide per la società, poi c'è un gruppo di illuminati che decide di condurre il paese in un modo migliore e toglie il potere all'altro gruppo, prende il potere e da quel momento prende decisioni in nome di tutta la società. Per noi questa è una lotta di egemonie, sempre ce n'è una buona e una cattiva: quella che va vincendo è la buona, l'altra la cattiva. Ma per il resto della società non cambiano le cose fondamentali. Nell'Ezln è arrivato il momento di superare lo zapatismo. La E di esercito si è rimpicciolita. Non è solo meno faticoso muoversi senza armi, per noi è anche un sollievo. Di fatto il sacco in spalla pesa meno di prima e pesa meno anche la parafernalia militare che inevitabilmente porta con sé un gruppo armato nel momento del dialogo con la gente. Non è possibile ricostruire il mondo, né la società, né ricostruire gli Stati nazionali, partendo da una disputa che consiste in chi va ad imporre la sua egemonia sulla società. Il mondo e la società messicana nel concreto, è composta da diversi. Tra questi diversi bisogna costruire una relazione sulla base della tolleranza e del rispetto. Queste cose non le ha mai dette nessuna organizzazione politico-militare degli anni '60 e '70. La realtà ha sempre passato il conto e per i movimenti armati di liberazione il costo della fattura è stato molto alto.

Di solito i guerriglieri parlano in nome della maggioranza. Lei invece parla per una minoranza quando potrebbe farlo per il popolo povero e sfruttato. Perché?
Tutte le avanguardie pensano di rappresentare la maggioranza. Naturalmente è falso. Nel nostro caso non solo sarebbe falso. Nel migliore dei casi sarebbe solo un desiderio. Nel peggiore un evidente esercizio di sovrapposizione. Quando entrano in gioco le forze sociali, l'avanguardia capisce che non è veramente avanguardia e che coloro che pensa di rappresentare non si riconoscono in lei. Ora che l'Ezln sta rinunciando ad essere una avanguardia sta riconoscendo il suo orizzonte reale. Credere che possiamo parlare per qualcun altro, oltre che per noi, è solo masturbazione politica. Noi stiamo solo cercando di essere onesti con noi stessi e qualcuno potrebbe affermare che è una questione di bontà umana. No. Potremmo anche essere cinici e dire che essere onesti ci ha dato dei risultati quando abbiamo detto che rappresentiamo soltanto le comunità indigene zapatiste di una zona del sud est messicano. Ma il nostro appello è riuscito a raggiungere le orecchie di moltissima altra gente. Fino a lì siamo arrivati. Non oltre. In tutti i discorsi che abbiamo fatto durante la marcia abbiamo spiegato alla gente che non possiamo né dirigere, né appoggiare altre lotte. Sappiamo che in Messico ci sono molte ingiustizie, molte ferite, molte proteste ma noi siamo stati onesti. E abbiamo spiegato alla gente che non potevamo occuparci anche di queste. Siamo venuti per la legge degli indios.

Lei e gli zapatisti siete nel momento del massimo successo. E' appena caduto il PRI, c'è un progetto di legge in Parlamento per uno statuto delle comunità indigene e può cominciare la trattativa che voi volete. Come le sembra il panorama?
Come una lotta e una disputa tra un orologio che controlla l'orario d'ingresso degli impiegati in una azienda, cioè l'orologio di Fox, e il nostro che è un orologio di sabbia. La sfida è se noi ci allineiamo a questo orologio di controllo di Fox, o lui al nostro. Non accadrà né una cosa né l'altra. Dobbiamo accettare, lui e noi, che bisogna fabbricarne un altro di comune accordo. Sarà quello che costruiremo che segnerà il ritmo del processo di dialogo e alla fine, il ritmo della pace. Noi siamo nel loro terreno, nella sede del potere politico. Siamo una organizzazione completamente inefficace quando si tratta di fare politica, almeno questa politica. Siamo maldestri, balbuzienti ma con buona volontà. Dall'altra parte ci stanno coloro che maneggiano bene i codici della politica. È, un'altra volta, la sfida tra il fare politico della classe dei politici e il nostro. Credo che alla fine non vincerà né il loro né il nostro. Quando abbiamo fatto la guerra abbiamo sfidato il governo, ora per costruire la pace dobbiamo sfidare non solo il governo ma tutto lo stato messicano. Non esiste un tavolo di confronto con il governo. Dobbiamo costruirlo. Il compito che abbiamo di fronte è convincere il governo che bisogna costruire questo tavolo, che deve sedersi con noi e che ci guadagnerà. E che, se non lo fa, perderà.

Chi dovrebbe sedersi a questo tavolo?
Da una parte il governo, dall'altra noi.

Il presidente Fox non sta di fatto accettando questo tavolo di negoziato quando dice che vuole incontrarla. Riceverla nel palazzo del presidente o in qualsiasi altro luogo che lei scelga?
Quello che lui vuole è un pezzetto della torta mediatica. Perché questo non è diventato un processo di mediazione e dialogo ma una corsa di popolarità. Quello che vuole Fox è scattare una foto con me per garantire la sua presenza sui mezzi di comunicazione. Noi siamo disposti a parlare con Fox se lui si prende la responsabilità di arrivare fino alla fine del percorso. E chi governa il Paese mentre lui partecipa alle trattative di pace? È ovvio che deve nominare un commissario. Un commissario per la pace. Non c'è fretta. Noi non abbiamo tra i nostri sogni proibiti una foto insieme a Vicente Fox.

Nel corso di questo lungo processo lei continuerà a vestirsi così, come un guerrigliero in un college universitario? Come si svolge di solito una sua giornata tipo?
Mi alzo, concedo interviste finché non arriva l'ora di tornare a dormire (ride). Quello che stiamo facendo è stare su due tavoli con in mezzo una di quelle sedie girevoli con le ruote piccole che c'erano quando io ero giovane. In un tavolo parliamo con il Parlamento, nell'altro con le comunità indigene di Città del Messico. Ma siamo preoccupati perché il Congresso si comporta con noi come con chiunque altro che chiede qualcosa: ci stanno dicendo di aspettare perché devono occuparsi anche di altri problemi. Se è così non finirà bene perché non c'è in gioco solo il riconoscimento dei diritti delle comunità indigene. La gente non accetterà che i deputati si fermino a guardarla solo quando siamo prossimi ad un appuntamento politico. Inoltre sarebbe un pessimo segnale per altri gruppi più radicali che non condividono la nostra idea del negoziato e pensano che ci stiamo arrendendo.

Fra parentesi, lei ha detto che c'erano sedie girevoli quando era giovane. Quanti anni ha?
Ho 518 anni....(ride)

Il suo abbigliamento è curioso: un fazzoletto logoro legato al collo e un vecchio passamontagna. Però ha anche una lanterna che qui non le serve, una radio molto sofisticata e due orologi ai polsi. Sono simboli? Cosa significano?
La lanterna mi serve perché ci hanno messo in un buco dove non c'è luce mentre con la radio chiedo lumi ai miei assessori all'immagine. Loro mi dettano le risposte alle domande dei giornalisti. No, sul serio. Questo è un walkie-talkie che comunica con gli uomini della sicurezza e la radio mi serve per parlare con la nostra gente nel Chiapas ed essere avvisato se ci sono problemi. Abbiamo ricevuto numerose minacce di morte. Il fazzoletto che porto al collo era rosso e nuovo il giorno che abbiamo occupato San Cristobal de las Casas, sette anni fa. E il cappello che porto sopra il passamontagna è lo stesso che portavo diciotto anni fa, quando arrivai nella selva Lacandona. Uno dei due orologi è quello che avevo con me quando arrivai lì, l'altro ha iniziato a contare il giorno del cessate-il-fuoco. Quando le due ore coincideranno vorrà dire che il nostro esercito si è sciolto, che inizia un'altra stagione, un altro orologio, un altro tempo.

Nonostante tutto ha ancora tempo per leggere?
Certo. Perché altrimenti che facciamo? Negli eserciti di un tempo il militare approfittava del tempo libero per pulire le sue armi. Nel nostro caso, visto che le nostre armi sono le parole, dobbiamo occuparci del nostro arsenale in ogni momento.

Tutto quello che dice, lo forma nella quale lo dice, fa pensare ad una sua formazione letteraria molto seria e molto antica. Come nacque?
Viene dall'infanzia. Nella mia famiglia la parola aveva un valore molto particolare. Il modo di affacciarsi al mondo era attraverso il linguaggio. Non ho imparato a leggere a scuola ma leggendo i giornali. Mi padre e mia madre mi hanno insegnato a leggere libri da piccolissimo. Credo che grazie a ciò, io e i miei fratelli, abbiamo acquisito la coscienza del linguaggio come una forma non solo di comunicare ma anche di costruire qualcosa. Un piacere più che un dovere.

Possiamo parlare della sua famiglia?
Era una famiglia di classe media. Mio padre era maestro in una scuola rurale negli anni del cardenismo quando, diceva lui, ai maestri gli tagliavano le orecchie se simpatizzavano coi comunisti. Anche mia madre era maestra. Una famiglia senza problemi economici. Di provincia. Dove l'orizzonte culturale corrisponde alla pagina di società del giornale. Il grande mondo fuori da lì era Città del Messico, le sue librerie, quella delle librerie era per noi la grande attrazione di arrivare fino a qui. Ogni tanto riuscivamo a ottenere qualche libro nelle feste di paese: Garcia Marquez, Carlos Fuentes, Monsivais, Vargas Llosa. Mio padre ce li dava da leggere e crede che questo ci segnò. Non ci affacciammo al mondo attraverso una notizia di agenzia ma attraverso un racconto, un romanzo, un saggio. Quello fu lo specchio che misero i nostri genitori, come altri possono mettere quello dei mezzi di comunicazione, o un vetro nero affinché non si veda quello che sta succedendo nel mondo.

Quando arriva il Don Chisciotte in mezzo a tutte queste letture?
Me lo regalarono il giorno in cui ho compiuto dodici anni. Un copia elegante, rilegata. Ma lo avevo già letto nelle edizioni tascabili. Comunque se devo fare un ordine credo che lessi per primi i libri del cosiddetto boom latinoamericano, poi Cervantes, poi Garcia Lorca. Dunque lei (indica Garcia Marquez) è corresponsabile di tutto questo.

Che cosa sta leggendo adesso?
Il Don Chisciotte e il Romancero Gitano di Garcia Lorca li porto sempre con me. Il Don Chisciotte è il miglior libro di teoria politica che conosco, prima di Hamlet e del Macbeth. Non c'è modo migliore per capire il sistema politico messicano nel suo lato tragico e in quello comico: Don Chisciotte, Hamlet e Macbeth. Meglio di qualsiasi editoriale di analisi politica.

Lei scrive a mano o al computer?
Al computer. Solo durante la marcia ho scritto molto a mano. Faccio una bozza, poi un'altra e ancora un'altra e un'altra. Di solito quella buona arriva dopo il settimo tentativo.

Che cosa sta scrivendo?
Stavo provando a scrivere una follia, ossia provare a spiegare noi stessi a partire da noi stessi, cosa praticamente impossibile. Quello che noi dell'esercito zapatista dobbiamo raccontare è il paradosso che siamo. Perché un esercito non pianifica la presa del potere, perché un esercito non combatte se è questo il suo lavoro. Tutti i paradossi che abbiamo affrontato. Come siamo cresciuti in questi anni e siamo diventati forti in un settore della società - gli indios - completamente estraneo ai canali culturali.

Se tutto il mondo sa chi è lei, perché non si toglie il passamontagna?
Per civetteria. Comunque non sanno chi sono e soprattutto non gliene importa nulla. Qui è in gioco chi è oggi e non chi è stato il subcomandante Marcos.

Gabriel García Márquez

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