Non siete voi che avete scelto me, sono io che ho scelto voi. Non siete voi che avete scelto me, sono io che ho scelto voi. Sì, lo so che una volta la politica funzionava in maniera differente, c'erano i politici fascisti che dicevano cose fasciste e c'erano i comunisti che dicevano cose comuniste, ed erano differenti, chiaramente, l'uno dall'altro. E poi c'erano gli elettori fascisti che votavano per i loro politici fascisti e gli elettori comunisti che votavano per i loro politici comunisti. A quel tempo c'erano delle maggioranze, ma erano sempre delle piccole maggioranze, striminzite... 52, 55, 60 percento. Io invece vi dico che la vera maggioranza è del 100 percento! Per questo non ci si può fidare degli elettori: dobbiamo essere noi a scegliere voi, e non voi a scegliere noi.
Io voglio una maggioranza all inclusive, una cosa che già esista così, in natura, nel nostro paese. Per esempio, che ne so, la maggior parte degli italiani si mettono le dita nel naso? Allora faremo il partito delle dita nel naso. La maggior parte degli italiani c'hanno l'alito pesante? Faremo il partito dell'alito pesante.
Per esempio, avevo pensato a quella cosa dei preservativi, no?... Che la maggioranza degli italiani adulti, maschi, usano il preservativo, no?... E poi mi hanno fatto capire che il preservativo è una contraddizione politica, nel senso che se tu prendi tutti gli adulti che fanno sesso, che chiameremo i “torelli”, se a questi torelli togli i cattolici, che sono quelli che non dovrebbero usare il preservativo, vedrai che rimane una minoranza striminzitissima. I torelli miscredenti dovrebbero scopare quaranta volte al giorno e ogni volta usare almeno tre preservativi. Non è possibile! E' evidente che qualche cattolico lo usa lo stesso però in maniera clandestina. Ma scusa, dico, ti metti il cappuccetto e pensi che non ti riconosco, eh? Scopatore mascherato! E' evidente che quei cattolici non mi avrebbero dato il loro voto.
Così, allora, ho pensato alle bevande gassate... Chè la maggior parte degli italiani bevono queste bevande gassate, porca-coca-nazi-cola, però c'era questo problemaccio del rutto. Per l'amor del cielo, adesso i ruttatatori stanno tutti lì a tocca' il culo alle ragazzine e noi non ci facciamo problemi, però al tempo, a quel tempo lì, c'era ancora un certo galateo, 'na certa etichetta, 'na certa eleganza.... Mi capite?
Poi ad un certo punto, come per magia, si è liberato un posto a destra, perché un gruppo di politici bottegai so' finiti in galera. Io ho comprato tutta la bottega politica all'asta fallimentare. Che poi dico, s'è liberato a destra e quindi mi son buttato a destra, ma se si liberava a sinistra io mi buttavo a sinistra, eh... Io la penso come quel vecchio benzinaio morto, quello che diceva che i partiti sono come i taxi. Dice: io i partiti li pago tutti per farmici un giro, per usarli. Ecco, io la penso alla stessa maniera: quando faccio politica non ne faccio una questione politica. Perciò mi sono buttato a destra. A quel punto cosa avrei dovuto fare, eh? Il solito partito del 55, del 60 percento? No, perché la vera maggioranza è soltanto il 100 percento.
Così ho ripensato a quella vecchia storiella del lupo, la capra e il cavolo, no? Che ci sta un contadino, 'sto contadino c'ha 'na barca, strano che un contadino c'abbia 'na barca e no 'na motozappa, un trattore... ma comunque c'ha 'na barca, e il contadino con la sua barca deve far attraversare un corso d'acqua ad un lupo, che è strano pure che c'abbia 'sto lupo, un lupo, una capra e un cavolo... come fa? Perché li deve fare attraversare uno alla volta. Prima sappiamo che fa attraversare la capra, perché il lupo rimane col cavolo, e il lupo non si mangia il cavolo. Poi torna indietro, prende il cavolo e lo porta dalla capra, però non può lasciare il cavolo insieme alla capra, perché sennò la capra se lo mangia. Così riprende la capra e la porta dal lupo, ma non la può lasciare dal lupo, perché sennò il lupo se la mangia. Così allora prende il lupo e lo porta dal cavolo, prende la capra e la fa attraversare.
E questo è il vecchio modo di fare politica, ovverosia di salvare capre e cavoli, metterli tutti d'accordo, fare le alleanze... Io vi dico che però, se voi chiedete al lupo, vedrete che il lupo magari la capra non se la mangia, però tutte le volte che la vede passare c'ha l'acquolina in bocca. E chiedete pure alla capra, eh? Magari la capra non si mangia il cavolo perché c'è il contadino che fa da guardia, però tutte le volte che pensa al cavolo c'avrebbe voglia di saltargli addosso a 'sto cavolo, e mangiarselo con un boccone. Allora io vi dico che se quel contadino si candidasse alle prossime elezioni vedrete che c'avrebbe magari il voto del lupo, ma non quello della capra. E se lo vota la capra, sicuramente non prenderà il voto del cavolo.
Allora io vi dico che c'è un'altra strategia politica. Facciamo traversare, per esempio, la capra. Poi andiamo a prendere il cavolo e portiamolo dalla capra, giriamoci e facciamo finta di niente. La capra si mangia il cavolo, noi abbiamo perso un cavolo ma abbiamo guadagnato il voto della capra. Poi prendiamo il lupo, portiamolo dalla capra, voltiamoci di spalle e facciamo finta di niente. Il lupo si mangia la capra, noi abbiamo perso una capra ma abbiamo guadagnato il voto del lupo. E adesso il lupo... è la maggioranza del 100 percento!
Il lupo è il più forte, tant'è vero che si dice “salvare capra e cavoli”, non si dice salvare “capra, cavoli e il lupo”... Non si dice perché il lupo si salva da sé, il lupo è il più forte. Per questo dico che sono io che ho scelto voi, non voi che avete scelto me. Sono io che ho scelto voi. E vi ho scelto perché siete i più forti, perché voi siete il lupo, perché siete carogne, perché so che se vedete una capra gli saltate addosso, io mi volto di spalle e faccio finta di niente. Se era più forte il cavolo, io facevo il partito del cavolo. Se era più forte la capra, votavo per la capra. Ma siete più forti voi, siete il lupo.
Adesso, adesso ancora c'è una specie di democrazia, c'è un'opposizione, una minoranza... C'è una capra e un cavolo, stanno dall'altra parte. Noi facciamo finta di niente, per un po' voltiamo le spalle, e quando la capra avrà mangiato il cavolo, a quel punto noi ci gireremo, salteremo addosso alla capra e ce la mangeremo. E a quel punto saremo la vera maggioranza, ovverosia il 100 percento! Quel giorno saremo veramente diventati tutti uguali. Anzi più che uguali, saremo tutti identici.
Quel giorno, vi giuro, vi alzerete dal letto, vi guarderete allo specchio e dentro lo specchio... vedrete me!!
Ascanio Celestini
Ho scelto me
69 Miradas Contra Polifemo
Mensaje del subcomandante insurgente Marcos con motivo de la inauguración de la exposición fotográfica "69 Miradas Contra Polifemo"
Buenos días, buenas tardes, buenas noches. Es un honor para mí compartir la mesa con las personas que, supongo, me han antecedido a la palabra. No digo los nombres por si ha habido algún cambio de última hora en el programa y resulta que no se miran quienes responden a esos nombres. Porque la mirada es importante.
Una forma de referirse al movimiento zapatista tiene qué ver con el mirar. En alguna ocasión hemos señalado que la dignidad se puede definir en relación al mirar al otro, al ser mirados por el otro, y al mirarnos a nosotros mismos.
El Poder, ése cíclope que ha globalizado la miseria y la desesperación, tiene un su modo de mirar. Él se mira como uno, único y eterno, y mira al otro con ese apetito antropófago que ha caracterizado al poderoso a lo largo de la historia y que ahora, en la época del neoliberalismo, ha alcanzado niveles bestiales nunca antes vistos. El Poder sólo admite una mirada si ésta es sumisa y le profesa admiración. Cualquier otra mirada es para él un desafío.
Al mirar, el Poder cataloga al otro y archiva esa mirada: acá tenemos al Poder mirando a la mujer y catalogándola como objeto de decoración, de satisfacción y de desprecio. Archívese entonces esa mirada, si es aceptada por la mujer, en el rubro de “mujeres de éxito”. Si, en cambio, la mujer se resiste a esa mirada, archívese en la sección de “pendientes por eliminar”. Y por “eliminar” no me refiero sólo a la eliminación física, también al mirar condenatorio, a la mirada de una sociedad que sigue dócilmente las indicaciones del Poder. Si, por ejemplo, una mujer reclama su derecho a decidir sobre su cuerpo, entonces es una disoluta, una criminal. Y en política el Poder es sospechosamente masculino, porque las mujeres que incursionan ahí tienen éxito si reproducen las pautas, los modos, las maneras y hasta el lenguaje de los políticos varones. Tómese, por ejemplo, la reunión de féminas del Poder que trivializó, por la alquimia de los medios de comunicación, la lucha femenina en el reciente aniversario del voto de la mujer. Lo menos que se puede decir es que lucían muy masculinas, es decir, impostadas.
Cuando el Poder mira a un joven, o a una “jovena” (para usar el término empleado por el Comandante Zebedeo), lo o la cataloga en la carpeta de “rebeldías momentáneas”, y deja que el reloj corra junto al arrepentimiento para que ambos, el tiempo y la contrición, hagan madurar al objeto mirado. Si el tiempo pasa y el joven o la”jovena” no sienten culpa alguna por la rebeldía que les ilumina la mirada propia, entonces el Poder archiva su mirar en el cajón de “delincuente en potencia”. Para el Poder, la juventud, y la rebeldía que suele acompañarla, son tolerables si prescinden de la conciencia. Que los jóvenes se “revienten” en los “antros”, vaya y pase; pero que luchen por educación, trabajo, cultura, o que abracen alguna causa, eso sí nomás no.
Para los indígenas el Poder no tenía programada una mirada. En el mundo que su ojo único imaginaba, esos seres extraños del color de la tierra nomás no aparecían. Ergo, no eran mirados, tal y como no se miran a los muertos. Si, entre otras cosas, el alzamiento zapatista de hace diez años los hace visibles no deja de ser una molestia. Desconcertado, Polifemo recurre entonces a su archivo de “miradas del pasado” y descubre en él las miradas de curiosidad turística o antropológica, de lástima (que es una de las formas elegantes del desprecio) y de objeto de chistes y limosnas. Quiero decir que las únicas imágenes que tenía en su archivo eran las de Pedro Infante en “Tizoc” y las de la India María. Fuera de eso, había imágenes de artesanías pero no de quien las producía. Al mirar a los indígenas ahora, Polifemo se desconcierta y archiva esas miradas en el cajón de “¿What?” o en la “I” de “Incógnitas”, “Incomprensibles”, “Irreverentes”. Sí, porque la mirada del Poder es una especie de religión y quienes faltan a ella son unos irreverentes.
Estamos aquí para presentar una exposición fotográfica. En ella se presentan una serie de fotografías que se refieren al período que va del primero de enero de 1994 al 10 de agosto del 2003, es decir, 10 años. La década referida ha contenido muchas cosas, una de ellas es el alzamiento zapatista protagonizado fundamentalmente por indígenas, en las montañas del sureste mexicano. Con miles de pueblos indios en su eje articulador, el zapatismo ha hecho uso, en estos diez años, del fuego y de la palabra.
Una foto es una mirada. No sólo una mirada, pero también una mirada. Es, sobre todo, una mirada que se muestra, que dice “esto miro”. Pero también dice “esto miro de esta manera”.
Mirar al zapatismo de los últimos diez años es mirar el fuego y mirar la palabra. Y las fotos sobre el zapatismo actual (o “neozapatismo”) son miradas al fuego y a la palabra.
En esta exposición, 68 fotógrafos han sido generosos y nos comparten sus miradas a los zapatistas en estos diez años. No sólo. También han colaborado económicamente para que esta exposición sea posible. Digo sus nombres, pero en realidad estoy nombrando sus miradas:
Adrián Mealand, Alberto Contreras, Alejandro Meléndez, Alfredo Estrella, Ángeles Torrejón, Antonio Turok, Araceli Herrera, Arturo Fuentes, Arturo Talavera, Carlos Cisneros, Carlos Ramos Mamahua, Cecilia Candelaria, Claudio Cruz, Cristina Rodríguez, Eduardo Verdugo, Elsa Medina, Emiliano Thibaut, Eniac Martínez, Erik Mesa, Ernesto Ramírez, Fabrizio León, Félix Cúneo, Fernando Castillo, Fernando Luna, Fernando Villa del Ángel, Francisco Mata, Francisco Olvera, Fred Jacquemont, Frida Hartz, Georges Bartoli, Gildardo Magaña, Guiomar Rovira, Heriberto Rodríguez, Javier García, Jesús Ramírez, Jesús Villaseca, Jorge Claro, José Ángel Rodríguez, José Carlo González, José Nuñez, Juan Ramón Martínez León, Julio Candelaria, Leonor Solís, Lourdes Grobet, Luis Cortés, Luis Jorge Gallegos, Marco Antonio Cruz, Marco Peláez, Marco Ugarte, María Melendrez, Omar Meneses, Oriana Elicabe, Pascual Gorriz, Patricia Aridjis, Paulo Vidales, Pedro Valtierra, Rafael Seguí i Serres, Raúl Ortega, Ricardo Deneke, Rosaura Pozos, Simona Grannati, Tim Russo, Victor Flores Olea, Victor Mendiola, Xóchitl Zepeda, Yazmín Ortega Cortés, Yolanda Andrade y Yuriria Pantoja Millán.
Ojalá y no se me haya escapado algún nombre, es decir, alguna mirada. Y ojalá todos hayan colaborado económicamente, porque si no pues todos los van a “mirar”, pero al modo de las comunidades zapatistas.
Fuera de la inmediatez de los medios de comunicación, del impacto noticioso, del dramatismo del fuego y la palabra, estas 68 miradas se declaran irreverentes y desafían la mirada única del Polifemo del Poder.
No miran al indígena menesteroso que tanto añoran Martha Sahagún y Xóchitl Gálvez. Tampoco al indio politeísta que aterra a Abascal y sus Legionarios. Ni al precolonial sacrificador con un corazón sangrante en una mano y el pedernal en la otra, la imagen preferida de Aznar y sus anexos de letras agonizantes. No miran al indio dócil y domesticado sirviente que prefieren Creel y Fernández de Cevallos.
Son miradas honestas. No esconden que miran desde fuera y que, junto a la lente de su cámara, descubren algo que estaba ahí y que, sin embargo, no era mirado. O, más bien, que no quería ser mirado.
Sin el frenesí de los acontecimientos, estos fotógrafos y fotógrafas nos dicen, con su ahora serena mirada, “mira lo que yo miré”.
Pero no nos contentemos con mirar lo que miran. Miremos también su mirar, porque ahí está una de las claves para entender estos diez años del neozapatismo. Miremos su mirar y descubramos que tiene mucho de irreverente desafío. Su mirada es distinta a la del Polifemo del Poder y es, así, una cuarteadura en el código visual que se impone y que establece que el indio debe verse siempre de arriba hacia abajo, y debe estar o sumiso o muerto.
Una foto es una mirada. Y una mirada es una manera de iluminar algo. Como sol, la lente de estos fotógrafos ilumina diversos momentos del zapatismo. No agotan, ni pretenden agotar, la totalidad de lo mirado. Son honestos y declaran con su mirada que sólo miran una parte de lo mirado. Pero ahí está su principal virtud, porque así puede uno interrogar su mirada y preguntarse sobre lo que no es mirado. Con las respuestas se va completando el rompecabezas de miradas que el neozapatismo reclama desde aquella fría madrugada del inicio del año de 1994.
He dicho que una foto es una mirada. Pero también es una forma de mirar. Y una forma de mirar es una forma de preguntar. Con sus fotos, es decir, con sus miradas, estos fotógrafos y fotógrafas preguntan, por ejemplo, ¿quiénes son?, ¿por qué luchan?, y, sobre todo, ¿qué miran?
Y éstas son preguntas fundamentales.
He hablado de 68 fotógrafos y, sin embargo, la exposición habla de 69 miradas. Resulta que el Sup ha agregado una mirada más, sin más intención que conseguir que la suma diera 69, número universal y generoso como el mundo que queremos para todos.
En concreto, esta exposición fotográfica se llama “69 miradas contra Polifemo”. En la carta que les dirigimos los zapatistas a cada uno de ellos y ellas, para agradecerles su participación, escribimos:
"El cíclope del Poder, el Polifemo neoliberal, nos impone la mirada de su único ojo. No sólo para que nos veamos como él nos ve, también para que lo veamos como él quiere que lo veamos. Y sobre todo, nos impone la mirada para ver al otro. 68 fotógrafos y un anti fotógrafo (o sea yo) se rebelan contra la imagen que Polifemo impone sobre los indígenas zapatistas y, generosos, nos ofrecen otros ojos, los suyos, para mirar, para mirar su mirada, y para mirar su ser mirados por estos indígenas rebeldes que se hacen llamar “nadie” con la malicia de quien sabe que el mañana incluye muchas y distintas miradas."
La mirada agregada por el autodenominado “anti fotógrafo” se llama “Las Cuatro Jinetas del Apocalipsis” y es una foto de cuatro niñas. Sus nombres son, de izquierda a derecha, la Chelo, la Maricela, la Grabiela (y no “Gabriella”) y la Chagüa. La foto debe ser de por ahí de 1996, así que debían andar las cuatro en los 8 años en promedio. Ellas viven en La Realidad y en la realidad, es decir, en el poblado de La Realidad y en la realidad zapatista.
Juntas eran entonces una especie de terremoto cuyo epicentro se movía por todo el pueblo. La Chagüa era respetada incluso por los niños varones de más edad. Claro que algo tenía que ver su habilidad con la tiradora. La Chelo suspiraba y provocaba tormentas con el aletear de sus pestañas. La Maricela era como la intelectual de la banda porque ya iba a la escuela, y la Grabiela era veloz como ninguna, sobre todo a la hora de huir. Hasta el Olivio y el Marcelo se hacían a un lado cuando en el horizonte aparecían las cuatro.
La última vez que estuve en La Realidad, encabecé a un grupo de niños en el asalto a la tienda “La Naná”, en el extinto “Aguascalientes”. El plan era sencillo: se trataba de distraer al encargado de la tienda con un pedido imposible de satisfacer, es decir, alguien debía preguntar si tenían galletas pancrema y, puesto que no había (porque yo había decomisado todas), debía trincarse en que quería las pancrema y hacer una chilladera. Con el encargado aturdido, el resto debíamos introducirnos subrepticiamente a la tienda y sacar todas las bolsas de “Totis” (que son una especie de fritura de harina y es lo único que tenían en abundancia).
El Ismita debía pedir las pancrema, apoyado por el Olivio y el Marcelo, quienes se encargarían de pellizcarlo para que la chilladera fuera más real. El resto de la columna estaba formado por la Chagüa, la Chelo, la Grabiela, la Maricela, la Yeniper. Por supuesto que a la hora de la verdad los varones se quedaron a distancia prudente, esperando el desarrollo de los acontecimientos, y sólo las hembras se mantuvieron firmes y en la primera línea de combate. Tuvimos que entrar usando el tráfico de influencias, o sea que yo charolée con las tres estrellas de subcomandante, y no corrimos con mucha suerte porque todos los “totis” estaban aguados.
Contra lo que se pueda pensar, las niñas no se empacaron lo que habían “recuperado” de la tienda. No, fueron a donde estaban los niños varones y les dieron a cada uno lo que les tocaba. Después fueron a sus casas para compartir lo que tenían con sus familias.
Yo sólo saque una cajita de cerillos, así que encendí la pipa, monté en el caballo y me fui silbando la canción del Piporro llamada “El Tragabalas”.
¿En qué me quedé?
¡Ah sí! Antes he dicho que una foto es una serie de preguntas, y que una foto de los zapatistas pregunta “¿quiénes son?”, “¿por qué luchan?” y “¿qué miran?”. Bueno, pues las respuestas a esas preguntas están en esa foto.
Si una foto es una mirada y una mirada ilumina a quien es mirado y a quien mira, agradezcamos al sol que sobre los zapatistas han puesto estos 68 fotógrafos.
A Polifemo y a su ojo único démosle un sentido pésame, porque su mirar excluyente ha sido derrotado, aunque sea por el breve instante del abrir y cerrar del obturador.
Y al Sup no le agradezcamos nada, porque sólo se puso en la exposición para hacer rabiar a los fotógrafos y para decir sus albures groseros sobre el número 69.
Vale. Salud y que todas miradas iluminen el mañana.
Desde las montañas del Sureste Mexicano.
Subcomandante Insurgente Marcos
Buon giorno, buona sera, buona notte. È un onore per me condividere il tavolo con le persone che, suppongo, mi hanno preceduto nella parola. Non faccio nomi per il caso ci fosse stato qualche cambiamento dell'ultima ora nel programma e a causa del posto vacante non si possano guardare quanti rispondono a quei nomi. Perché lo sguardo è importante.
Un modo di riferirsi al movimento zapatista ha qualcosa a che vedere col guardare. In alcune occasioni abbiamo segnalato che la dignità si può definire in relazione al guardare l'altro, all'essere guardati dall'altro ed al guardarci noi stessi.
Il Potere, questo ciclope che ha globalizzato la miseria e la disperazione, ha un suo modo di guardare. Egli si guarda come uno, unico ed eterno, e guarda all'altro con quell'appetito antropofago che ha caratterizzato il poderoso durante la storia e che ora, nell'epoca del neoliberalismo, ha raggiunto livelli bestiali mai visti prima. Il Potere ammette un solo sguardo, se questo si mostra sottomesso e gli professa ammirazione. Qualunque altro sguardo è per lui una sfida.
Guardando, il Potere cataloga l'altro ed archivia quello sguardo: qua abbiamo il Potere che guardando la donna la cataloga come oggetto di arredamento, di soddisfazione e di disprezzo. Si archivi allora quello sguardo, se è accettato dalla donna, sotto il titolo di "donne in carriera". Se, invece, la donna resiste a quello sguardo, la si archivi nella sezione di "pendenze da eliminare". E per "eliminare" non mi riferisco solo all'eliminazione fisica, bensì allo sguardo di condanna, allo sguardo di una società che segue docilmente le indicazioni del Potere. Se, per esempio, una donna reclama il suo diritto a decidere del proprio corpo, allora è una dissoluta, una criminale. Ed in politica il Potere è sospettosamente maschile, perché lì le donne che compiono incursioni hanno successo se riproducono i modelli, i modi, le maniere e perfino il linguaggio dei politici maschi. Si prenda, per esempio, la riunione di donne di Potere che traviò, attraverso l'alchimia dei mezzi di comunicazione, la lotta femminile nel recente anniversario del voto alle donne. Il meno che si può dire è che risplendevano molto maschili, cioè, impostate.
Quando il Potere guarda un giovane, o ad una "giovana" (per utilizzare il termine usato dal Comandante Zebedeo) lo o la cataloga nella cartelletta di "disubbidienze momentanee", e lascia che l'orologio corra vicino al pentimento affinché ambedue, il tempo e la contrizione, facciano maturare l'oggetto guardato. Se il tempo passa ed il giovane o la "giovana" non sentono colpa alcuna per la disubbidienza che illumina il proprio sguardo, allora il Potere archivia il loro guardare nel cassetto di "delinquente in potenza". Per il Potere, la gioventù, e la disubbidienza che normalmente l'accompagna, sono tollerabili se prescindono dalla coscienza. Che i giovani "esplodano" nelle "discoteche", vada e passi; ma che lottino per educazione, lavoro, cultura, o che abbraccino qualche causa, quello sì non sia mai.
Per gli indigeni il Potere non aveva programmato un sguardo. Nel mondo che il suo occhio unico immaginava, quegli esseri strani del colore della terra giammai non apparivano. Ergo, non erano guardati, tal quale come non si guardano i morti. Se, tra le altre cose, l'innalzamento zapatista di dieci anni fa li rende visibili non per questo smettono di essere un disturbo. Sconcertato, Polifemo ricorre allora al suo archivio di "sguardi" del passato e scopre in esso gli sguardi di curiosità turistica o antropologica, di pena (che è una delle forme eleganti del disprezzo), e di oggetto di barzellette ed elemosine. Voglio dire che le uniche immagini che aveva nel suo archivio erano quelle di Pedro Infante in "Tizoc" e quelle dell'India María. Al di fuori di questo, c'erano immagini di prodotti artigianali ma non di chi li produceva. Guardando ora gli indigeni, Polifemo si altera ed archivia quegli sguardi nel cassetto di "What?" o della "I" di "Incognite", "Incomprensibili", "Irriverenti". Sì, perché lo sguardo del Potere è una specie di religione e quanti non ne fanno parte sono una specie di irriverenti.
Stiamo qui per presentare un'esposizione fotografica. In essa si espongono una serie di fotografie che si riferiscono al periodo che va del primo gennaio del 1994 al 10 agosto del 2003, cioè, 10 anni. Il decennio cui si fa riferimento ha contenuto molte cose, una di esse è l'innalzamento zapatista capeggiato fondamentalmente dagli indigeni, nelle montagne del sudest messicano. Con migliaia di popoli indios nel suo cardine organizzativo, lo zapatismo ha fatto uso, in questi dieci anni, del fuoco e della parola.
Una foto è un sguardo. Non solo uno sguardo, ma anche un sguardo. È, soprattutto, uno sguardo che si mostra, che dice "guardo questo". Ma dice anche "guardo questo in questa maniera".
Guardare allo zapatismo degli ultimi dieci anni è guardare il fuoco e guardare la parola. E le foto sulla zapatismo attuale (o "neozapatismo") sono sguardi al fuoco e alla parola.
In questa esposizione, 68 fotografi sono stati generosi e condividono con noi i loro sguardi sugli zapatistas in questi dieci anni. Non solo. Hanno collaborato anche economicamente affinché questa esposizione fosse possibile. Dico i loro nomi, ma in realtà sto nominando i loro sguardi:
Adrián Mealand, Alberto Contreras, Alejandro Meléndez, Alfredo Estrella, Ángeles Torrejón, Antonio Turok, Araceli Herrera, Arturo Fuentes, Arturo Talavera, Carlos Cisneros, Carlos Ramos Mamahua, Cecilia Candelaria, Claudio Cruz, Cristina Rodríguez, Eduardo Verdugo, Elsa Medina, Emiliano Thibaut, Eniac Martínez, Erik Mesa, Ernesto Ramírez, Fabrizio León, Félix Cúneo, Fernando Castillo, Fernando Luna, Fernando Villa del Ángel, Francisco Mata, Francisco Olvera, Fred Jacquemont, Frida Hartz, Georges Bartoli, Gildardo Magaña, Guiomar Rovira, Heriberto Rodríguez, Javier García, Jesús Ramírez, Jesús Villaseca, Jorge Claro, José Ángel Rodríguez, José Carlo González, José Nuñez, Juan Ramón Martínez León, Julio Candelaria, Leonor Solís, Lourdes Grobet, Luis Cortés, Luis Jorge Gallegos, Marco Antonio Cruz, Marco Peláez, Marco Ugarte, María Melendrez, Omar Meneses, Oriana Elicabe, Pascual Gorriz, Patricia Aridjis, Paulo Vidales, Pedro Valtierra, Rafael Seguí i Serres, Raúl Ortega, Ricardo Deneke, Rosaura Pozos, Simona Grannati, Tim Russo, Victor Flores Olea, Victor Mendiola, Xóchitl Zepeda, Yazmín Ortega Cortés, Yolanda Andrade e Yuriria Pantoja Millán.
Caspita, speriamo che non mi sia fuggito qualche nome, cioè qualche sguardo. E speriamo che tutti abbiano collaborato economicamente, perché altrimenti tutti li "guarderanno", ma al modo delle comunità zapatiste.
Fuori dall'immediatezza dei mezzi di comunicazione, dall'impatto dell'informazione, dalla drammaticità del fuoco e della parola, questi 68 sguardi si dichiarano irriverenti e sfidano lo sguardo unico del Polifemo del Potere.
Non guardano l'indigeno bisognoso di cui tanto sente la mancanza Martha Sahagún e Xóchitl Gálvez. Neanche l'indio politeistico che atterrisce Abascal ed i suoi Legionari. Né il precolombiano sacrificatore con un cuore sanguinante in una mano e la selce nell'altra, l'immagine preferita di Aznar e le sue appendici di lettere agonizzanti. Non guardano l'indio docile e servile domestico che preferiscono Creel e Fernández de Cevallos.
Sono sguardi onesti. Non nascondono che guardano dal di fuori e che, attraverso la lente della loro fotocamera, scoprono qualcosa che stava lì e che, tuttavia, non era guardato. O, piuttosto, che non voleva essere guardato.
Senza la frenesia degli avvenimenti, questi fotografi e fotografe ci dicono, col loro sguardo ora sereno, "guarda quello che io ho guardato".
Ma non ci accontentiamo di guardare quello che guardano. Guardiamo anche il loro guardare, perché lì sta una delle chiavi per capire questi dieci anni del neozapatismo. Guardiamo il loro guardare e scopriamo che ha molto della sfida irriverente. Il loro sguardo è diverso da quello del Polifemo del Potere ed è, così, una incrinatura nel codice visuale che si vuole imporre e che stabilisce che l'indio deve vedersi sempre dall'alto verso il basso, e deve stare o sottomesso o morto.
Una foto è un sguardo. E un sguardo è una maniera di illuminare qualcosa. Come il sole, la lente di questi fotografi illumina diversi momenti dello zapatismo. Non esauriscono, né pretendono di esaurire, la totalità di quanto guardato. Sono onesti e dichiarano col loro sguardo che guardano solo una parte di quanto guardato. Ma lì sta la loro principale virtù, perché così uno può interrogare il proprio sguardo e domandarsi su quello che non è guardato. Con le risposte si va completando il puzzle di sguardi che il neozapatismo reclama da quella fredda alba dell'inizio dell'anno 1994.
Ho detto che una foto è un sguardo. Ma è anche un modo di guardare. Ed un modo di guardare è un modo di domandare. Con le loro foto, cioè coi loro sguardi, questi fotografi e fotografe domandano, per esempio, chi sono?, perché lottano?, e, soprattutto, che cosa guardano?
E queste sono domande fondamentali.
Ho parlato di 68 fotografi e, tuttavia, l'esposizione parla di 69 sguardi. Si dà il caso che il Sup abbia aggiunto uno sguardo in più, senza altro motivo che fare in modo che la somma desse 69, numero universale e generoso come il mondo che vogliamo per tutti.
Difatti, questa esposizione fotografica si chiama "69 sguardi contro Polifemo". Nella lettera che indirizziamo, noi zapatistas, ad ognuno di essi ed esse per ringraziarli della loro partecipazione, scriviamo:
"Il ciclope del Potere, il Polifemo neoliberale, ci impone lo sguardo del suo unico occhio. Non solo affinché ci vediamo come egli ci vede, ma anche affinché lo vediamo come egli vuole che lo vediamo. E soprattutto, ci impone lo sguardo per vedere l'altro. Sessantotto fotografi ed un antifotografo, cioè io, si ribellano contro l'immagine che Polifemo impone sugli indigeni zapatisti e, generosi, ci offrono altri occhi, i loro, per guardare, per guardare il loro sguardo, e per guardare il loro essere guardati da questi indigeni ribelli che si fanno chiamare "nessuno", con la malizia di chi sa che il domani include molte e distinti sguardi."
Lo sguardo aggiunto dall'autodenominato "antifotografo" si chiama "Las Cuatro Jinetas del Apocalipsis" ed è una foto di quattro bambine. I loro nomi sono, da sinistra a destra, la Chelo, la Maricela, la Grabiela (e non "Gabriella") e la Chagüa. La foto deve essere del 1996 o giù di lì, cosicché le quattro in media dovevano avere intorno agli 8 anni. Esse vivono a La Realidad e nella realtà, cioè, nel villaggio di La Realidad e nella realtà zapatista.
Insieme erano allora una specie di terremoto il cui epicentro si muoveva per tutto il paese. La Chagüa era rispettata perfino dai bambini maschi più grandi. Indubbiamente doveva averci qualcosa a che vedere la sua abilità con la fionda. La Chelo sospirava e provocava temporali con l'aleggiare delle sue ciglia. La Maricela era come l'intellettuale della banda perché andava già a scuola, e la Grabiela era veloce come nessuna, soprattutto nel momento di fuggire. Perfino l'Olivio ed il Marcelo si facevano da parte quando all'orizzonte apparivano le quattro.
L'ultima volta che sono stato a La Realidad, hanno capeggiato un gruppo di bambini nell'assalto al negozio "La Naná", nell'estinta "Aguascalientes". Il piano era semplice: si trattava di distrarre il commesso del negozio con una domanda impossibile da soddisfare, cioè qualcuno doveva domandare se avevano biscotti pancrema e, dato che non ce n'erano (perché io li avevo requisiti tutti) dovevano impuntarsi nel volere i pancrema e fare una piazzata. Col commesso stordito, il resto della banda doveva introdursi surrettiziamente nel negozio e sgraffignare tutti i sacchetti di "Totis", che sono una specie di frittura di farina ed è l'unica cosa che avevano in abbondanza.
L'Ismita doveva chiedere le pancrema, appoggiata dall'Olivio e dal Marcelo che s'erano incaricati di pizzicarla affinché la lagna fosse più reale. Il resto della colonna era formato dalla Chagüa, la Chelo, la Grabiela, la Maricela, la Yeniper. Ovviamente nell'ora della verità gli uomini rimasero a prudente distanza, aspettando lo sviluppo degli avvenimenti, e solo le femmine si mantennero ferme nel proposito e in prima linea di combattimento. Dovemmo intervenire facendo ricorso a tutta la nostra influenza, cioè io giganteggiai con le tre stelle di subcomandante, ma non accorremmo con molta fortuna perché tutti i "totis" erano annacquati.
Contrariamente a quello che si possa pensare, le bambine non si ingollarono quello che avevano "recuperato" dal negozio. No, andarono dove stavano i bambini maschi e diedero ad ognuno quello che toccava loro. Poi andarono alle loro case per condividere quello che avevano con le proprie famiglie.
Io sgraffignai solo una scatolina di cerini, cosicché accesi la pipa, montai a cavallo e ristetti fischiettando la canzone del Piporro dal titolo "El Tragabalas".
Dove ero rimasto?
Ah sì! Prima ho detto che una foto è una serie di domande, e che una foto degli zapatisti domanda "chi sono?", "perché lottano?" "che cosa guardano?". Bene, perché le risposte a quelle domande stanno in quella foto.
Se una foto è uno sguardo e uno sguardo illumina chi è guardato e chi guarda, ringraziamo il sole che sopra gli zapatisti hanno messo questi 68 fotografi.
A Polifemo ed al suo unico occhio, diamo le più sentite condoglianze, perché il suo guardare escludente è stato sconfitto, sia pure per il breve istante dell'aprirsi e chiudersi dell'otturatore.
E al Sup non porgiamo alcun ringraziamento, perché s'è infilato nell'esposizione solo per far arrabbiare i fotografi e per fare i suoi oracoli grossolani sul numero 69.
Vale. Salute e che tutti gli sguardi illuminino il domani.
Dalle montagne del Sudest Messicano
Subcomandante Insurgente Marcos
Las ropas nuevas de los conquistadores
"Todos y cada uno de nosotros paga puntualmente su cuota de sacrificio, conscientes de recibir el premio en la satisfacción del deber cumplido, conscientes de avanzar con todos hacia el hombre nuevo que se vislumbra en el horizonte."
El socialismo y el hombre nuevo en Cuba. Marzo 1965
¿Cuántas veces se ha tratado de matar a este hombre que sintetiza, más que una persona, un ideal? ¿Cuántas veces se ha tratado de poner la figura del Che Guevara y lo que representa en el fugaz escaparate de las modas que visten para la ocasión y no desvisten la mediocridad?
Cada año, durante 40, en ofensivas mediáticas y reflexiones de arrepentidos, conversos y “objetivos” analistas a “toro pasado”, se ha reeditado la emboscada de la Quebrada del Yuro, en Bolivia, para tratar de convencer al mundo que abajo y a la izquierda se empecina en luchar por su liberación, la muerte de la terca rebeldía que lleva el nombre de Che Guevara.
¿Y cuántas veces se ha tratado de conquistar a los pueblos originarios de este continente, que pudiera llamarse “Guevariano” y no “Americano”?
Pueblos que siguen alardeando su ignorancia para conjugar la resistencia y la lucha por un mundo mejor con el “yo, mi, me, conmigo” y, en cambio, se precian de reiterar ese “nosotros” tan pasado de moda, sobre todo a la hora de los compromisos.
Cada año, durante 515, en declaraciones de funcionarios, supuestos historiadores que apenas alcanzan con torpeza a hilvanar justificaciones para la historia de arriba, y “objetivos” analistas de una “modernidad” prematura, se reedita el descubrimiento y conquista de estos suelos, para así tratar de convencernos de que lo que no fue sino despojo y destrucción, se trató de la “civilización” de culturas que, en realidad, dan “una y las cuatro” a aquellas que ahora se pretenden el modelo para toda la humanidad.
¿Y cuántas veces no se ha tratado de acomodar, en el cómodo estante de la moda, el acercamiento a quienes son el color que son de la tierra?
Claro, siempre y cuando no se olvide que las modas son pasajeras y, como tales, dependen de los calendarios de arriba.
Después de 1994, “vestía” bien el acompañar la lucha indígena, pero no hay moda que aguante más de 10 años y, en este caso, el objeto de estudio, análisis, reflexión, limosna y misericordia es terco, rebelde, desobediente.
Y cuando la moda cambió y se decretó que la política de arriba era lo urgente e importante, todo lo que no entrara en ese calendario se convirtió en anacrónico, reprobable y despreciable.
Una leyenda que se pierde en los rincones que abundan en el latido moreno de las tierras de este continente, cuenta que los dioses plantaron acá el mañana; que el mundo estaba cabal y no había Mandón ni mandado; que el sol despertaba y descansaba en las montañas que bordan las orillas de la casa grande de los hombres y mujeres de maíz; que la noche era el tiempo para el brillo de la otra luz que nacía de las pieles que, encontrándose, parían mundos enteros en todos los rincones; que la madrugada era el espacio para guardar las maravillas que ahora son manchadas con la palabra “imposible”; que entonces las sombras estaban sembradas así nomás, vestidas en veces de árbol, piedra, nube, palabra, esperando la luz que les diera vida y paso.
Y cuentan que fue dada la riqueza hecha tierra, agua, aire, vida, y que fueron dados también los Guardianes para que para todos y todas fuera, para que no muriera.
Cuentan también que, después de invadidas y conquistadas estas tierras por el dinero hecho dios y ejército, cuando el europeo Américo Vespucio dibujó el mapa del continente que llevaría su nombre, estaba pensando no en la cartografía de un mundo nuevo, sino en el mapa de un tesoro.
Y sobre el tesoro se arrojó la jauría con ropas de sotana y armadura. Se destruyó y se saqueó. La tierra, la Madre, adolorida, ordenó a sus Guardianes la resistencia y el paciente alivio, que no la cura, de la cobija de la lengua, el vestido, el canto, el baile, la cultura.
En las naguas y las trenzas de las mujeres, en los dobleces de la piel de los más mayores, en el asombro de los niños, en la digna rebeldía de sus hombres y mujeres, fueron guardados los recuerdos, pero no de lo que fue, sino de lo que será.
Bajo estos cielos ondearon las banderas usurpadoras de las monarquías española, portuguesa, holandesa, británica, francesa, siempre la del dinero; y los saqueadores tenían cartas de gobiernos que, decían, se preocupaban por “civilizarnos”.
No deja de ser paradójico que algunas de esas naciones sigan, más de 500 años después, manteniendo a familias reales sin más mérito que un árbol genealógico cultivado con crímenes, intrigas y guerras; y que ellas se autodenominen “modernas” y “civilizadas”, mientras que los pueblos indios sean los “retrasados”.
En el reloj de abajo sonó después la hora de la lucha, y la sangre indígena corrió por los 7 puntos cardinales. Y se llamó independencia al cambio de ropa que el dinero hacía para seguir oprimiendo tierras y gente.
Llegó después al arriba de arriba el nuevo Emperador, el capital, y con él la nueva alquimia que todo lo convierte en mercancía.
Arriba se simulaba independencia y soberanía, pero la ropa del extranjero seguía vistiendo al Mandón. El calendario de abajo cumplió el ciclo y el centenario alumbró un nuevo alzamiento. La sangre morena se reiteró, generosa, y sobre ella y por ella cayó el tirano. El final se decretó hecho monumento y los pendientes fueron tantos que el alivio fue escaso y la cura nula.
La tierra, la Madre, brindó entonces su alimento de dignidad rebelde a otros colores y, como fragmentos de un espejo roto, la lucha tomó desde entonces la ropa del obrero, del campesino, del empleado, del otro amor, de la juventud, de la mujer, de la sabiduría que no se vende por comodidad o moda.
La resistencia floreció, florece.
Pero la historia de arriba vuelve a ofrecernos, como salida, la mentira que ni cura ni alivia… 100, 200 años después.
El Emperador ha crecido y ha crecido su ambición y poder de destrucción. Si antes el tesoro era de oro, plata, metales y piedras preciosas, ahora es de agua, aire, bosques, animales, conocimientos, personas.
Y si antes el ropaje de sus oficiales de conquista era la sotana y la armadura, y después la afrancesada levita de “científicos” y militares porfiristas; ahora es la chaqueta de múltiples vistas de los partidos políticos.
El Emperador, el capital, llegado a su edad neoliberal y globalizada, ha conseguido llevar su lógica mercantil a los rincones más apartados de la naturaleza. Hoy es mercancía lo que antes no tenía más valor que el de uso del común de la gente.
Pero en el nuevo saqueo, el Emperador ha encontrado el mismo obstáculo que topó su padre-madre: la rebeldía de los pueblos indios.
Destruido el campo y quien lo trabaja, desmanteladas las conquistas de los trabajadores y trabajadoras de la ciudad, obtenida la bendición de cardenales y obispos antiguos y modernos (es decir, los medios de comunicación masiva), comprados con unas cuantas monedas los principios de partidos políticos y organizaciones sociales; el Emperador redescubre ahora que los Guardianes son molestia y oposición real.
Cuando el Emperador manda y ordena, el político se apresura en su servidumbre. Un ejército de autoridades y funcionarios gubernamentales, respaldados por un ejército y una policía con métodos de guardia hacendaria, encabezan el pillaje de los últimos vestigios de Nación, soberanía e independencia que existen en nuestros suelos.
En México esta guerra de conquista es sólo nueva en sus formas legales y mediáticas, y en los ridículos colores de los vestidos de los gobernantes: el verde, blanco y rojo; el azul y blanco, el amarillo y negro, el rosa, el rojo y amarillo, el verde macilento, más los que se sumen al catálogo de pinturas en la próxima temporada publicitaria, es decir, en las próximas elecciones.
Para la reconquista de México, ahora con el objetivo de sus riquezas naturales, el Emperador envió entonces a uno de sus pupilos dilectos, preparado en sus campos de entrenamiento, perdón, en sus universidades privadas: Carlos Salinas de Gortari quien, mediante un fraude electoral, pudo conquistar una cabeza de playa, el gobierno federal, y, desde ahí y mediante la coartada del liberalismo social, la compra de conciencias, la derrota de ánimos y la eliminación de quienes se le resistían, impuso, a sangre y fuego, las condiciones para liquidación de la Nación mexicana a precios de paraestatal, perdón, a precio de baratillo.
La mitología capitalista encontró entonces, con la complicidad de criminales e ilustrados, un ejemplo a seguir: Carlos Slim Heliú. El viejo cuento de la riqueza conseguida con trabajo y sacrificio, ocultó y oculta la corrupción y el despojo con tarjeta prepago.
En un texto escrito en vísperas de continuar sus andanzas rebeldes, “El Socialismo y el Hombre Nuevo en Cuba” (Semanario “Marcha”, Marzo de 1965), Ernesto el Che Guevara señaló: “Las leyes del capitalismo, invisibles para el común de la gente y ciegas, actúan sobre el individuo sin que éste se percate. Sólo se ve la amplitud de un horizonte que aparece infinito. Así lo presenta la propaganda capitalista que pretende extraer del caso Rockefeller –verídico o no- una lección sobre las posibilidades de éxito. La miseria que es necesario acumular para que surja un ejemplo así y la suma de ruindades que conlleva una fortuna de esa magnitud, no aparecen en el cuadro y no siempre es posible a las fuerzas populares aclarar estos conceptos”.
Ponga usted “Carlos Slim Heliú” en lugar de “Rockefeller” y verá que la historia de arriba, cansada de andar, se repite.
Pero tal vez algunas cosas, además de los ropajes, han cambiado. Si en todo el mundo los “oficiales” de la neoconquista del planeta son los gobiernos nacionales y su tropa está formada por funcionarios de todo tipo y rango, el papel de bufones de la corte del Emperador está muy disputado por los partidos políticos... y no sólo en tiempos electorales, pero siempre referido a ellos.
Y abundan las anécdotas que son botones de muestra:
Por ejemplo, no se dice que, detrás de la supuesta independencia del legislativo respecto a los medios electrónicos, está el descontento de la clase política por no recibir ninguna paga por haber superado el “rating” de la barra cómica.
Y tampoco se nos quiere decir que la salida de Ugalde del IFE es un pleito pasional, y no una concesión obtenida gracias a la inteligente habilidad del FAP. No se va a decir, porque no es políticamente correcto señalar que en las recámaras de la clase política y en el actual gobierno federal abundan los closets. No se nos va a decir que la pasión que floreció y llegó a su clímax en la evidente complicidad del IFE en el fraude electoral que llevó al Poder a Felipe Calderón Hinojosa, ahora decayó y hay otros closets. O sea que, como luego se dice, a Ugalde “le dieron baje”.
Por cierto, ¿a poco no, cuando Felipe Calderón se pone su disfraz de milico, no se parece extraordinariamente al dictadorzuelo de esa excelente tira cómica que hace, o hacía, el caricaturista Palomo y se llama “El Cuarto Reich”? Perdón, iba también a comentar que, poniéndome a tono con esto de la conquista española, a poco no si le ponen bigote a Felipe Calderón se parece mucho a José María Aznar.
No lo voy a comentar porque he recordado que ésta es una mesa redonda tan seria y formal que ni siquiera puedo reiterar los chistes malos sobre el hecho de que es rectangular.
Si no fuera seria, podría decir algo sobre ese montón de escombros, lleno de mierda y sangre, que es el PRI y algunos de sus personajes más emblemáticos: Carlos Salinas de Gortari, Ernesto Zedillo Ponce de León, Ricardo Monreal, Arturo Nuñez, Juan Sabines.
Tampoco voy a hacer comentarios sarcásticos sobre el PRD, el presidente “legítimo”, su Convención Nacional Democrática, el flamante Frente Amplio Progresista y sus gobernadores y presidentes municipales “de izquierda”.
No voy a recordar que, en la CND celebrada hace un año, representando a los indígenas de México estaban los ex funcionarios de Vicente Fox, usando las siglas del Congreso Nacional Indígena -CNI- (aunque como “Convención Nacional Indígena”), como fue oportunamente señalado por Magda Gómez en su momento.
Voy, en cambio, a hacer un poco de memoria. Ésa que tan poco afecto tiene entre el lopezobradorismo ilustrado, tan propenso al olvido selectivo.
Hace poco más de 10 años corrían los tiempos de los diálogos de San Andrés entre el gobierno federal y el EZLN. Terminada la mesa I, sobre derechos y cultura indígenas, se inició la Mesa sobre Democracia y Justicia. La delegación gubernamental que Ernesto Zedillo Ponce de León envió a esos diálogos optó por la estrategia de “no los veo, no los oigo” (¿les suena?). Del lado del EZLN, encabezaban la delegación el Comandante Tacho, el Comandante David y el Comandante Zebedeo.
El EZLN había convidado, sea como invitados o como asesores, a un gran número personas comprometidas con la lucha en esos temas. Por ahora recuerdo que, del lado nuestro (y con “nuestro” no quiero decir “del EZLN”, sino de la lucha) estaban, entre otras y otros, personas que hoy nos critican y descalifican por nuestras posiciones.
En esos días fueron asesinados por el gobierno unos campesinos indígenas del municipio Nicolás Ruiz, Chiapas, donde existen grandes simpatías con el EZLN. Nuestros delegados reclamaron y exigieron. Los delegados del gobierno se trincaron en no hablar ni escuchar.
Entonces, me cuentan los comandantes y comandantas que asistieron, la creatividad de nuestros asesores e invitados los enfrentó por medio de la mímica, que incluía recordatorios adecuados a las respectivas progenitoras de los enviados de Zedillo.
La delegación gubernamental de entonces era famosa en los bares, cantinas y antros de San Cristóbal de las Casas, Chiapas. Además de por sus filias etílicas, los representantes del gobierno eran conocidos porque no sabían tomar y, a las primeras copas, sentían una necesidad imperante de que sus compañeros de parranda supieran de sus convicciones (cito textualmente una de ellas: “los zapatistas están apostando a que caiga el PRI y así dialogar con otro gobierno, pero están muy equivocados, el PRI nunca va a dejar el Poder”), así como presumir sus tácticas y estrategias. Entre éstas estaba la de que había que golpear a los zapatistas o a sus simpatizantes para obligarlos a dialogar y llegar a acuerdos. Así transcurrió todo esa parte del fallido diálogo. Cuando se rompe, en la Secretaría de Gobernación de Zedillo se reunieron los delegados, el secretario de gobernación y el subsecretario, y decidieron llevar hasta sus últimas consecuencias esa estrategia de “pega y dialoga”.
Entonces se sentaron las bases de la que, meses después, sería conocida en todo el mundo como “La Masacre de Acteal”.
Voy a recordar algunos nombres: el subsecretario de gobernación era Arturo Nuñez (hoy senador por el PRD), que después sería uno de los líderes visibles de la movilización en contra del fraude electoral del 2006 y ahora lo es del Frente Amplio Opositor.
El nombre de los delegados gubernamentales de entonces: Marco Antonio Bernal, Del Valle y Gustavo Iruegas. Si piensa que éste último es un homónimo del encargado de relaciones internacionales del gobierno “legítimo” de López Obrador, se equivoca: es el mismo.
Sí, del lado de la traición de febrero de 1995; del lado del desalojo y destrucción de las pocas pertenencias de los pobladores de Guadalupe Tepeyac y el Prado, en las montañas del Sureste Mexicano; del lado de los asesinos de los campesinos indígenas de Nicolás Ruiz, del lado de quienes en todo momento se empeñaron en tratar de humillar a los jefes zapatistas y se burlaron de su forma de hablar, de su tiempo, de su cultura, de su causa; de los autores intelectuales y materiales de la Matanza de Acteal, estuvo el ahora flamante funcionario del gobierno legítimo, que cuenta con el respaldo de la CND lopezobradorista.
Los comandantes Tacho, David y Zebedeo les pueden contar muchas historia que documentan el racismo del señor Iruegas.
No sabemos en qué momento personas como ésta cambiaron de posición, de convicción y de práctica.
Tal vez quienes hoy no sólo los siguen y respetan como sus gobernantes “legítimos”, sino que además nos exigen que hagamos lo mismo, so pena de ser criticados de “derechistas”, lo sepan.
Tal vez nos lo digan, tal vez nos den pruebas de que sí cambiaron y ya no son racistas, autoritarios y criminales.
Tal vez sólo bastó que dijeran que estaban de su lado y ya.
Tal vez eso y una ropa decente los convencieron.
A nosotros no.
Pero ocurre ahora que si nosotros lo advertimos, lo recordamos, lo decimos, nosotros somos los “salinistas”, los que le hacemos el juego a la derecha, los que debemos ser repudiados, calumniados, silenciados, perseguidos, despreciados.
No entendemos. Porque nosotros seguimos siendo los atacados, los desalojados, los amenazados, los asesinados, los encarcelados. Pero nos exigen que no lo digamos cuando se trata de alguno de sus nuevos dirigentes.
Cada que puede, Andrés Manuel López Obrador resalta como un gran logro de su movimiento el que “no hayan roto ni un solo vidrio”. Hace unos días, en un programa radial, le preguntaron sobre lo que dijimos en nuestro último comunicado de las agresiones que sufren nuestras comunidades. AMLO respondió, palabras más, palabras menos, que él acaba de recorrer todos los municipios de Chiapas y no había visto nada. No sabemos si el síndrome de Fox (que no leía los periódicos) afecta ya al presidente “legítimo”, pero, debo decirle que no es cierto que visitó todos los municipios chiapanecos, porque en nuestro estado hay más de 40 MAREZ en los que no estuvo.
Claro que se entiende que no lo sepa porque casi no sale en la prensa, gracias al cierre de espacios y a que el zapatismo es moda pasada.
También puede ser que cualquier señalamiento crítico y de memoria que lo cuestione sea, previa calificación de “derechista”, editado en sus reportes de prensa y en sus comparecencias públicas y mediáticas.
Lo entendemos. Después de todo se nos puede acusar, como lo escribiera -con el embrutecimiento que da el alcohol-, quien en algún momento estuvo de nuestro lado, de “salinistas”.
Pero disculpen ustedes que insista en recordar:
Cuando fueron las elecciones para gobernador en Chiapas, estaba en el Zócalo capitalino el plantón de protesta contra el fraude electoral y en él se encontraba AMLO. El candidato del PRD a la gubernatura era Juan Sabines, quien apenas unos meses antes era alcalde de Tuxtla Gutiérrez y del PRI por muchos años. Tal vez alguien recuerde que López Obrador abandonó el plantón para ir a apoyar la campaña de Sabines y que, obtenido el triunfo por un pequeño margen de votos, regresó al zócalo y, exultante, declaró que en Chiapas "se había detenido a la derecha". El lopezobradorismo, aún sabiendo que con Juan Sabines se reciclaba a lo peor del PRI, aquel que convirtió a Chiapas en una gran hacienda porfirista y que encontró en el “Croquetas” Albores Guillén su personaje más representativo, guardó silencio y aplaudió. No se dijo entonces que con Sabines regresaba al poder también la camarilla de los finqueros que, antes del alzamiento, hacían realidad cotidiana la obra de Bruno Traven llamada “La Rebelión de Los Colgados”.
No importaba que eso significara tomar partido a favor de la derecha chiapaneca, había que aplaudir y seguir al líder... para perder la memoria y guardar un silencio cómplice después.
Desde que iniciaron nuestras críticas al proyecto de AMLO, en los sectores progresistas hubo molestia primero, y calumnias después, porque no nos sumamos a la corte lopezobradorista (en la que ell@s, “sonríe, vamos a ganar”, decidirían el futuro de México). Nuestra posición fue puntual: AMLO y el PRD representaban no sólo la continuación del proyecto económico, político, social e ideológico, también la coartada perfecta: la bandera de la izquierda institucional en lo alto de la maquinaria de explotación represión, despojo y discriminación que es el capitalismo. La guerra contra los pueblos indios vestida con otras ropas.
¿Quiénes eran los indios zapatistas y su narigón vocero para arruinar la fiesta prematura de repartos de puestos, embajadas, consulados, asesorías, y pláticas de sobremesa con “los que mandan”?
Entonces dijeron y publicaron que estábamos al servicio de la derecha, se deslindaron del apoyo y simpatía que tenían por nuestro movimiento y, en algunos casos, consiguieron que se nos cerraran los pocos espacios públicos que había para nuestra palabra.
Tal vez es mejor buscar una palabra objetiva. Voy a citar un informe que el Centro de Derechos Humanos Fray Bartolomé de Las Casas, envió a las Juntas de Buen Gobierno a principios de septiembre de este año, sobre la situación de los desalojados por el gobierno derechista y panista de Felipe Calderón Hinojosa y el gobierno izquierdista y perredista de Juan Sabines:
“6 de septiembre 07.
Las personas desplazadas, ahora se encuentran en un lugar llamado Rancho Las Vegas, que anteriormente funcionaba como un bar-burdel, en las afueras del poblado de La Trinitaria, Chiapas. En ese lugar no hay energía eléctrica, no cuentan con agua potable ni drenaje. Además en esta época de lluvia entra el agua por el techo y por las puertas de ese lugar, las personas duermen sobre colchonetas de hule espuma a ras de piso. En cuestión de salud: hay 2 mujeres que se encuentran embarazadas, 1 persona que tiene varicela y 2 personas más que tienen infecciones cutáneas, el riesgo de infección es alto debido a la falta de agua potable.
En cuanto a la alimentación: esta ha sido proporcionada por el estado, sin embargo las mujeres desplazadas han indicado que solamente les dan arroz, lo cual no están acostumbrados a comer, es decir la alimentación proporcionada no está de acuerdo a su cultura ni a una buena alimentación. CARITAS de San Cristóbal les ha proporcionado frijoles y maíz, además de otros alimentos.
Hasta el momento las autoridades de gobierno, no han propuesto a estas personas un lugar digno en donde reubicarse, los desplazados han solicitado a los funcionarios de gobierno de Chiapas, ser trasladados al municipio de Ocosingo, en donde tienen familiares, sin embargo esto no se ha hecho, tampoco el estado les ha garantizado que ya en Ocosingo tendrán un lugar digno para vivir, así como la alimentación, ya que los desplazados en su mayoría son mujeres, ya que los hombres fueron detenidos.
Las comunidades de las que fueron desalojadas aun se encuentran custodiadas por los policías y el estado les ha dicho que no pueden regresar a ese lugar, pero no les ha dado otra propuesta de vivir en otro lugar, pareciera que la intención del estado es que esa gente se canse y se disperse, para ya no tener responsabilidad sobre ellas.
Las personas desplazadas se encuentran aun custodiadas por elementos de la Secretaría de Seguridad Pública del Estado y Policía Municipal de La Trinitaria, oficialmente no se encuentran detenidas, sin embargo estas no pueden salir, el estado ha insistido que no se encuentran detenidos pero en la práctica no pueden salir.
En cuanto a la comunicación con los desplazados ha sido posible gracias a la gestión de varias ONG´s, quienes han estado visitándolos constantemente para ver en qué condiciones se encuentran, ya que al principio los elementos policiacos no permiten la entrada.
A las 6 personas detenidas, el día 27 de agosto 07, se les dictó el auto de formal prisión por los delitos de daños y ecocidio.
En total son 33 personas desplazadas, 7 adultos (todas mujeres) y 26 menores (el más pequeño de 9 meses).
En cuanto a los detenidos, que se encuentran en el CERESO No. 14, El Amate, tenemos conocimiento que se encuentran en un lugar llamado Centro de Observación y Clasificación, también conocido como COC o “72 horas” y que como son los únicos indígenas que hay en este momento en ese lugar no les permiten usar los sanitarios.
Participaron en dicho operativo las dependencias oficiales siguientes:
Estatales: Agencia Estatal de Investigación. Fiscalía General de Justicia, Región Selva.Secretaría de Gobierno. Policía Estatal Preventiva.
Federales: Agencia Federal de Investigación. Procuraduría General de la República, Secretaría del Medio Ambiente. CISEN. Policía Federal Preventiva.
Los 6 detenidos fueron obligados a firmar un papel en el que piden perdón al Gobernador y le piden misericordia para que obtengan su libertad.”
No sé si, después de escuchar esto, también se va a acusar al Frayba de ser “salinista” y de “hacerle el juego a la derecha”.
Hace 40 años, el 8 de septiembre de 1967, acosado por el ejército y atacado por las izquierdas bien portadas del mundo, el Che escribió:
“Un diario de Budapest critica al Che Guevara, figura patética y, al parecer irresponsable y saluda la actitud marxista del Partido Chileno que toma actitudes prácticas frente a la práctica. Cómo me gustaría llegar al poder, nada más para desenmascarar cobardes y lacayos de toda ralea y refregarles en el hocico sus cochinadas.”
Hoy, 40 años después, en mi voz, las comunidades indígenas zapatistas rinden un humilde homenaje a quien fue catalogado, por quienes decían estar de su mismo lado, como “patético” e “irresponsable”.
De ellos no hay quien se acuerde con respeto, pero el Che sigue siendo inspiración en nuestro moreno andar.
Por lo demás, para nosotros, los zapatistas, las zapatistas, está claro: en el criminal calendario de arriba, el reloj de la historia pretende repetir la hora del crimen en contra de nuestras culturas originarias.
Corresponde a nuestros pueblos indios seguir en la lucha que otros abandonan por comodidad.
En lugar de paralizarnos por el silencio y la indiferencia con las que nos “castigan” por no seguirlos en su aventura donde están los mismos pero con ropa distinta, estamos empeñados en un doble esfuerzo: el vernos y escucharnos con los pueblos originarios de este continente; y el organizarnos con aquellas y aquellos que eligieron el lugar más incómodo para ser y luchar: el de abajo y a la izquierda.
En unos días, las culturas originarias de este continente se reunirán en el territorio de la tribu Yaqui, en Vicam, en Sonora, en México.
Como no se discutirán ahí candidaturas, alianzas electorales o lo que esté de moda en el calendario de arriba, se dirá que es intrascendente y no tendrá repercusiones (o sea cabezas en los noticieros).
Tal vez.
Pero nosotros sabemos que la tierra, la Madre, sabe que ahí es donde se sabrá si alguien luchará por darle el mañana que en su seno guarda, si alguien confeccionará la ropa que nadie habrá de portar cuando se enfrente al cíclope del Poder, si alguien labrará al fin el otro calendario en otra geografía, uno en el que todo sea renombrado de nuevo, y la luz y la sombra recuerden que ambos son la parte de verdad que toda leyenda guarda.
Muchas gracias.
Subcomandante Insurgente Marcos
Il socialismo e l'uomo nuovo in Cuba - marzo 1965
Quante volte hanno tentato di ammazzare quest'uomo che sintetizza, più che una persona, un ideale? Quante volte hanno tentato di relegare la figura del Che Guevara e ciò che rappresenta nella fugace vetrina delle mode che si vestono per l'occasione e non si svestono nella mediocrità?
Ogni anno, per 40 anni, in offensive mediatiche e riflessioni di penitenti, convertiti e "soggetti" d'analisi a "tutto spiano", si è rievocata l'imboscata della Quebrada del Yuro in Bolivia, per tentare di convincere il mondo, che in basso e a sinistra si ostina a lottare per la sua liberazione, della morte dell'ostinata ribellione che porta il nome di Che Guevara.
E quante volte si è cercato di conquistare i popoli originari di questo continente, che potrebbe chiamarsi "Guevariano" e non "Americano"?
Popoli che continuano ad ostentare la loro ignoranza nel non coniugare la resistenza e la lotta per un mondo migliore col "io, mi, me, con me" e, invece, si vantano di reiterare quel "noi" tanto passato di moda, soprattutto nell'ora degli impegni.
Ogni anno, durante 515 anni, in dichiarazioni di funzionari, di presunti storici che appena riescono goffamente ad imbastire giustificazioni per la storia dell'alto, e "obiettivi" analisti di una "modernità" prematura, si riedita la scoperta e la conquista di queste terre, per tentare di convincerci che non ci fu spoliazione e distruzione, ma si trattò della "civilizzazione" di culture che, in realtà, danno "uno a quattro" rispetto a quelle che ora pretendono di fare da modello per tutta l'umanità.
E quante volte non si è trattato di sistemare, nel comodo scaffale della moda, l'avvicinamento a coloro che sono il colore della terra?
Chiaro, sempre e quando non si dimentichi che le mode sono passeggere e, come tali, dipendono dai calendari in alto.
Dopo il 1994, "vestiva" bene l'accompagnare la lotta indigena, ma non c'è moda che resista più di 10 anni e, in questo caso, l'oggetto di studio, analisi, riflessione, elemosine e misericordia è ostinato, ribelle, disubbidiente.
E quando la moda cambiò e si decretò che la politica dall'alto era quella urgente ed importante, tutto ciò che non entrava in quel calendario si convertì in anacronistico, riprovevole e disprezzabile.
Una leggenda che si perde negli angoli che abbondano del battito bruno delle terre di questo continente, racconta che gli dei impiantarono qui il domani; che il mondo era giusto e non c'erano nè il Prepotente né comandi; che il sole si svegliava e riposava nelle montagne che ricamano i bordi della casa grande degli uomini e delle donne di mais; che la notte era il tempo per il brillare dell'altra luce che nasceva dalla pelle che, incontrandosi, partoriva mondi interi in tutti gli angoli; che l'alba era lo spazio per custodire le meraviglie che ora sono macchiate con la parola "impossibile"; che allora le ombre erano solo seminate, niente di più, a volte vestite da albero, o da pietra, nuvola, parola, aspettando che la luce regalasse loro vita e passo.
E raccontano che fu regalata la ricchezza fatta terra, acqua, aria, vita e che furono assegnati pure i Guardiani affinché la ricchezza fosse per tutti e per tutte, affinché non morisse.
Raccontano anche che, dopo che furono invase e conquistate queste terre dal denaro fatto dio ed esercito, quando l'europeo Amerigo Vespucci disegnò la mappa del continente che avrebbe portato il suo nome, stava pensando non alla cartografia di un mondo nuovo, ma alla mappa di un tesoro.
E sul tesoro si gettò la muta vestita di abiti talari e di armature. Si distrusse e si saccheggiò. La terra, la Madre, addolorata ordinò ai suoi Guardiani la resistenza ed il paziente sollievo, e pure la cura, la coperta della lingua, del vestito, del canto, del ballo, della cultura.
Sulle gonne e nelle trecce delle donne, nelle pieghe della pelle dei più anziani, nello stupore dei bambini, nella degna ribellione dei suoi uomini e delle sue donne, furono conservati i ricordi, ma non di quello che fu, bensì di ciò che sarà.
Sotto questi cieli ondeggiarono le bandiere usurpatrici delle monarchie spagnola, portoghese, olandese, britannica, francese... sempre quella del denaro; ed i saccheggiatori avevano lettere di governi che - dicevano - di preoccuparsi di "civilizzarci".
Non cessa di essere paradossale che alcune di quelle nazioni proseguano, più di 500 anni dopo, a mantenere delle famiglie reali senza altro merito che un albero genealogico coltivato con crimini, intrighi e guerre; e che si permettano di qualificarsi come "moderne" e "civilizzate", mentre i popoli indios sarebbero i "ritardati".
Nell'orologio in basso suonò poi l'ora della lotta ed il sangue indigeno corse per i 7 punti cardinali. E si chiamò indipendenza il cambio di vestiti che il denaro faceva per continuare ad opprimere terre e gente.
Arrivò poi dall'alto dell'alto il nuovo Imperatore, il capitale, e con lui la nuova alchimia che trasforma tutto in merce.
In alto si simulava indipendenza e sovranità, ma i vestiti dello straniero continuavano a vestire il Prepotente. Il calendario in basso compì il ciclo ed il centenario illuminò una nuova insurrezione. Il sangue bruno si reiterò, generosamente, e su lui e per lui cadde il tiranno. Il finale fu fatto monumento e le cose in sospeso rimasero talmente tante che il sollievo fu scarso e la cura nulla.
La terra, la Madre, offrì allora il suo alimento di dignità ribelle ad altri colori e, come frammenti di un specchio rotto, la lotta prese da allora i vestiti dell'operaio, del contadino, dell'impiegato, dell'altro amore, della gioventù, della donna, della saggezza che non si vende per comodità o per moda.
La resistenza fiorì, fiorisce.
Però la storia in alto torna ad offrirci, come via d'uscita, la menzogna che non cura né allevia... 100, 200 anni dopo.
L'Imperatore è cresciuto e sono cresciuti la sua ambizione ed il suo potere di distruzione. Se prima il tesoro era d'oro, d'argento, di metalli e pietre preziose, ora è fatto d'acqua, d'aria, di boschi, di animali, di conoscenze, di persone.
E se prima la divisa dei suoi ufficiali di conquista era la veste talare e l'armatura, e dopo si francesizzò la leva di "scienziati" e militari porfiristi, ora è la giacca a doppio petto dei partiti politici.
L'Imperatore, il capitale, arrivato alla sua età neoliberale e globalizzata, è riuscito a portare la sua logica mercantile fin negli angoli più appartati della natura. Oggi è merce ciò che prima non aveva altro valore che quello d'uso comune della gente.
Ma nel nuovo saccheggio, l'Imperatore ha incontrato lo stesso ostacolo contro il quale si è scontrato il suo padre-madre: la ribellione dei popoli indios.
Distrutto il campo e colui che lo lavora, smantellate le conquiste dei lavoratori e delle lavoratrici della città, ottenuta la benedizione di cardinali e vescovi antichi e moderni (cioè, dei mezzi di comunicazione di massa), comprati con pochi soldi i principi di partiti politici e delle organizzazioni sociali; l'Imperatore riscopre ora che i Guardiani sono una molestia ed un'opposizione reale.
Quando l'Imperatore comanda ed ordina, il politico si affretta nel suo servilismo. Un esercito di autorità e funzionari governativi, appoggiati da un esercito e da una polizia con metodi da guardiani del latifondo, sono alla testa della rapina delle ultime vestigia di Nazione, della sovranità e dell'indipendenza che esistono ancora sulle nostre terre.
In Messico questa guerra di conquista è nuova solo nelle sue forme legali e mediatiche, e nei ridicoli colori dei vestiti dei governanti: il verde, bianco e rosso; l'azzurro e bianco, il giallo e nero, il rosa, il rosso e giallo, il verde marcio, più quelli che si aggiungeranno al catalogo delle tinte nella prossima stagione pubblicitaria, cioè, alle prossime elezioni.
Per la riconquista del Messico, ora con l'obiettivo delle sue ricchezze naturali, l'Imperatore inviò allora uno dei suoi pupilli prediletti, preparato nei suoi campi di addestramento, pardon, nelle sue università private: Carlos Salinas de Gortari che, mediante una frode elettorale, potè conquistare la spiaggia, il governo federale, e da lì, mediante l'alibi del liberalismo sociale, la compra di coscienze, la sconfitta di coraggi e l'eliminazione di coloro che gli resistevano, e impose, col ferro e col fuoco, le condizioni per la liquidazione della Nazione messicana a prezzi da parastatale, pardon, a prezzi di bancarella.
La mitologia capitalista trovò allora, con la complicità di criminali ed intellettuali, un esempio da seguire: Carlos Slim Heliú. Il vecchio racconto della ricchezza ottenuta con lavoro e sacrificio, occultò ed occulta la corruzione e l'esproprio con un biglietto prepagato.
In un testo scritto alla vigilia del proseguimento delle sue avventure ribelli, "Il Socialismo e l'Uomo Nuovo in Cuba" (Settimanale "Marcha" - marzo 1965), Ernesto Che Guevara scriveva: "Le leggi del capitalismo, invisibili per la gente comune e cieca, agiscono sull'individuo senza che questi se ne renda conto. Si vede solo l'ampiezza di un orizzonte che appare infinito. Così lo presenta la propaganda capitalista che pretende di estrarre dal caso Rockefeller - veridico o non - una lezione sulle possibilità di successo. La miseria che è necessario accumulare affinché sorga un esempio così e la somma di vigliaccate che implica una fortuna di quella grandezza, non appaiono nel quadro e non è sempre possibile alle forze popolari chiarire questi concetti".
Mettete "Carlos Slim Heliú" al posto di "Rockefeller" e vedrete che la storia in alto, stanca di camminare, si ripete.
Ma forse alcune cose, oltre ai vestiti, sono cambiate. Se in tutto il mondo gli "ufficiali" della neoconquista del pianeta sono i governi nazionali e le loro truppe sono formate da funzionari di ogni tipo e rango, il ruolo di buffoni della corte dell'Imperatore è molto disputato dai partiti politici... e non solo in tempi elettorali, ma sempre riferito ad essi
Ed abbondano gli aneddoti che sono ottimi esempi.
Per esempio, non si dice che, dietro la presunta indipendenza del legislativo rispetto ai media, sta lo scontento della classe politica per non ricevere nessun compenso pur avendo superato il "rating" della soglia comica.
E neanche si vuole far sapere che l'uscita di Ugalde dall'IFE [Instituto Federal Electoral, n.d.r.] ha una causa passionale, e non già una concessione ottenuta grazie all'intelligente abilità del FAP. Non lo si dice perché non è politicamente corretto segnalare che nei guardaroba della classe politica e nell'attuale governo federale abbondano gli scheletri nell'armadio. Non si dice che la passione che fiorì ed arrivò al suo climax nell'evidente complicità dell'IFE nella frode elettorale che portò al Potere Felipe Calderón Hinojosa, ora è scemata e ci sono altri scheletri nell'armadio. Cioè che, come si suol dice, Ugalde è stato "scaricato".
Di certo, non è così?, quando Felipe Calderón indossa il suo travestimento di miliziano, somiglia straordinariamente al dittatorello di quell'eccellente striscia comica che disegna, o disegnava, il caricaturista Palomo e che si chiama "Il Quarto Reich". Chiedo scusa, stavo anche per aggiungere, mettendomi in sintonia con la conquista spagnola, che se a Felipe Calderón si mettessero i baffi finirebbe per assomigliare molto a José María Aznar.
Non oso dirlo perché ho ricordato che questo è un tavolo rotondo tanto serio e formale che neanche posso reiterare le barzellette brutte sul fatto che è rettangolare.
Se non fosse serio, si potrebbe dire qualcosa su quel mucchio di rottami, pieni di merda e sangue, che è il PRI ed alcuni dei suoi personaggi più emblematici: Carlos Salinas de Gortari, Ernesto Zedillo Ponce de León, Ricardo Monreal, Arturo Nuñez, Juan Sabines.
Neanche faccio commenti sarcastici sul PRD, il presidente "legittimo", la sua Convenzione Nazionale Democratica, il fiammante Fronte Ampio Progressista ed i suoi governatori e presidenti municipali "di sinistra".
Non voglio nemmeno ricordare che, nella CND celebrata un anno fa, in rappresentanza degli indigeni del Messico c'erano gli ex funzionari di Vicente Fox, che ancora facevano uso dei cartellini del Congresso Nazionale Indigeno - CNI - (noto anche come "Convenzione Nazionale Indigena") come fu opportunamente fatto notare a suo tempo da Magda Gómez.
Vado, invece, a fare un po' di memoria. Quella che tanto poco affetto riscuote nelle fila del lopezobradorismo istruito, tanto incline alla dimenticanza selettiva.
Poco più di 10 anni fa correvano i tempi dei colloqui di San Andrés tra il governo federale e l'EZLN. Concluso il tavolo I, su diritti e cultura indigeni, incominciò il Tavolo su Democrazia e Giustizia. La delegazione governativa che Ernesto Zedillo Ponce de León inviò a quei colloqui optò per la strategia del "non li vedo, non li sento" (ricordate?). Dal lato dell'EZLN, capitanavano la delegazione il Comandante Tacho, il Comandante David ed il Comandante Zebedeo.
L'EZLN aveva convocato, sia come invitati che come consiglieri, un gran numero di persone impegnate nella lotta su quei temi. Per adesso ricordo che, dalla nostra parte (e con "nostra" non voglio dire "dell'EZLN", bensì della lotta) stavano, tra le altre e gli altri, persone che oggi ci criticano e ci biasimano per le nostre posizioni.
In quei giorni furono assassinati dal governo alcuni contadini indigeni del municipio Nicolás Ruiz, Chiapas, dove si riscuotono grandi consensi per l'EZLN. I nostri delegati reclamarono e pretesero spiegazioni. I delegati del governo si trincarono nel non parlare né ascoltare.
Allora, mi raccontarono i comandanti e le comandante che reano presenti, la creatività dei nostri consiglieri e delegati li affrontò per mezzo della mimica che includeva promemoria adeguati alle rispettive progenitrici degli delegati di Zedillo.
La delegazione governativa di allora era famosa nei bar, cantine e balere di San Cristobal de las Casas, Chiapas. Oltre che per le loro tendenze etiliche, i rappresentanti del governo erano conosciuti perché non sapevano reggere l'alcol e, ai primi bicchieri, sentivano la necessità impellente che i propri compagni di gazzarra sapessero delle loro convinzioni (cito testualmente una di esse: "gli zapatisti stanno scommettendo sul fatto che cada il PRI per poter così dialogare con un altro governo, ma si sbagliano, il PRI non lascerà mai il Potere") così come presumere le loro tattiche e strategie. Tra queste c'era quella che bisognava colpire gli zapatisti o i loro simpatizzanti per obbligarli a dialogare e giungere agli accordi. Così trascorse tutta quella parte del fallito dialogo. Quando si andò alla rottura, nella Segreteria di Governo di Zedillo si riunirono i delegati, il segretario di governo ed il sottosegretario, e decisero di portare fino alle estreme conseguenze quella strategia di "attacco e dialogo".
Allora si gettarono le basi di quello che, mesi dopo, sarebbe stato conosciuto in tutto il mondo come "Il Massacro di Acteal".m
Ricordo alcuni nomi: il sottosegretario di governo era Arturo Nuñez (oggi senatore per il PRD) che dopo sarebbe diventato uno dei leader più in vista della mobilitazione contro la frode elettorale del 2006 ed ora lo è del Frente Amplio Opositor.
Il nome dei delegati governativi di allora: Marco Antonio Bernal, Del Valle e Gustavo Iruegas. Chi pensa che quest'ultimo sia un omonimo dell'addetto alle relazioni internazionali del governo "legittimo" di López Obrador, si sbaglia: è lo stesso.
Sì, dalla parte del tradimento del febbraio 1995; dalla parte dello sgombro e della distruzione delle poche proprietà dei colonizzatori di Guadalupe Tepeyac e El Prado, nelle montagne del Sudest Messicano; dalla parte degli assassini dei contadini indigeni di Nicolás Ruiz, dalla parte di quanti in ogni momento si impegnarono ad umiliare i capi zapatisti e si presero gioco del loro modo di parlare, del loro tempo, della loro cultura, della loro causa; dalla parte degli autori morali e materiali del Massacro di Acteal, stava l'ora fulgido funzionario del governo legittimo che conta sul sostegno della CND lopezobradorista.
I comandanti Tacho, David e Zebedeo possono raccontarvi molti episodi che documentano il razzismo del signor Iruegas.
Non sappiamo in che momento persone come questa hanno cambiato posizione, convinzione e modo di agire.
Forse quanti oggi non solo li seguono e rispettano come propri governanti "legittimi", ma per di più esigono che noi si faccia altrettanto, sotto pena di essere tacciati come "conservatori", loro lo sanno.
Forse ce lo diranno, forse ci daranno prove che sono tanto cambiati che ora non sono più razzisti, autoritari e criminali.
Forse fu sufficiente solo che dicessero che stavano dalla loro parte e basta.
Forse questo e dei vestiti decenti li convinsero.
A noi no.
Ma succede ora che se noi lo notiamo, lo ricordiamo, lo diciamo, noi siamo i "salinisti", quelli che fanno il gioco alla destra, quelli che devono essere ripudiati, calunniati, zittiti, perseguiti, sdegnati.
Non capiamo. Perché noi continuiamo ad essere quelli attaccati, quelli deportati, quelli minacciati, quelli assassinati, quelli imprigionati. Ma esigono che non lo diciamo quando si tratta di qualcuno dei loro nuovi dirigenti.
Ogni volta che può, Andrés Manuel López Obrador rivendica come un gran risultato del suo movimento quel "non abbiano rotto un solo vetro". Alcuni giorni fa, in un programma alla radio, gli fecero domande a proposito di quello che dicemmo nel nostro ultimo comunicato sulle aggressioni che soffrono le nostre comunità. AMLO rispose, parola più parola meno, che egli aveva appena percorso tutti i municipi del Chiapas e non aveva visto niente. Non sappiamo se la sindrome di Fox che non leggeva i giornali, colpisca già il presidente "legittimo", ma, devo dire che non è certo che visitò tutti i municipi chiapanecos, perché nel nostro stato ci sono più di 40 MAREZ [municipios autónomos en rebeldía, n.d.r.] nei quali non è stato.
Indubbiamente si capisce come non sappia nulla, perché quasi nulla esce sulla stampa, grazie alla censura ed al fatto che lo zapatismo è moda passata.
Può essere anche che qualunque segnalazione e memoria critica che lo metta in discussione sia pubblicata nelle sue agenzie di stampa e citata nelle sue comparizioni pubbliche e mediatiche, previa la qualificazione di "conservatrice",
Lo capiamo. Dopo tutto ci si può accusare, come scrisse - con l'abbrutimento che dà l'alcool - chi stette della nostra parte per qualche momento, di essere "salinisti".
Ma mi scusino se insisto nel ricordare:
Quando ci furono le elezioni per il governatore in Chiapas, si svolgeva nello Zócalo capitolino la manifestazione di protesta contro la frode elettorale e di essa faceva parte AMLO. Il candidato del PRD al governatorato era Juan Sabines che appena alcuni mesi prima era stato sindaco di Tuxtla Gutiérrez e appartenente al PRI per molti anni. Forse qualcuno ricorderà che López Obrador abbandonò la manifestazione per andare ad appoggiare la campagna di Sabines e che, ottenuto il trionfo per un piccolo margine di voti, ritornò allo Zócalo ed esultante dichiarò che in Chiapas "si era opposto alla destra". Il lopezobradorismo, pur sapendo che con Juan Sabines si adeguava al peggio del PRI, quello che trasformò il Chiapas in una gran tenuta porfirista e che trovò in "Croquetas" Albores Guillén il suo personaggio più rappresentativo, stette in silenzio ed applaudì. Non si disse allora che con Sabines ritornava al potere anche la combriccola dei finqueros che, prima della rivolta, facevano realtà quotidiana dell'opera di Bruno Traven intitolata "La Rebelión de Los Colgados" [La Ribellione degli Impiccati, n.d.r.]
Non importava che quello significasse prender partito a beneficio della destra chiapaneca, bisognava applaudire e seguire il leader per perdere la memoria e conservare dopo un silenzio complice.
Da quando iniziarono le nostre critiche al progetto di AMLO, nei settori progressisti ci fu in primo luogo disturbo, e calunnia dopo, perché non ci andammo ad aggiungere alla corte lopezobradorista (di quanti/e, "sorridi, stiamo vinvendo", avrebbero deciso il futuro del Messico). La nostra posizione fu precisa: AMLO ed il PRD rappresentavano non solo la continuazione del progetto economico, politico, sociale ed ideologico, ma anche l'alibi perfetto: la bandiera della sinistra istituzionale sul pennone del macchinario di sfruttamento, repressione, spoliazione e discriminazione che è il capitalismo. La guerra contro i popoli indios rivestita con altri vesti.
Chi erano gli indios zapatisti ed il loro nasuto portavoce per rovinare la festa anticipata di spartizione di posti, ambasciate, consolati, ministeri, e tavoli di consultazione con "quelli che comandano?"
Allora dissero e pubblicarono che eravamo al servizio della destra, limitarono l'appoggio e simpatia che avevano per il nostro movimento e, in alcuni casi, ottennero che si chiudessero i pochi spazi pubblici che c'erano per la nostra parola.
Forse è meglio cercare una fonte obiettiva. Cito una relazione che il Centro per i Diritti Umani Fray Bartolomé de Las Casas [Frayba, n.d.r.], inviò alle Giunte di Buon Governo agli inizi di settembre di quest'anno, sulla situazione degli sfollati a causa del governo conservatore e panista di Felipe Calderón Hinojosa e del governo di sinistra e perredista di Juan Sabines:
"6 settembre 07.
Le persone in fuga dalle proprie terre, si trovano ora in un posto chiamato Rancho Las Vegas che in precedenza funzionava come bar-bordello, alla periferia del villaggio di La Trinitaria, Chiapas. In quel posto non c'è energia elettrica, non contano su acqua potabile né fognature. Inoltre in questa stagione di pioggia entra l'acqua dal soffitto e dalle imposte, le persone dormono su materassini di tela cerata stesi a terra. Sul fronte sanitario: ci sono 2 donne incinta, 1 persona che ha la varicella e altre 2 persone che hanno infezioni cutanee, il rischio di infezione dovuto alla mancanza di acqua potabile è alto.
In quanto all'alimentazione: questa è stata proporzionata alle condizioni, tuttavia le donne hanno lamentato che danno loro solamente riso, che non sono abituati a mangiare, cioè l'alimentazione proporzionata non tiene conto della loro cultura né di una buona alimentazione. La CARITAS di San Cristobal ha razionato loro fagioli e mais, oltre ad altri generi alimentari.
Fino a questo momento le autorità di governo non hanno proposto a queste persone un posto degno dove ricollocarsi, gli sfollati hanno sollecitato i funzionari di governo del Chiapas per essere trasportati nel municipio di Ocosingo dove hanno dei familiari, tuttavia questo non si è fatto, tantomeno lo stato ha garantito loro che in Ocosingo avranno un luogo degno per vivere, come pure di che mangiare, poiché gli sfollati nella loro maggioranza sono donne, in quanto gli uomini sono stati fermati.
Inoltre le comunità degli sfollati si trovano sotto il controllo dei poliziotti e lo stato ha detto loro che non possono ritornare da dove vengono, ma non ha dato loro un'altra soluzione per vivere in un altro posto, parrebbe che l'intenzione dello stato sia che quella gente si stanchi e si disperda, per non avere più responsabilità su esse.
Le persone sfollate si trovano anche sotto la custodia di elementi della Segreteria di Sicurezza Pubblica dello Stato e della Polizia Municipale di La Trinitaria, ufficialmente non si trovano detenute, tuttavia non possono uscire, lo stato ha insistito sul fatto che non si trovano detenuti ma in pratica non possono uscire.
Quanto alla comunicazione con gli sfollati, questa è stata possibile grazie all'aiuto di varie ONG che stanno visitandoli costantemente per vedere in che condizioni si trovano, poiché all'inizio elementi della polizia non permettevano l'accesso.
Alle 6 persone arrestate il giorno 27 agosto 07 è stato contestata l'accusa formale di arresto per delitti di danneggiamento ed ecocidio.
In totale sono 33 persone sfollate, di cui 7 adulti, tutte donne, e 26 minorenni, il più piccolo di 9 mesi.
Quanto ai detenuti che si trovano nel CERESO n.14, El Amate, siamo inoltre a conoscenza del fatto che si trovano in un posto chiamato Centro di Osservazione e Classificazione, conosciuto come COC o "72 ore" e che siccome sono gli unici indigeni in questo momento in quel posto non permettono loro di usare i sanitari.
Parteciparono a detta operazione le seguenti autorità ufficiali:
Statali: Agencia Estatal de Investigación. Fiscalía General de Justicia, Región Selva, Secretaría de Gobierno, Policía Estatal Preventiva.
Federali: Agencia Federal de Investigación, Procuraduría General de la República, Secretaría del Medio Ambiente, CISEN, Policía Federal Preventiva.
I 6 detenuti furono obbligati a firmare una lettera nella quale chiedono perdono al Governatore e gli chiedono misericordia affinché ottengano la liberazione."
Non so se, dopo avere ascoltato questo, vorranno accusare anche il Frayba di essere "salinista" e di "fare il gioco della destra".
40 anni fa, l'8 settembre 1967, inseguito dall'esercito ed attaccato dalle sinistre "ben accomodate" del mondo, il Che scrisse:
"Un giornale di Budapest critica il Che Guevara, figura patetica e apparentemente irresponsabile e saluta l'attitudine marxista del Partito Cileno che assume un atteggiamento pratico nella pratica. Come mi piacerebbe arrivare al potere, anche solo per smascherare codardi e lacché di ogni specie e far loro strofinare il muso nelle loro porcherie".
Oggi, 40 anni dopo, attraverso la mia voce, le comunità indigene zapatiste rendono un umile omaggio a chi fu catalogato da coloro che dicevano stare dalla sua stessa parte, come "patetico" e "irresponsabile".
Di loro non c'è più nessuno che li ricordi con rispetto, ma il Che continua ad essere fonte d'ispirazione nel nostro bruno camminare.
Per gli altri, per noi, per gli zapatisti e le zapatiste, è chiaro: nel criminale calendario dell'alto, l'orologio della storia pretende di ripetere l'ora del crimine contro le nostre culture originarie.
Compete ai nostri popoli indios proseguire nella lotta che altri abbandonano per comodità.
Invece di paralizzarci per il silenzio e l'indifferenza con la quale ci "puniscono" per non seguirli nella loro avventura dove stanno gli stessi anche se con vestiti diversi, siamo impegnati in un doppio sforzo: vederci ed ascoltarci con i popoli originari di questo continente ed organizzarci con quelli e quelle che hanno scelto il luogo più scomodo per essere e lottare: quello in basso ed a sinistra.
Per alcuni giorni, le culture originarie di questo continente si riuniranno nel territorio della tribù Yaqui, in Vicam, in Sonora, in Messico.
Dato che non si discuterà di candidature, alleanze elettorali o di quanto è di moda nel calendario in alto, si dirà che non è immanente e non avrà ripercussioni (cioè spazio sui giornali).
Forse.
Ma noi sappiamo che la terra, la Madre, sa che lì è dove si saprà se qualcuno lotterà per darle il domani che custodisce in seno, se qualcuno confezionerà i vestiti che nessuno porterà quando affronterà il ciclope del Potere, se qualcuno coltiverà finalmente l'altro calendario in un'altra geografia, uno nel quale tutto sarà rinominato di nuovo, e la luce e l'ombra ricorderanno che ambedue sono la parte di verità che ogni leggenda custodisce.
Molte grazie.
Subcomandante Insurgente Marcos