“Vogliamo essere gli eredi di tutte le rivoluzioni del mondo e di tutte le lotte di liberazione dei popoli del Terzo Mondo”.
Sankara è il sogno africano. Presidente per quattro anni del Burkina Faso, alla ricerca del riscatto per un intero continente, la sua è la storia di un’esperienza rivoluzionaria in uno dei Paesi più poveri dell’Africa: il Burkina Faso. Una rivoluzione senz’armi, fatta di coraggio e speranza, imboccando una via autonoma di sviluppo osteggiata sistematicamente da Banca Mondiale e FMI.
“L’Africa agli africani!”, urlava a un mondo sordo Thomas Sankara alla metà degli anni Ottanta. La guerra fredda era agli sgoccioli, le speranze sorte dopo l’affrancamento dal dominio coloniale –il 1960 era stato dipinto come l’anno dell’Africa tra proclami e belle parole– erano state ormai strozzate da decenni di sfruttamento economico, disarticolazione sociale e inerzia politica. Le multinazionali invadevano le ricche terre d’Africa, mentre gli Stati del Nord del mondo imponevano condizioni commerciali che impedivano lo sviluppo dei Paesi africani, schiacciati tra debito estero e calamità naturali.
Il 4 agosto 1983, in Alto Volta, iniziava l’esperienza rivoluzionaria di Thomas Sankara, capitano dell’esercito voltaico giunto al potere con un colpo di stato incruento e senza spargimento di sangue. Il Paese, ex colonia francese, abbandonò subito il nome coloniale e divenne Burkina Faso, che in due lingue locali, il moré e il dioula, significa “Paese degli uomini integri”. Ed è dall’integrità morale che Sankara partì per tagliare i ponti con un triste passato e con deprimente presente. Pochi dati illustrano quanto grave fosse la situazione: tasso di mortalità infantile del 187 per mille (ogni cinque bambini nati, uno non arrivava a compiere un anno), tasso di alfabetizzazione al 2%, speranza di vita di soli 44 anni, un medico ogni 50.000 abitanti.
“Non possiamo essere la classe dirigente ricca in un Paese povero”, era solito ripetere Sankara, che visse un’infanzia di miseria (“Quante volte i miei fratelli e io abbiamo cercato qualcosa da mangiare nelle pattumiere dell’Hotel Indépendance”) e povero, come gli altri burkinabè, è sempre rimasto. Le auto blu destinate agli alti funzionari statali, dotate di ogni comfort, vennero sostituite con utilitarie, ai lavori pubblici erano tenuti a partecipare anche i ministri.
Sankara stesso viveva in una casa di Ouagadougou, la capitale del Paese, che per nulla si differenziava dalle altre; nella sua dichiarazione dei redditi del 1987 i beni da lui posseduti risultavano essere:
- una vecchia Renault 5,
- libri,
- una moto,
- quattro biciclette,
- due chitarre,
- mobili
- un bilocale con il mutuo ancora da pagare.
“È inammissibile”, sosteneva, “che ci siano uomini proprietari di quindici ville, quando a cinque chilometri da Ouagadougou la gente non ha i soldi nemmeno per una confezione di nivachina contro la malaria”.
Negli stessi anni i suoi omologhi si trinceravano in lussuose ville o agli ultimi piani dei migliori hotel, lontani anni luce dai bisogni quotidiani della popolazione. Per esempio il presidente della Costa d’Avorio, Felix HouphouëtBoigny, aveva fatto costruire in pieno deserto una pista di pattinaggio su ghiaccio per i propri figli. Quando alcuni capi di Stato si offrirono per donare a Sankara un aereo presidenziale, la risposta fu che era meglio fare arrivare in Burkina Faso macchinari agricoli. E la terra burkinabè non è mai stata particolarmente fertile, inaridita dall’Harmattan, il vento secco proveniente dal deserto del Sahara che lambisce i confini settentrionali del Paese.
Per ridare impulso all’economia si decise di contare sulle proprie forze, di vive re all’africana, senza farsi abbagliare dalle imposizioni culturali provenienti dall’Europa: “Non c’è salvezza per il nostro popolo se non voltiamo completamente le spalle a tutti i modelli che ciarlatani di tutti i tipi hanno cercato di venderci per anni”. “Consumiamo burkinabè”, si leggeva sui muri di Ouagadougou, mentre per favorire l’industria tessile nazionale i ministri erano tenuti a vestire il faso dan fani, l’abito di cotone tradizionale, proprio come Gandhi aveva fatto in India con il khadi.
Le magre risorse vennero impiegate per mandare a scuola i bambini e le bambine –nel 1983 la frequenza scolastica era attorno al 15%– e per fornire cure mediche ai malati, organizzando campagne di alfabetizzazione e di vaccinazione capillare contro le infermità più diffuse come la febbre gialla, il colera e il morbillo. L’obiettivo era di fornire 10 litri di acqua e due pasti al giorno a ogni burkinabè, impedendo che l’acqua finisse nelle avide mani delle multinazionali francesi o statunitensi e cercando finanziamenti che fossero funzionali allo sviluppo idrogeologico del Paese, non al profitto di pochi uomini d’affari.
Il Burkina Faso divenne un esempio per le altre nazioni, governate da élite corrotte e supine ai dettami provenienti dagli istituti economici internazionali. Se un piccolo Paese, condannato anche dalla geografia (il deserto avanzava verso sud di sette chilometri all’anno mangiandosi campi coltivati; esiste un solo corso fluviale e non c’è alcuno sbocco sul mare) riusciva a levare il proprio grido di dolore e di insofferenza e a dimostrare che i problemi che affliggevano l’Africa si potevano risolvere, cosa avrebbero potuto fare Paesi con immense risorse naturali? Il 15 ottobre 1987 Sankara, che a dicembre avrebbe compiuto 38 anni, veniva ucciso: troppo scomodo, troppo generoso, troppo attento alle esigenze della povera gente. Quando i giovani africani cominciarono a chiedere ai propri governanti di seguire l’esempio di Sankara, il complotto prese forma e coinvolse chi, in Burkina Faso, in Africa e in Europa, non poteva tollerare la sua indisciplina e la sua semplicità.
In quattro anni Sankara aveva invitato i Paesi africani a non pagare il debito estero per concentrare gli sforzi su una politica economica che colmasse il ritardo imposto da decenni di dominazione coloniale. Dominazione che era anche culturale: “Per l’imperialismo”, affermava, “è più importante dominarci culturalmente che militarmente. La dominazione culturale è la più flessibile, la più efficace, la meno costosa. Il nostro compito consiste nel decolonizzare la nostra mentalità”.
Ecco così spiegato l’impulso dato al Festival Panafricaine du Cinéma de Ouagadougou (Fespaco), la più importante rassegna continentale, con il fine di sviluppare la cinematografia locale a scapito di quella europea, uno dei tanti strumenti per legittimare la superiorità dei “bianchi” e l’inferiorità degli Africani. Nel 1986, durante i lavori della 25esima sessione dell’Organizzazione per l’Unità Africana (OUA) tenutasi a Addis Abeba, Sankara espresse in modo molto semplice perché il pagamento del debito doveva essere rifiutato: “Noi siamo estranei alla creazione di questo debito e dunque non dobbiamo pagarlo. […] Il debito nella sua forma attuale è una riconquista coloniale organizzata con perizia. […] Se noi non paghiamo, i prestatori di capitali non moriranno, ne siamo sicuri; se invece paghiamo, saremo noi a morire, possiamo esserne altrettanto certi”.
Sempre a Addis Abeba, Sankara invocò il disarmo, proponendo ai Paesi africani di smettere di acquistare armi e di dissanguarsi in dispute fomentate dall’estero per protrarre l’arretratezza e la dipendenza del continente. L’invito era di adottare misure a favore dell’occupazione, della tutela ambientale, della pace tra i popoli, della salute. A New York, qualche mese prima, davanti all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, Sankara aveva tuonato contro l’ipocrisia di chi fornisce aiuti ai Paesi in via di sviluppo (mentre per altre vie si inviano armi) e contro l’egoismo di chi, per esempio, si rifiuta di investire nella ricerca contro la malaria – che in Africa provoca ogni anno milioni di morti – solo perché è una malattia che non riguarda i Paesi del nord del mondo. “Ci sentiamo una persona sola con il malato che ansiosamente scruta l’orizzonte di una scienza monopolizzata dai mercanti di armi. […] Quanto l’umanità spreca in spese per gli armamenti a scapito della pace!”.
Sankara espresse la convinzione che per eliminare i lasciti coloniali fosse indispensabile avviare un processo di unione di tutti gli Stati (dal Maghreb al Capo di Buona Speranza) del continente, che doveva diventare un’entità politica coesa e rispettata sul piano internazionale: “Mentre moriamo di fame e nel nostro Paese ci sono migliaia di disoccupati, altrove non si riescono a sfruttare le risorse della terra per mancanza di manodopera. Se ci fosse maggiore cooperazione, potremmo arrivare all’autosufficienza alimentare e non dovremmo più dipendere dagli aiuti internazionali”.
Primo passo era la fine dell’apartheid in Sudafrica, dove la minoranza “bianca” godeva in realtà del sostegno economico dei Paesi occidentali. Sankara ebbe parole di rimprovero per tutti, a partire da François Mitterrand: “Che senso ha organizzare marce contro l’apartheid, mentre si producono e si vendono armi al Sudafrica?”.
Forse non è un caso che Sankara venne ucciso quattro giorni dopo che a Ouagadougou si era tenuta una Conferenza panafricana contro l’apartheid. Il “Président du Faso”, come viene ancora oggi ricordato dai burkinabè, si è sacrificato dimostrando che è possibile rispondere, all’africana, ai problemi dell’Africa, con chiarezza e talvolta ingenuità, come quando chiese che “almeno l’1% delle somme colossali destinate alla ricerca spaziale sia destinato a progetti per salvare la vita umana”.
Dinanzi alle Nazioni Unite Sankara liberò davanti al mondo intero, ponderando con attenzione ogni singola parola, il grido di dolore di miliardi di esseri umani che soffrono sotto un sistema crudele e ingiusto: “Parlo in nome delle madri che nei nostri Paesi impoveriti vedono i propri figli morire di malaria o di diarrea, senza sapere dei semplici mezzi che la scienza delle multinazionali non offre loro, preferendo investire nei laboratori cosmetici o nella chirurgia plastica a beneficio del capriccio di pochi uomini e donne il cui fascino è minacciato dagli eccessi di assunzione calorica nei loro pasti, così abbondanti e regolari da dare le vertigini a noi del Sahel”.
L’Africa di Thomas Sankara, Carlo Batà
Sankara è il sogno africano. Presidente per quattro anni del Burkina Faso, alla ricerca del riscatto per un intero continente, la sua è la storia di un’esperienza rivoluzionaria in uno dei Paesi più poveri dell’Africa: il Burkina Faso. Una rivoluzione senz’armi, fatta di coraggio e speranza, imboccando una via autonoma di sviluppo osteggiata sistematicamente da Banca Mondiale e FMI.
“L’Africa agli africani!”, urlava a un mondo sordo Thomas Sankara alla metà degli anni Ottanta. La guerra fredda era agli sgoccioli, le speranze sorte dopo l’affrancamento dal dominio coloniale –il 1960 era stato dipinto come l’anno dell’Africa tra proclami e belle parole– erano state ormai strozzate da decenni di sfruttamento economico, disarticolazione sociale e inerzia politica. Le multinazionali invadevano le ricche terre d’Africa, mentre gli Stati del Nord del mondo imponevano condizioni commerciali che impedivano lo sviluppo dei Paesi africani, schiacciati tra debito estero e calamità naturali.
Il 4 agosto 1983, in Alto Volta, iniziava l’esperienza rivoluzionaria di Thomas Sankara, capitano dell’esercito voltaico giunto al potere con un colpo di stato incruento e senza spargimento di sangue. Il Paese, ex colonia francese, abbandonò subito il nome coloniale e divenne Burkina Faso, che in due lingue locali, il moré e il dioula, significa “Paese degli uomini integri”. Ed è dall’integrità morale che Sankara partì per tagliare i ponti con un triste passato e con deprimente presente. Pochi dati illustrano quanto grave fosse la situazione: tasso di mortalità infantile del 187 per mille (ogni cinque bambini nati, uno non arrivava a compiere un anno), tasso di alfabetizzazione al 2%, speranza di vita di soli 44 anni, un medico ogni 50.000 abitanti.
“Non possiamo essere la classe dirigente ricca in un Paese povero”, era solito ripetere Sankara, che visse un’infanzia di miseria (“Quante volte i miei fratelli e io abbiamo cercato qualcosa da mangiare nelle pattumiere dell’Hotel Indépendance”) e povero, come gli altri burkinabè, è sempre rimasto. Le auto blu destinate agli alti funzionari statali, dotate di ogni comfort, vennero sostituite con utilitarie, ai lavori pubblici erano tenuti a partecipare anche i ministri.
Sankara stesso viveva in una casa di Ouagadougou, la capitale del Paese, che per nulla si differenziava dalle altre; nella sua dichiarazione dei redditi del 1987 i beni da lui posseduti risultavano essere:
- una vecchia Renault 5,
- libri,
- una moto,
- quattro biciclette,
- due chitarre,
- mobili
- un bilocale con il mutuo ancora da pagare.
“È inammissibile”, sosteneva, “che ci siano uomini proprietari di quindici ville, quando a cinque chilometri da Ouagadougou la gente non ha i soldi nemmeno per una confezione di nivachina contro la malaria”.
Negli stessi anni i suoi omologhi si trinceravano in lussuose ville o agli ultimi piani dei migliori hotel, lontani anni luce dai bisogni quotidiani della popolazione. Per esempio il presidente della Costa d’Avorio, Felix HouphouëtBoigny, aveva fatto costruire in pieno deserto una pista di pattinaggio su ghiaccio per i propri figli. Quando alcuni capi di Stato si offrirono per donare a Sankara un aereo presidenziale, la risposta fu che era meglio fare arrivare in Burkina Faso macchinari agricoli. E la terra burkinabè non è mai stata particolarmente fertile, inaridita dall’Harmattan, il vento secco proveniente dal deserto del Sahara che lambisce i confini settentrionali del Paese.
Per ridare impulso all’economia si decise di contare sulle proprie forze, di vive re all’africana, senza farsi abbagliare dalle imposizioni culturali provenienti dall’Europa: “Non c’è salvezza per il nostro popolo se non voltiamo completamente le spalle a tutti i modelli che ciarlatani di tutti i tipi hanno cercato di venderci per anni”. “Consumiamo burkinabè”, si leggeva sui muri di Ouagadougou, mentre per favorire l’industria tessile nazionale i ministri erano tenuti a vestire il faso dan fani, l’abito di cotone tradizionale, proprio come Gandhi aveva fatto in India con il khadi.
Le magre risorse vennero impiegate per mandare a scuola i bambini e le bambine –nel 1983 la frequenza scolastica era attorno al 15%– e per fornire cure mediche ai malati, organizzando campagne di alfabetizzazione e di vaccinazione capillare contro le infermità più diffuse come la febbre gialla, il colera e il morbillo. L’obiettivo era di fornire 10 litri di acqua e due pasti al giorno a ogni burkinabè, impedendo che l’acqua finisse nelle avide mani delle multinazionali francesi o statunitensi e cercando finanziamenti che fossero funzionali allo sviluppo idrogeologico del Paese, non al profitto di pochi uomini d’affari.
Il Burkina Faso divenne un esempio per le altre nazioni, governate da élite corrotte e supine ai dettami provenienti dagli istituti economici internazionali. Se un piccolo Paese, condannato anche dalla geografia (il deserto avanzava verso sud di sette chilometri all’anno mangiandosi campi coltivati; esiste un solo corso fluviale e non c’è alcuno sbocco sul mare) riusciva a levare il proprio grido di dolore e di insofferenza e a dimostrare che i problemi che affliggevano l’Africa si potevano risolvere, cosa avrebbero potuto fare Paesi con immense risorse naturali? Il 15 ottobre 1987 Sankara, che a dicembre avrebbe compiuto 38 anni, veniva ucciso: troppo scomodo, troppo generoso, troppo attento alle esigenze della povera gente. Quando i giovani africani cominciarono a chiedere ai propri governanti di seguire l’esempio di Sankara, il complotto prese forma e coinvolse chi, in Burkina Faso, in Africa e in Europa, non poteva tollerare la sua indisciplina e la sua semplicità.
In quattro anni Sankara aveva invitato i Paesi africani a non pagare il debito estero per concentrare gli sforzi su una politica economica che colmasse il ritardo imposto da decenni di dominazione coloniale. Dominazione che era anche culturale: “Per l’imperialismo”, affermava, “è più importante dominarci culturalmente che militarmente. La dominazione culturale è la più flessibile, la più efficace, la meno costosa. Il nostro compito consiste nel decolonizzare la nostra mentalità”.
Ecco così spiegato l’impulso dato al Festival Panafricaine du Cinéma de Ouagadougou (Fespaco), la più importante rassegna continentale, con il fine di sviluppare la cinematografia locale a scapito di quella europea, uno dei tanti strumenti per legittimare la superiorità dei “bianchi” e l’inferiorità degli Africani. Nel 1986, durante i lavori della 25esima sessione dell’Organizzazione per l’Unità Africana (OUA) tenutasi a Addis Abeba, Sankara espresse in modo molto semplice perché il pagamento del debito doveva essere rifiutato: “Noi siamo estranei alla creazione di questo debito e dunque non dobbiamo pagarlo. […] Il debito nella sua forma attuale è una riconquista coloniale organizzata con perizia. […] Se noi non paghiamo, i prestatori di capitali non moriranno, ne siamo sicuri; se invece paghiamo, saremo noi a morire, possiamo esserne altrettanto certi”.
Sempre a Addis Abeba, Sankara invocò il disarmo, proponendo ai Paesi africani di smettere di acquistare armi e di dissanguarsi in dispute fomentate dall’estero per protrarre l’arretratezza e la dipendenza del continente. L’invito era di adottare misure a favore dell’occupazione, della tutela ambientale, della pace tra i popoli, della salute. A New York, qualche mese prima, davanti all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, Sankara aveva tuonato contro l’ipocrisia di chi fornisce aiuti ai Paesi in via di sviluppo (mentre per altre vie si inviano armi) e contro l’egoismo di chi, per esempio, si rifiuta di investire nella ricerca contro la malaria – che in Africa provoca ogni anno milioni di morti – solo perché è una malattia che non riguarda i Paesi del nord del mondo. “Ci sentiamo una persona sola con il malato che ansiosamente scruta l’orizzonte di una scienza monopolizzata dai mercanti di armi. […] Quanto l’umanità spreca in spese per gli armamenti a scapito della pace!”.
Sankara espresse la convinzione che per eliminare i lasciti coloniali fosse indispensabile avviare un processo di unione di tutti gli Stati (dal Maghreb al Capo di Buona Speranza) del continente, che doveva diventare un’entità politica coesa e rispettata sul piano internazionale: “Mentre moriamo di fame e nel nostro Paese ci sono migliaia di disoccupati, altrove non si riescono a sfruttare le risorse della terra per mancanza di manodopera. Se ci fosse maggiore cooperazione, potremmo arrivare all’autosufficienza alimentare e non dovremmo più dipendere dagli aiuti internazionali”.
Primo passo era la fine dell’apartheid in Sudafrica, dove la minoranza “bianca” godeva in realtà del sostegno economico dei Paesi occidentali. Sankara ebbe parole di rimprovero per tutti, a partire da François Mitterrand: “Che senso ha organizzare marce contro l’apartheid, mentre si producono e si vendono armi al Sudafrica?”.
Forse non è un caso che Sankara venne ucciso quattro giorni dopo che a Ouagadougou si era tenuta una Conferenza panafricana contro l’apartheid. Il “Président du Faso”, come viene ancora oggi ricordato dai burkinabè, si è sacrificato dimostrando che è possibile rispondere, all’africana, ai problemi dell’Africa, con chiarezza e talvolta ingenuità, come quando chiese che “almeno l’1% delle somme colossali destinate alla ricerca spaziale sia destinato a progetti per salvare la vita umana”.
Dinanzi alle Nazioni Unite Sankara liberò davanti al mondo intero, ponderando con attenzione ogni singola parola, il grido di dolore di miliardi di esseri umani che soffrono sotto un sistema crudele e ingiusto: “Parlo in nome delle madri che nei nostri Paesi impoveriti vedono i propri figli morire di malaria o di diarrea, senza sapere dei semplici mezzi che la scienza delle multinazionali non offre loro, preferendo investire nei laboratori cosmetici o nella chirurgia plastica a beneficio del capriccio di pochi uomini e donne il cui fascino è minacciato dagli eccessi di assunzione calorica nei loro pasti, così abbondanti e regolari da dare le vertigini a noi del Sahel”.
L’Africa di Thomas Sankara, Carlo Batà
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