The Great Match of Millennium!







Quando Don King gli propose un contratto da cinque milioni di dollari per combattere contro Mohammad Ali, George Foreman era indiscutibilmente il peso massimo più forte del mondo: giovane, gigantesco e dotato di un cazzotto dalla potenza devastante, aveva fin lì trovato ben poca resistenza anche da parte di pugili con i quali Ali aveva perso, come Ken Norton o Joe Frazier. In più quei cinque milioni di dollari erano la borsa più alta mai offerta a un professionista nella storia del pugilato, e George Foreman accettò.
Quando poi Don King propose la medesima borsa ad Ali per sfidare Foreman, si trattava addirittura di un karma che si compiva: l'ex Cassius Clay che aveva abbattuto Sonny Liston con quel gancio invisibile, che aveva cambiato nome abbracciando la Nation of Islam, che si era rifiutato di andare a combattere in Vietnam sostenendo che i Viet Cong non lo avevano mai chiamato "sporco negro", e che per questo aveva subito la detronizzazione dal titolo mondiale e la condanna a cinque anni di carcere, e che tornando al pugilato dopo la pena aveva perduto l'imbattibilità con Joe Frazier, e si era fatto spaccare la mascella da Ken Norton, e che però con Frazier si era preso due memorabili rivincite, la seconda delle quali a Manila in uno dei match più belli di tutti i tempi, quell'uomo non poteva che accettare.
A quel punto, però, Don King doveva risolvere un problema: non aveva dieci milioni di dollari, e nella ricca America non c'era nessuno che fosse disposto a dargliene più della metà. Ed ecco che il genio visionario del più grande organizzatore del mondo pescò la carta vincente, che gli permise di metter su il vero incontro del secolo: Mobutu.
Per il despota zairese dieci milioni di dollari erano argent de poche, e l'occasione di ammantare di leggenda il teatro della sua sanguinaria dittatura non gli si sarebbe presentata mai più, ragion per cui l'incontro con quelle borse stratosferiche fu organizzato in una delle città più povere del mondo, a Kinshasa, in riva al fiume Congo, con tutte le suggestioni che questo ossimoro poteva offrire ai media di tutto il mondo.
Così, fissata la data dell'incontro - 25 settembre 1974 - e organizzata alla sua vigilia una specie di Woodstock di musica nera (un festival di due giorni con James Brown, B.B. King, Wilson Pic kett e Miriam Makeba), il manager dai capelli ritti aveva risolto il suo problema, ma un altro problema era sorto per Mohammed Ali: perché lui sapeva che Foreman gli era superiore, e nonostante le reboanti dichiarazioni d'invincibilità rilasciate ogni giorno alla stampa, ne aveva, come tutti i pugili del mondo, paura.
D'altra parte quel destino che Ali si era accanitamente costruito - un destino difficile, non lineare, pieno d'intrusioni e di contaminazioni politiche - gli offriva un'ultima chance, e lui doveva sfruttarla, indipendentemente dalla forza del suo avversario, per non passare alla storia come un semplice rompicoglioni perdente; cioè doveva battere Foreman, ed era un brutto problema davvero.
Cominciò così la più straordinaria preparazione a un match di pugilato che sia mai stata concepita.
Prima mossa: trasformare la debolezza in forza. "Non sono più il ragazzo di dieci anni fa" dichiarò Ali, "sono stato atterrato, mi hanno rotto la mascella, ho esperienza". Nessuno aveva mai atterrato Foreman, nessuno gli aveva mai rotto nulla e, sapendoci credere, quello diventava un punto a suo sfavore: lui quell'esperienza non l'aveva.
Seconda mossa: l'allenamento. Mentre Foreman deformava il sacco con le sue bordate, correva in salita, spaccava legna e faceva male agli sparring partner, Ali faceva le stesse cose, salvo il fatto che dallo sparring partner si faceva far male. Aveva scelto per questo compito il pugile più potente - e dunque più simile a Foreman - che ci fosse in circolazione, un giovanissimo picchiatore nero di nome Larry Holmes che dieci anni dopo sarebbe diventato a sua volta campione del mondo, e nelle sessioni di allenamento si faceva picchiare scientificamente, per insegnare al proprio corpo a metabolizzare in fretta le mazzate con cui Foreman lo avrebbe tempestato - ed era la prima volta che si vedeva uno sfidante al titolo mondiale farsi pestare in allenamento dal suo sparring partner.
Terza mossa: conquistare l'Africa. Tanto appassionatamente gridò al mondo la propria "africanità" - e credibilmente, visti i guai che aveva passato per essersi rifiutato di andare a combattere contro un Paese del Terzo mondo - che quando Foreman arrivò all'aeroporto di Kinshasa gli zairesi rimasero stupiti nel constatare che era nero anche lui: credevano fosse bianco.
Del resto, una fatalità occorse a ritrasformarlo immediatamente in bianco, poiché sbarcò dall'aereo insieme al suo amatissimo pastore tedesco, e i pastori tedeschi erano i cani-poliziotto usati dall'esercito belga durante l'occupazione coloniale, ragion per cui, nel cuore degli spettatori che avrebbero gremito lo stadio, si sarebbe trattato di un match tra un figlio dell'Africa e un simbolo del colonialismo.
Infine, quarta mossa: la strategia. Tanto ripeté, Ali, che sul ring avrebbe danzato, ("I'm gonna dance!"), che nessuno al mondo ne dubitò, visto che proprio la danza sul ring era stata, in passato, la straordinaria innovazione portata da Ali nel pugilato moderno. Invece Ali sapeva che con quell'avversario formidabile non si poteva danzare, e si preparava per tutt'altro incontro - ma questo non lo sospettava nessuno, nemmeno Foreman stesso.
Eppure, nonostante questi capolavori, Foreman gli rimaneva superiore. Era all'apice della carriera, potentissimo, imbattuto; perfino sul piano dialettico, laddove Ali dilagava, teneva botta con un suo laconico talento comunicativo. Una volta gli dissero, in una conferenza-stampa, che Ali aveva devoluto una parte della propria borsa alla città di Kinshasa per la costruzione di un ospedale, e gli chiesero se aveva intenzione di fare altrettanto. Risposta di Foreman: "Se Ali ha tanto bisogno di un ospedale, io ce lo manderò".
Malgrado tutte le forze che Ali aveva raccolto - nel suo corpo, nella sua mente e in un intero continente -, malgrado la sua classe cristallina, la sua tecnica e la sua velocità, il suo rimaneva, agli occhi del mondo, un tentativo disperato.
Oltretutto, un incidente all'occhio a pochi giorni dall'incontro costrinse Foreman a chiedere e ottenere un rinvio di sei settimane, e questo mandò Ali su tutte le furie, perché gli sbalestrava tutti i calcoli e lo obbligava a riprogrammare su un'altra data la conquista di quello zenith che aveva tanto laboriosamente traguardato per il 25 settembre.
Così, quando l'incontro cominciò, la sera del 30 ottobre, nessun occidentale pensava che Ali avrebbe vinto: in lui credeva solo l'Africa povera e incompetente di boxe, rappresentata dai centomila zairesi che dagli spalti gridavano "Ali boma yè", "Ali uccidilo".
Eppure, appena suonato il primo gong, ci si accorse che il match non sarebbe andato come si prevedeva. Anziché mettersi a danzare, Ali si avventò su Foreman e riuscì a colpirlo ben dodici volte, con ganci e jab, prima che il campione si riprendesse dalla sorpresa; dopodiché, per l'altra metà del primo round, cominciò il martirio che solo Ali aveva previsto, e per il quale si era preparato scrupolosamente: lui alle corde con i guantoni a coprirsi il volto e Foreman a picchiarlo selvaggiamente a due mani.
E rimane indimenticabile lo sguardo di Ali tra la prima e la seconda ripresa, fisso, preoccupato, solenne, di chi sa che è appena cominciata la sofferenza più dura della sua vita, e che solo attraversando quella, senza sconti e nella più totale solitudine, potrà diventare quell'eroe che ha promesso di essere. Dura pochi secondi, quello sguardo, ma è una delle immagini più commoventi che lo sport abbia prodotto.
Seconda ripresa, terza, quarta; il martirio si compie: Ali alle corde, proteso all'infuori come un uomo che si sporge dalla finestra per guardare il tetto, e Foreman che gli scarica addosso quella potenza che ha abbattuto tutti i suoi avversari.
Neanche un passo della danza annunciata per mesi, solo un'immobilità sacrificale, quasi votiva, che Ali tuttavia accompagna con frasi irridenti sibilate nelle orecchie dell'avversario imbufalito: "Tutto qui, George?", "Mi deludi", "Ti rendi conto che non mi stai facendo niente?".
E invece quei colpi fanno eccome, e che differenza con i colpi di Larry Holmes - la differenza, appunto, tra un duro allenamento e l'incontro del secolo.
"Ora va giù", pensano tutti, tutti i momenti, per tre lunghissime riprese, "Ora va giù", "Ora va giù", perché nessun pugile è mai riuscito a incassare tanti colpi senza andare giù.
Ma Ali non va giù, e a metà della quinta ripresa Foreman è sfinito per la fatica delle botte date; una distrazione, uno spiraglio nella sua guardia, e una rapidissima combinazione lo centra in pieno volto, generando una delle fotografie più leggendarie della boxe, quella del suo volto stupito circondato dagli spruzzi del sudore schizzato a raggera per il contraccolpo.
"Ali boma yè!", grida lo stadio. Foreman vacilla, resta in piedi, e il gong arriva a salvarlo da una condizione di cui non ha esperienza - quella del pugile in difficoltà.
Torna sul quadrato per la sesta ripresa di nuovo lucido e feroce, ricomincia a picchiare Ali stretto alle corde, ma il martirio di Ali è finito, e ora tutti sanno che quella di farsi picchiare è una tattica, maledizione, la più imprevedibile, folle, coraggiosa, disperata e geniale tattica mai messa in atto su un ring di pugilato: ormai il match è nelle sue mani.
Ed è all'ottavo round, quando anche la seconda fiammata di forza bruta in Foreman si è spenta, che Ali esce dal suo guscio e centra l'avversario con una pennellata violentissima: la caduta del colosso è lenta, plastica, ed è lui che danza la propria fine barcollando a lungo, questa volta senza scampo.
Ali lo guarda annaspare, potrebbe colpirlo ancora ma non lo fa, "per non violare", dirà Norman Mailer che in quell'istante sta cominciando a esultare a bordo ring, "l' estetica perfetta di quell'atterramento".
È fatta. Foreman cerca di risollevarsi, ma il suo stesso ammasso di muscoli sopraffatti lo ricaccia giù: Ali è tornato campione del mondo, è un eroe, un profeta, un santo vendicatore; il vecchio Congo ha battuto il Belgio, l'America, il mondo; Mobutu passerà alla storia anche per qualcosa di bello; e i monsoni, il cui arrivo era previsto fin dal primo pomeriggio, possono anche scatenarsi. Un'ora dopo, infatti, una pioggia torrenziale spaccò il cielo, si abbatté sullo stadio vuoto e spazzò via tutto.

Sandro Veronesi



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