L’evoluzione della rivoluzione cubana fino a stabilire un sistema di economia pianificata gettò le basi per uno sviluppo economico e per alcuni progressi sociali che sarebbero stati impensabili sotto il capitalismo. Perfino oggi, nonostante l’embargo economico, commerciale e finanziario degli Usa e la caduta dei regimi dell’Est con i quali Cuba aveva la gran parte delle sue relazioni commerciali, è significativo l’abisso tra il livello della sanità, dell’istruzione e degli altri servizi sociali raggiunto da Cuba rispetto ad altri paesi centroamericani e perfino rispetto ai paesi capitalisti più sviluppati dell’America latina. L’eliminazione del capitalismo nell’isola portò enormi vantaggi ma anche nuove contraddizioni. Alcune derivano dal fatto che l’economia predominante nel mondo continua ad essere capitalista e che l’economia del paese sia stata modellata, nel corso di molti decenni prima della rivoluzione, dalla divisione mondiale del lavoro che aveva assegnato a Cuba il ruolo di produttore di zucchero. Altre contraddizioni provenivano dal carattere specifico di una società che rompe con il capitalismo, ma che non è ancora socialista.
La transizione al socialismo: alcune considerazioni teoriche
Una questione elementare della teoria marxista è che il socialismo, inteso nel senso di una tappa specifica dello sviluppo sociale dell’umanità, non viene automaticamente come conseguenza della soppressione del capitalismo. Quello che è invece automatico, improvviso, è l’abbattimento della borghesia in quanto classe dominante, ovvero il fatto di togliere a questa classe il potere economico e politico che le conferisce il controllo dell’apparato statale. Nella rivoluzione cubana, come abbiamo visto, l’espropriazione economica della borghesia ebbe bisogno di un atto ulteriore, che permise così l’instaurarsi di un’economia pianificata e sancì la soppressione del capitalismo sull’isola. Un sistema di economia pianificata però non è di per sé il socialismo, è solo la precondizione per raggiungerlo.
Una differenza fondamentale tra una società socialista e una società in transizione verso il socialismo è che in quest’ultima permane il pericolo della restaurazione del capitalismo. Nonostante l’abbattimento del potere della borghesia persistono fattori esterni e interni che possono arrivare a frenare il processo e a farlo retrocedere. Solo capendo la natura specifica di una società in transizione tra il capitalismo e il socialismo, con i pericoli e le deviazioni sempre in agguato, si può apprezzare appieno l’importanza del fatto che la classe operaia giochi un ruolo cosciente in questo processo. La democrazia operaia è qualcosa di indispensabile, non un lusso, un’opzione, in funzione del tipo di via al socialismo che ogni paese scelga di perseguire. La lotta per l’estensione della rivoluzione in altri paesi, al pari della democrazia operaia, è l’altra direzione fondamentale verso cui una società in transizione deve dirigersi, se non vuole essere soffocata dai limiti imposti dallo Stato nazionale.
L’impraticabilità del socialismo in un paese solo
In realtà l’idea che sia possibile costruire il socialismo in un solo paese, propugnata per la prima volta da Stalin, riflettendo il carattere conservatore e miope della burocrazia di cui era il massimo rappresentante, è totalmente inconsistente e vìola i princìpi più elementari della teoria marxista.
La teoria del socialismo in un solo paese – che critichiamo fermamente – non ha niente a che vedere con la ovvia necessità per ogni militante rivoluzionario, di difendere le conquiste rivoluzionarie raggiunte in qualsiasi paese in cui la classe operaia prenda il potere. Se la classe operaia raggiunge il potere in un dato paese, tutti i lavoratori in ogni parte del mondo devono lottare per difendere questa conquista ad ogni costo. Quello di assicurare la sopravvivenza di uno Stato operaio è un elementare dovere rivoluzionario, ma ciò non contraddice l’idea che la rivoluzione socialista possa trionfare solo su scala mondiale. Comprendere che il socialismo è possibile solo se è internazionale è il fondamento stesso dell’internazionalismo proletario. Questa idea, in pratica, implica che una rivoluzione, che necessariamente comincia in un paese, non possa rimanere confinata dentro le sue frontiere nazionali se non vuole rimanere soffocata.
L’economia mondiale è un organismo dotato di vita propria, non semplicemente la somma delle economie nazionali. La tendenza espansiva alla globalizzazione è un fenomeno che accompagna il capitalismo dalla sua nascita – come spiega Marx nel Manifesto Comunista – sulla base della spinta impressa dal commercio mondiale e dalla divisione internazionale del lavoro. Il problema per lo sviluppo dell’umanità, e in particolare nei paesi economicamente arretrati, non risiede nella globalizzazione o, per usare la terminologia classica del marxismo, nella internazionalizzazione del processo di produzione e scambio, ma nel dominio asfissiante che l’imperialismo esercita per mezzo di essa.
Da un punto di vista rivoluzionario e marxista il carattere internazionale conferito allo sviluppo delle forze produttive costituisce il punto di partenza per la costruzione del socialismo, ovvero l’internazionalizzazione getta le basi affinché, con un’economia pianificata a livello mondiale, i progressi dell’umanità possano essere vertiginosi. Pertanto, in questo senso, ha un contenuto progressista. Il vero ostacolo per il progresso sociale è la proprietà privata dei mezzi di produzione e la camicia di forza dello Stato nazionale, che è l’espressione materiale degli interessi nazionali delle varie borghesie.
La stella polare che ha guidato la politica di Lenin e dei bolscevichi in ogni fase della rivoluzione era che il compito più urgente e necessario per la stessa sopravvivenza dello stato operaio doveva essere l’estensione della rivoluzione ad altri paesi. Questa idea era solidamente radicata non solo tra i dirigenti e tra i militanti bolscevichi, ma anche in ampi settori del proletariato rivoluzionario. La Russia era un paese che ereditava dal capitalismo enormi elementi di ritardo economico e sociale. L’estensione della rivoluzione alla Germania, all’epoca già tra i paesi capitalisti più sviluppati, avrebbe permesso di accelerare notevolmente il passo dello sviluppo economico e migliorare le condizioni di esistenza delle masse sovietiche. Ciò aveva implicazioni politiche più importanti di quanto si sia portati a pensare perché lo sviluppo della tecnica e la riduzione dell’orario di lavoro dovevano essere una leva fondamentale per permettere e spingere alla partecipazione cosciente la classe operaia nel compito di costruzione del socialismo sovietico.
L’internazionalismo di Lenin non era astratto, ma concreto. Tutte le sue energie a partire dalla capitolazione della II Internazionale di fronte alla guerra, nell’agosto del 1914, furono dedicate a forgiare le forze necessarie per costruire una nuova internazionale. La III Internazionale, il partito mondiale della rivoluzione socialista, fu la concretizzazione dell’internazionalismo dei bolscevichi. L’Internazionale era allo stesso tempo lo strumento necessario per assicurare la sconfitta del capitalismo mondiale e l’unico modo per difendere la vittoria dell’Ottobre e l’Urss.
Lenin aveva aspramente combattuto le illusioni sulla presunta “costruzione del socialismo in un solo paese” ogni qualvolta emergesse una sola possibilità che il carattere internazionale della rivoluzione fosse negato. In innumerevoli scritti si ripropone costantemente questo leit-motiv. In una occasione, ad esempio, affermò: “Voi sapete bene fino a che punto il capitale è una forza internazionale, fino a che punto le fabbriche, le imprese e i commerci capitalisti più importanti sono tra loro vincolati in tutto il mondo, e conseguentemente è impossibile battere definitivamente il capitalismo in un solo luogo. Si tratta di una forza internazionale e per batterla definitivamente è necessaria l’azione comune degli operai su scala internazionale. Da quando abbiamo combattuto i governi repubblicani borghesi in Russia nel 1917, da quando abbiamo conquistato il potere dei soviet nel 1917, non abbiamo mai smesso di segnalare che l’obiettivo essenziale, la condizione fondamentale per la nostra vittoria risiedeva nell’estensione della rivoluzione quanto meno in alcuni paesi avanzati”.
Lo Stato e il periodo della transizione
In una società in transizione, che ancora non è socialista, e che in una certa misura trascina ancora con sé determinati aspetti del proprio recente passato capitalista, è fondamentale prestare attenzione alle caratteristiche che deve avere il nuovo Stato operaio.
Marx e Lenin erano perfettamente coscienti del fatto che il socialismo avesse bisogno di un periodo di transizione, durante il quale la classe operaia organizzata come classe dominante ha bisogno ancora di esercitare la propria coercizione sulle vecchie classi possidenti, la borghesia e i latifondisti. Ma la dittatura del proletariato, o in termini più attuali, la democrazia operaia, non rappresenta uno Stato alla vecchia maniera. Si tratta semmai di uno Stato le cui funzioni prettamente repressive si estinguono nella misura in cui le classi vadano scomparendo. In una situazione in cui non fosse più necessaria la repressione, venendo meno la resistenza dei capitalisti e delle vecchie classi possidenti, lo Stato in quanto tale si sarebbe progressivamente dissolto.
Noi marxisti non intendiamo il socialismo come un processo nel quale lo Stato si rafforza. Al contrario, il socialismo è una fase di transizione nella quale lo Stato, ovvero in questo caso lo Stato operaio, perde via via le sue funzioni e si dissolve. In Stato e rivoluzione, Lenin riassunse quelle che riteneva essere le condizioni per un regime di democrazia operaia sano, che potesse assicurare la transizione dal capitalismo al socialismo:
1) Tutto il potere ai soviet, cioè ai consigli degli operai, dei soldati e dei contadini.
2) Tutti i funzionari devono essere eleggibili e revocabili in qualsiasi momento e non riceveranno un salario maggiore a quello di un operaio qualificato.
3) Tutte le cariche nell’amministrazione devono essere a rotazione. Nelle parole di Lenin: “Anche una cuoca può essere primo ministro”.
4) Nessun esercito permanente, che deve essere sostituito da una milizia operaia.
L’emergere della burocrazia in Russia
Gli avvenimenti successivi alla rivoluzione d’Ottobre non si svilupparono come avevano previsto i bolscevichi. L’ondata rivoluzionaria che si scatenò in Europa e che colpì numerosi paesi non portò ad alcun successo. In Germania la rivoluzione fallì a causa del tradimento della socialdemocrazia che si comportò da principale sostegno del regime capitalista. L’assassinio dei più importanti leader del proletariato tedesco, Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht fu un duro colpo per le giovani forze del comunismo in Germania e per l’insieme dell’Internazionale.
Per un lungo periodo la rivoluzione russa rimase isolata mentre all’interno dell’Urss si verificò un profondo processo di sfinimento della classe operaia. La rivoluzione era stata una grande divoratrice di energie, seguita dalla guerra civile e da quella contro l’intervento di ventuno eserciti stranieri. Decine di migliaia tra i migliori quadri comunisti perirono sui campi di battaglia. In questo contesto lo Stato sovietico dovette basarsi su un’economia di guerra che impose condizioni di vita anche più dure di quelle che esistevano sotto lo zarismo.
Il riflusso del moto di “orgoglio plebeo” – parafrasando Trotskij – che era stato il sostegno di tutto il processo rivoluzionario e della difesa della rivoluzione, indebolì il controllo sull’apparato dello Stato che la classe operaia esercitava con la sua attività e la sua partecipazione. In questo contesto i settori più passivi della società, i funzionari e la gran quantità di ufficiali smobilitati e privi di una indicazione precisa su quali avrebbero dovuto essere i loro compiti una volta terminata la guerra, cominciarono ad acquisire maggiore indipendenza e coscienza del loro ruolo privilegiato.
L’ultima battaglia di Lenin, quando già era gravemente ammalato, fu dedicata a combattere questo fenomeno di crescente burocratizzazione dello Stato. Come Marx aveva segnalato da tempo, in mezzo alla miseria, alla necessità e alla lotta per la sopravvivenza quotidiana era inevitabile che “tutta la vecchia immondizia” cominciasse a venire a galla. In queste condizioni oggettive era estremamente ingannevole parlare di socialismo, cosa che Lenin aveva ben presente quando avvertiva con la consueta chiarezza i suoi compagni dei pericoli che minacciavano il giovane Stato operaio sovietico: “Si dice che era necessario un apparato statale – scrive Lenin nella lettera Meglio meno ma meglio – Da dove proviene questa convinzione? Non sarà per caso dallo stesso apparato russo che, come ho segnalato in un altro capitolo del mio diario, prendemmo dallo zarismo ungendolo con dell’olio sovietico? Senza dubbio questa misura si sarebbe dovuta rinviare fino a quando non avessimo potuto garantire un apparato autonomo. Ma adesso dobbiamo ammettere coscientemente il contrario: l’apparato dello Stato che chiamammo nostro non lo è ancora, di fatto, ma ci è abbastanza estraneo, è una mescolanza borghese e zarista e durante gli ultimi cinque anni non c’è stata nessuna possibilità di liberarcene perché non abbiamo potuto fare affidamento sull’aiuto di altri paesi e perché durante la maggior parte del tempo siamo stati occupati in affari militari e lottando contro la fame”.
La morte di Lenin impedì tragicamente che egli potesse esercitare tutta la sua autorità politica e morale in questa lotta, ciò accelerò il soffocamento della democrazia operaia russa da parte della reazione burocratica di cui Stalin si fece principale interprete. Il risultato fu l’affermazione di uno Stato burocratico e oppressivo. Nonostante la sconfitta e la completa degenerazione della direzione stalinista, le tradizioni bolsceviche di partecipazione della classe operaia russa non erano dimenticate e avrebbero potuto riemergere in qualsiasi momento. Per questo, per il proprio definitivo consolidamento, la burocrazia doveva recidere ogni legame vivo con le tradizioni rivoluzionarie, liquidare fisicamente qualsiasi referente che ricordasse e potesse interdire il ruolo della burocrazia nella società, perché l’esistenza di una casta burocratica privilegiata non era un ingrediente necessario ma semmai un ostacolo al processo di transizione al socialismo.
Nei primi tempi della rivoluzione Lenin aveva ben chiaro come la scarsità di tecnici rendesse inevitabile l’utilizzo intelligente del personale tecnico qualificato, anche di chi fosse stato ostile al governo dei soviet. Per questo motivo fu una scelta obbligata quella di mantenere una certa divaricazione salariale. Perfino Trotskij, che dovette costruire l’Armata rossa praticamente dal nulla, attinse dalle conoscenze degli ufficiali del vecchio esercito zarista a fini rivoluzionari. In ogni caso però si stabiliva un limite ragionevole alle differenze salariali e, cosa ancora più importante, le decisioni politiche non dipendevano da questo settore che viveva in condizioni più agiate, ma dall’avanguardia rivoluzionaria e dalla massa degli operai e dei contadini a cui era affidato il compito di controllare cosa facesse questo apparato.
Nella misura in cui la burocrazia prendeva coscienza dei propri privilegi, essa cominciò a sopprimere la democrazia operaia nel partito e nei soviet e rese impossibile il controllo da parte dei lavoratori della produzione (sostituendo il controllo operaio con la gestione burocratica), il pericolo di un’involuzione sociale si fece a quel punto ancora più forte.
Il ruolo asfissiante e parassitario della burocrazia fu reso meno evidente per un lungo periodo dallo sviluppo delle forze produttive assicurato dalla superiorità della pianificazione economica sull’anarchia capitalista, ma inevitabilmente si raggiunse il punto in cui gli sprechi e la malgestione burocratica neutralizzarono totalmente i progressi dell’economia pianificata. Ben lontani dal voler rinunciare agli enormi privilegi accumulati, i burocrati finirono per decidere che l’impasse non era causato dal loro dominio soffocante, ma fosse dovuto alla stessa economia pianificata. In questo modo imboccarono il percorso che li avrebbe portati a capitolare di fronte alla restaurazione del capitalismo, con la speranza di conservare i propri privilegi convertendosi a loro volta in capitalisti.
Il tradimento finale da parte della burocrazia “comunista” provocò una catastrofe sociale e politica che travolse la vita di centinaia di milioni di lavoratori in Russia e nelle ex repubbliche sovietiche al momento della disgregazione dell’economia pianificata.
Differenze tra la rivoluzione russa e la rivoluzione cubana
Nel caso di Cuba, per le particolarità che qui ebbe il processo rivoluzionario, la classe operaia non arrivò mai a giocare un ruolo dirigente nella rivoluzione e nello Stato cubano. Mentre in Russia i soviet costituivano l’embrione dello Stato operaio già prima della rivoluzione, ed era tramite questi che la classe operaia partecipava e avanzava nella sua coscienza – aiutata in questo processo dal ruolo determinante della politica difesa dai bolscevichi – l’elemento di contropotere a Cuba, invece, fu l’esercito guerrigliero. Ciò introdusse necessariamente distorsioni fin dal principio.
Lo sciopero generale a L’Avana nei primi giorni del gennaio 1959 fu fondamentale per far fallire il piano che, con la formazione di un governo militare provvisorio, puntava ad allontanare la guerriglia dal potere e a dare continuità ad un regime batistiano senza Batista. Nonostante il carattere decisivo che ebbe l’intervento della classe operaia per il successo della rivoluzione, essa non aveva nelle proprie mani la direzione politica del movimento rivoluzionario, così come la concepiva Lenin e come in effetti era accaduto nella rivoluzione russa.
Era difficile che i dirigenti del M26-J potessero sviluppare una concezione leninista del ruolo della classe operaia nella lotta per il socialismo quando, in realtà, il socialismo non era neppure tra gli obiettivi da loro considerati, tenendo anche presente che le idee del socialismo erano state infangate ai loro occhi dalla deplorevole politica seguita dal Psp. Certamente la rivoluzione risvegliò la classe operaia portandola a partecipare alla lotta politica.
L’autorità morale e politica conquistata da Fidel, dal Che e dagli altri dirigenti rivoluzionari era immensa e la partecipazione delle masse cubane al processo rivoluzionario fu piena e reale. L’entusiasmo rivoluzionario si manifestò con ancora maggiore chiarezza dopo la vittoria della guerriglia e durante tutta la fase di scontro con la borghesia e l’imperialismo che sfociò nelle nazionalizzazioni e si concluse nella sconfitta dell’invasione imperialista. L’enorme base d’appoggio sociale che aveva il regime instaurato dai guerriglieri è fuori discussione, ma questo di per sé non significava che a Cuba esistesse un regime di democrazia operaia come nei primi anni della rivoluzione russa, un regime che fu conseguenza diretta del ruolo che aveva giocato la classe operaia nel periodo precedente alla conquista del potere.
Nel 1959 il regime esistente nell’Urss ormai non aveva più niente a che spartire con quello che esisteva quando era in vita Lenin. Già da tempo Stalin aveva dissolto la Terza Internazionale, nonostante era stata uno dei contributi politici più importanti della rivoluzione russa e di Lenin al socialismo mondiale. Che importanza poteva avere l’Internazionale per i burocrati se era possibile raggiungere il socialismo in un solo paese? Se la burocrazia sovietica volle trasmettere alcunché alla rivoluzione cubana, queste non furono le tradizioni bolsceviche, ma le deformazioni burocratiche che corrodevano come un cancro dall’interno le ultime vestigia della rivoluzione russa, tra cui la più importante era l’economia pianificata.
Per i bolscevichi il partito era uno strumento di organizzazione e di intervento fondamentale. Senza il partito bolscevico anche il ruolo dei soviet, gli organi di partecipazione democratica dei lavoratori durante il periodo di dualismo di potere e i primi anni di autentica democrazia sovietica, sarebbe stato diverso. Inoltre il partito faceva da cornice al dibattito permanente e democratico. La discussione, perfino le divergenze più aspre, non furono mai sinonimo di disgregazione, e questa era la grande forza del centralismo democratico, il regime vigente all’interno del partito, forgiato da decenni di lotta politica rivoluzionaria.
In contrasto con la traiettoria e il ruolo giocato dal partito bolscevico, la direzione del Psp ebbe un ruolo deplorevole. Il nuovo Partito comunista cubano non verrà fondato che sette anni dopo la rivoluzione e fino al 1976, secondo la stessa storiografia ufficiale, non sono stati creati organismi di potere popolare. In Russia, prima della sconfitta del capitalismo, esistevano già i soviet, che erano organismi di potere operaio, e che costituiranno poi la base del nuovo Stato. In qualche modo la rivoluzione cubana si trovò a pagare un prezzo per la propria audacia, per un fatto veramente particolare: il capitalismo fu abolito sull’isola senza che la classe operaia avesse un ruolo dirigente e senza che alla guida del processo rivoluzionario esistesse un partito di tipo bolscevico, ma al contrario, un movimento di carattere democratico rivoluzionario, basato fondamentalmente sui contadini poveri.
L’importanza della democrazia operaia
Non si tratta di alimentare polemiche sterili ma questo punto riveste un’enorme importanza pratica per il futuro della rivoluzione cubana. Nel capitalismo la necessità di accumulare profitti da parte dei capitalisti è ciò che muove l’economia e modella la sovrastruttura politica. In una economia pianificata il compito di dare impulso al funzionamento del sistema spetta al ruolo cosciente della classe operaia, che deve godere della più assoluta democrazia per gestire, amministrare e controllare ogni istante del processo produttivo e del funzionamento dell’apparato statale. In caso contrario il sistema sarà soffocato per l’inefficienza e gli sprechi che prima o poi lo porteranno al collasso, come accadde nell’Urss e nell’Est europeo.
L’importanza del controllo democratico della classe operaia è facile da capire. Sotto il capitalismo è il meccanismo della domanda e dell’offerta inerente all’economia di mercato, che regola il peso che devono avere i differenti rami produttivi e che esercita un controllo sulla qualità dei prodotti, ecc. Questo meccanismo non è in grado di evitare, ovviamente, le crisi di sovrapproduzione, lo sfruttamento o le crescenti disuguaglianze e neppure la cattiva qualità di determinate merci, ma questo è il meccanismo che esiste nel mercato e, a suo modo, funziona.
Quando si sopprime il mercato organicamente legato al capitalismo, è necessario sostituirlo con qualcosa, che non può essere che la partecipazione democratica dei lavoratori nell’assunzione delle decisioni ad ogni livello dell’economia e della politica. I compiti di controllo e decisione sotto un’economia pianificata necessitano di un’ampia partecipazione democratica della classe operaia. Non è un optional, un fatto decorativo, come se in paesi differenti si potesse scegliere un “modello” di socialismo con o senza democrazia operaia, a seconda delle “peculiarità” locali. In nessun caso i compiti della pianificazione possono basarsi esclusivamente su una minoranza specializzata senza che questo comporti il pericolo di un’involuzione burocratica.
Nel 1966 K. S. Karol visitò una delle più grandi fabbriche di nichel dell’isola. Riportiamo alcune righe del suo interessante resoconto: “Passammo poi all’ufficio del sindacato per discutere sui rapporti di lavoro. C’era qualche forma di gestione o di controllo operaio? Sorpresa e imbarazzo: ‘Un’industria nazionalizzata è di per sé socialista e funziona in accordo con il popolo senza bisogno di questi organismi’. Passammo ai salari il cui ventaglio ci sembrò enorme: qualche ingegnere guadagnava 1700 pesos al mese (l’equivalente di 1700 dollari), mentre l’operaio medio non superava i 100. […] Gli operai avanzano rivendicazioni salariali o di altra natura? E come? ‘Ma no. Gli operai sanno che lavorano per il popolo e si accontentano”. E qual era il compito del sindacato? ‘Entusiasmare le masse perché lavorino meglio e contribuiscano al progresso della Rivoluzione’.”
In Russia i bolscevichi stabilirono che nessun ingegnere o quadro tecnico potesse guadagnare più di quattro volte il salario di un operaio qualificato, e nel caso fossero stati membri del partito non avrebbero potuto neppure avvalersi di questo privilegio. Lenin condusse un’accanita battaglia nel X Congresso del Partito nel 1920 perché i sindacati non si convertissero in una semplice appendice dell’apparato statale, ma al contrario potessero difendere i lavoratori contro i possibili abusi che l’apparato statale avrebbe potuto commettere in quel delicato momento di transizione.
Ad ogni modo, nonostante tutte le distorsioni dovute all’assenza del controllo operaio, gli effettivi benefici dell’economia pianificata erano evidenti. Dal 1958 al 1968 il numero degli ospedali passò da 44 a 221 e la disponibilità di posti letto si raddoppiò. La stessa cosa si può dire per il numero di scuole primarie e dei bambini che le frequentavano. I passi avanti compiuti per debellare l’analfabetismo erano impressionanti. Anche per questi motivi l’appoggio sociale sul quale poteva contare il governo era indiscutibile.
L’ambiente rivoluzionario era palpabile. Quando il governo chiamò il popolo alle armi contro il tentativo controrivoluzionario nella Baia dei Porci, 200mila persone risposero all’appello, un popolo intero in armi per rispondere all’invasione imperialista. Esisteva una grande volontà di partecipazione ma le masse non avevano un canale attraverso il quale potessero esercitare un controllo sull’apparato statale della stessa rivoluzione che avevano contribuito in modo decisivo a far trionfare. I Comitati in difesa della rivoluzione, sebbene fossero luoghi in cui si esprimeva la volontà d’azione e partecipazione delle masse, non avevano, in realtà, potere decisionale sulle questioni fondamentali, ad eccezione di qualche aspetto più che altro legato alla vita nei quartieri e alla mobilitazione popolare per le manifestazioni o le altre iniziative convocate dalla direzione del Pcc.
A metà degli anni ‘70 furono create istituzioni locali, gli Organi del potere popolare (Opp), con la funzione di dirigere i programmi di investimento locale in modo da raggiungere gli obiettivi fissati dal piano generale. Il potere decisionale nell’economia però continuava ad essere concentrato in alcuni ministeri. L’elezione diretta vigeva solo per gli Opp, però sotto il controllo del Partito e con candidature da esso proposte.
La questione del partito unico
Un altro aspetto straordinariamente controverso è la convinzione che l’instaurazione di uno Stato operaio escluda l’esistenza di partiti politici e debba essere per forza un regime a partito unico. In realtà questa non è altro che una distorsione introdotta dallo stalinismo quando consolidò il suo potere nell’Urss alla fine degli anni ‘20 e negli anni ‘30.
Quando trionfò la rivoluzione d’Ottobre, Lenin e i bolscevichi non proibirono l’esistenza di altre formazioni politiche, eccetto le Centurie Nere (un’organizzazione fascista). Il primo governo sovietico fu una coalizione tra bolscevichi e socialisti rivoluzionari di sinistra.
All’interno del partito bolscevico esisteva la massima libertà di discussione che si spingeva fino a riconoscere il diritto di organizzare frazioni in caso le divergenze toccassero aspetti tattici di rilevante importanza. Questo fu il caso dei cosiddetti “Comunisti di sinistra” capeggiati da Bukharin e Preobrazhenski che difendevano la prosecuzione rivoluzionaria della guerra contro la Germania proprio mentre erano in corso le trattative di pace di Brest-Litovsk. Lenin combatté duramente il loro punto di vista ma non pensò mai di esigere la loro espulsione dal partito.
La formazione di raggruppamenti attorno a piattaforme politiche era considerata qualcosa di naturale nei periodi congressuali o quando le discussioni riguardavano questioni importanti. L’evidente e preziosa coesione ideologica del partito non fu prodotta dall’imposizione, da una ferrea struttura gerarchica o dal comando burocratico, semmai era il frutto dell’autorità politica che la direzione si era conquistata nell’arco di un ventennio in cui la spiegazione paziente, l’esempio, il sacrificio e la critica fraterna erano stati i suoi metodi abituali.
La rivoluzione russa si sviluppò in un contesto estremamente ostile. L’opposizione borghese si levò subito in armi contro il potere operaio. Lo stesso fecero altre tendenze che si definivano “socialiste”, come i socialisti rivoluzionari e una parte dei menscevichi. In queste condizioni, quando le forze della controrivoluzione imperialista si allearono con la controrivoluzione interna, che aspirava alla restaurazione del vecchio ordine zarista, i bolscevichi misero fuori legge quelle formazioni che si erano sollevate in armi contro lo Stato operaio. Si trattava di un provvedimento difensivo assolutamente giustificato. Non bandire queste formazioni avrebbe significato lasciare nelle mani della borghesia zarista e degli imperialisti un’arma potente che avrebbe permesso loro di distruggere più facilmente il potere sovietico.
Durante il X congresso del partito, in piena guerra civile e con la ribellione armata di Kronstadt in corso, i delegati bolscevichi votarono a favore del divieto temporaneo – sottolineiamo temporaneo – alla formazione di piattaforme politiche all’interno del partito. L’esigenza della massima centralizzazione e disciplina nell’azione era dettata dal momento critico che attraversava la rivoluzione.
Come abbiamo spiegato in precedenza, la combinazione di tutta una serie di sconfitte nelle rivoluzioni in Europa, la catastrofe economica che devastava l’Urss, la smobilitazione dell’Armata rossa, la stanchezza, la fame, lo sterminio di una parte considerevole dei quadri comunisti durante la guerra civile, tutti questi furono fattori che contribuirono a creare le condizioni perché una casta di burocrati acquisisse un potere crescente.
Sfruttando provvedimenti adottati in momenti di eccezionalità questa casta burocratica si sbarazzò della democrazia operaia nel partito e nelle istituzioni sovietiche.
Il fatto che fosse rimasto un solo partito non significava però che solo il proletariato rivoluzionario potesse avere il monopolio dell’espressione politica, al contrario ciò implicava che le pressioni delle classi sociali ostili al proletariato avrebbero avuto modo di esprimersi esclusivamente all’interno dello Stato e del partito unico. Il partito bolscevico, che era stato fino a quel momento senza dubbio l’espressione del proletariato rivoluzionario, fu epurato fisicamente per trasformarlo in un docile strumento nelle mani della burocrazia. Centinaia di migliaia di quadri operai e di giovani del Komsomol che si opponevano alla direzione presa da Stalin furono espulsi, perseguitati, imprigionati e uccisi. L’ideologia del “partito unico” fu la conseguenza del dominio della burocrazia in tutte le sfere della società.
Purtroppo l’esempio che avevano davanti a sé Fidel e i dirigenti della rivoluzione cubana quattro decenni dopo la rivoluzione d’Ottobre non fu il partito bolscevico di Lenin, ma il Pcus stalinizzato. Il nuovo partito comunista cubano fondato nel 1965 celebrò il suo primo congresso dieci anni dopo. Durante tutto questo tempo gli uomini incaricati della direzione erano nominati da Fidel o dai suoi più stretti collaboratori.
Nei primi trentacinque anni di vita del partito comunista cubano furono celebrati appena quattro congressi. Il paragone con il partito bolscevico dei primi anni della rivoluzione deve farci riflettere: anche durante la guerra civile i bolscevichi tenevano un congresso ogni anno.
In realtà il partito unico, come sinonimo dell’unica linea possibile, dell’assenza di un ambiente di discussione genuinamente democratico, rappresenta il terreno più fertile per l’incubazione delle forze ostili alla rivoluzione e che potrebbero allearsi alla controrivoluzione capitalista. Il caso cinese è evidente. Il partito unico non sta guidando il popolo cinese al socialismo, ma alla restaurazione capitalista.
Detto questo è anche necessario sottolineare chiaramente che la rivoluzione cubana ha tutti i diritti di difendersi dall’imperialismo e dalla controrivoluzione. La campagna cinica della borghesia mondiale si basa sulla denuncia della mancanza di libertà a Cuba, ma non è nient’altro che un ripugnante esercizio di ipocrisia. Quelli che mantengono da decenni un embargo criminale contro il popolo cubano sono gli stessi poteri, gli stessi interessi che hanno appoggiato dittature sanguinose come quella di Batista a Cuba, di Pinochet in Cile, della Giunta militare in Argentina, di Zia ul-Haq in Pakistan, di Suharto in Indonesia; sono quelli che appoggiarono la dittatura di Franco per circa quarant’anni e non si sono fermati di fronte all’esercizio della violenza più spietata per difendere i propri interessi, neppure di fronte a guerre come quella contro il Vietnam, l’Afghanistan o l’Iraq dove centinaia di migliaia di innocenti sono stati massacrati. Questi “paladini” della democrazia non hanno nessuna autorità morale per criticare Cuba.
Da marxisti, respingiamo le condanne ipocrite da parte delle “democrazie” occidentali. La storia dimostra che quando vengono messi in pericolo i loro interessi imperialistici, le potenze occidentali sono sempre state pronte a premiare chi distrugge la libertà di espressione e di organizzazione del popolo. Che altro è la campagna di attacco ai diritti democratici orchestrata dall’amministrazione Bush ed altri governi occidentali, prendendo per scusa la “guerra al terrorismo”?
Quando si parla di democrazia bisogna essere concreti. Da un punto di vista marxista ci sono solo due democrazie possibili nell’epoca moderna: la democrazia borghese e quella operaia. Nella democrazia borghese è contemplato il diritto di esprimere la propria opinione, sempre posto che il potere di decisione sia riservato alle banche e alle grandi concentrazioni di capitale. Difendere questo tipo di democrazia a Cuba significa porsi apertamente nel campo della controrivoluzione. In realtà questa sarebbe una delle forme che potrebbe adottare, anche se non la più probabile, la controrivoluzione capitalista a Cuba.
La democrazia operaia invece colpisce quello che per la democrazia borghese è intoccabile: gli interessi derivanti dalla proprietà privata dei mezzi di produzione. La democrazia operaia è in realtà l’unica democrazia autentica nella quale la maggioranza della società può decidere su tutti gli aspetti fondamentali che incidono nella vita di una nazione.
Poste le condizioni di persecuzione brutale da parte dell’imperialismo a cui Cuba è soggetta, è evidente che elementi di coercizione da parte dello Stato operaio sono necessari. Non viviamo nel mondo delle favole. Quello che sosteniamo è che questa coercizione deve essere esercitata in modo efficace contro gli elementi controrivoluzionari dentro e fuori del paese e che in realtà questa lotta sarebbe molto più efficace se si combinasse con una genuina democrazia operaia.
Non chiediamo libertà per i sabotatori della rivoluzione, per gli agenti infiltrati dall’imperialismo. Questo è un elemento fondamentale. Ma veramente la rivoluzione è minacciata solo da questi elementi? Secondo noi non è così. Nel campo delle forze conservatrici che mettono in pericolo le conquiste della rivoluzione si trovano anche quei settori che si appropriano di parte della ricchezza nazionale per sostentare il loro ruolo privilegiato nella società. In realtà questi settori non giocano nessun ruolo sociale nel processo produttivo e, in un determinato momento potrebbero decidere di scommettere sulla prospettiva di una restaurazione del capitalismo. Anche per questi settori la democrazia operaia rappresenta un pericolo mortale, perché metterebbe a nudo i loro privilegi, legali e illegali.
Svolte nella politica internazionale
Sarebbe tuttavia sbagliato affermare che il governo cubano seguisse alla lettera le direttive e l’esempio dell’Urss e che nessuna divergenza emergesse con la burocrazia del Cremlino. La necessità di difendersi dalle forze controrivoluzionarie tanto all’interno come all’esterno del paese favorì lo sviluppo nei primi anni di una politica estera piuttosto radicale. La seconda dichiarazione dell’Avana ne è la principale testimonianza, con il suo appello alla rivoluzione in America latina e la denuncia della politica conciliatrice portata avanti dai vari partiti comunisti a livello continentale. Questa politica della direzione cubana era un portato della rivoluzione e, soprattutto nel primo periodo, della spinta rivoluzionaria delle masse.
Gli appelli rivoluzionari di Guevara e Fidel, soprattutto negli anni ’60 e ’70, suscitarono l’entusiasmo di molti giovani e lavoratori nel mondo intero. I due leader erano, e sono tuttora, punti di riferimento per la gioventù ribelle, mentre sono stati dimenticati i grigi rappresentanti della burocrazia russa come Breznev, Chernenko o Gorbaciov. Il governo cubano ha sostenuto con armi, soldati e risorse economiche l’eroica lotta dei contadini e dei lavoratori dell’Angola e del Mozambico contro le forze controrivoluzionarie dei sudafricani e degli imperialisti. Queste azioni entravano in collisione ovviamente con gli atteggiamenti conservatori della burocrazia russa rispetto ai processi rivoluzionari dei paesi ex coloniali. Nonostante ciò, dopo le divergenze dei primi anni, Cuba avvicinò la sua politica estera a quella degli altri paesi del cosiddetto “socialismo reale”.
La portata di questa svolta nella politica estera del governo cubano è resa evidente da alcuni fatti. Il governo cubano approvò senza riserva l’invasione sovietica in Cecoslovacchia “per prevenire un male peggiore”, sostenendo che “la Cecoslovacchia stava scivolando verso il capitalismo”. La posizione del governo cubano si identificava completamente con la politica di Mosca e del Patto di Varsavia.
Negli anni successivi la linea di appoggio all’Urss di Fidel Castro fu mantenuta rispetto a tutti gli avvenimenti più significativi. La direzione del Pcc mantenne il silenzio più assoluto anche quando nel maggio del 1968 milioni di lavoratori occuparono le fabbriche in Francia sfidando il potere della borghesia. Nonostante la grande simpatia che i giovani e i lavoratori francesi mostrarono per la rivoluzione cubana, la direzione del Pcc sostenne pienamente la linea del Pcf contraria ad una risoluta politica socialista finalizzata alla vittoria della rivoluzione quando le condizioni erano più che favorevoli. Venne adottata la strategia della “coesistenza pacifica”, vera stella polare per la burocrazia sovietica, una politica che influenzava in modo nefasto quella dei partiti comunisti di tutto il mondo. Destabilizzare lo “status quo” con una rivoluzione socialista in Francia era l’ultima cosa che la burocrazia dell’Urss avrebbe mai potuto auspicare.
Nel corso dello stesso anno esplose la protesta studentesca in Messico, innescata dalla repressione della manifestazione del 26 luglio 1968, in commemorazione dell’assalto alla Moncada a Cuba. Il 2 ottobre centinaia di studenti vennero massacrati nella piazza di Tlatelolco (ribattezzata delle Tre Culture). Ciononostante, il 19 di quello stesso mese gli atleti cubani salutavano il presidente messicano nella cerimonia inaugurale delle Olimpiadi.
La causa di questo atteggiamento ha a che vedere più con gli interessi diplomatici cubani che con un atteggiamento di stimolo alla rivoluzione socialista messicana: il Messico era l’unico paese latinoamericano che manteneva relazioni commerciali con Cuba.
Certamente perfino uno Stato operaio ha bisogno di intessere relazioni diplomatiche che gli permettano di trarre vantaggio il più possibile dalle sue relazioni con gli altri paesi. Sarebbe una posizione dogmatica, sterile e suicida quella di negare da un punto di vista rivoluzionario che uno Stato operaio abbia il diritto di stringere determinati accordi, ad esempio commerciali, con paesi capitalisti. Il punto fondamentale da capire però a questo proposito è che mai la politica estera di uno Stato operaio deve entrare in contraddizione con la lotta generale per la rivoluzione mondiale, pena l’isolamento e la sconfitta. Nessun accordo può essere fatto a costo di pregiudicare la rivoluzione in altri paesi.
Nel 1989 la burocrazia cinese massacrò i giovani che protestavano in piazza Tien’an’men. Questi giovani protestavano cantando l’Internazionale e volevano un socialismo senza corruzione e privilegi. Anche in questo caso la direzione cubana preferì non entrare in conflitto con la Cina, così Fidel dichiarò che “la protesta degli studenti era un problema interno cinese. Le immagini non sono arrivate qui… Conosciamo tuttavia la versione ufficiale del governo cinese e non abbiamo ragioni per dubitare delle loro spiegazioni” (cfr. G. Minà, Fidel). Quasi vent’anni dopo, chi ha restaurato il capitalismo in Cina? L’esperienza storica dimostra che non sono stati gli studenti di piazza Tien’an’men, ma i burocrati che si sono macchiati del loro sangue ad aver aperto la via per il capitalismo.
La prova dei fatti ha dimostrato che la politica della burocrazia russa e di quella cinese, interamente volta a mantenere lo “status quo” nei rapporti con le potenze capitaliste, non solo non raggiunse lo scopo prefisso di contenere la controrivoluzione capitalista, ma al contrario, frustrò qualsiasi tentativo di instaurare un sistema di democrazia operaia e ostacolò lo sviluppo dei processi rivoluzionari in atto nei paesi capitalisti. Seppellendo la rivoluzione, la burocrazia accelerò il processo di restaurazione capitalista.
Tutta l’esperienza storica insegna quanto sia di vitale importanza una politica internazionale fondata sulla prospettiva della rivoluzione socialista e della lotta inconciliabile contro il capitale. Questa è l’unica strada per permettere alla rivoluzione a Cuba di avere un futuro e perché le sue conquiste storiche possano essere tutelate. La diplomazia, gli accordi temporanei con questo o quel paese, le concessioni al capitale privato, per quanto possano essere necessari in determinati momenti, non possono sostituire la lotta rivoluzionaria per il socialismo della gioventù e della classe operaia a livello mondiale.
La direzione del partito comunista cubano non si è mai pronunciata a favore di una federazione socialista, almeno per l’America latina. In occasione del primo congresso del Pcc nel 1975, Fidel Castro dichiarò che “l’America latina non era pronta per cambiamenti globali che possano portare, come a Cuba, a trasformazioni socialiste, anche se queste non sono impossibili in alcuni paesi del continente”.
Una possibilità concreta si manifestò quattro anni dopo, con la rivoluzione in Nicaragua, e persino in El Salvador, dove la guerriglia del Fmln fu molto vicina a prendere il potere. Tuttavia Fidel Castro e i leader del Pcc convinsero i dirigenti sandinisti a non seguire l’esempio cubano. Parlando in Nicaragua l’11 gennaio 1985 Fidel affermò: “Ieri abbiamo avuto la possibilità di ascoltare il discorso di Daniel Ortega e devo congratularmi con lui. Era serio e responsabile. Ha spiegato gli obiettivi del Fronte Sandinista in ogni settore – per l’economia mista, il pluralismo politico e per una legge sugli investimenti esteri – …So che c’è spazio nella vostra idea per un’economia mista. Potete avere un’economia capitalista. Quello che sicuramente non avrete è un governo al servizio dei capitalisti”. Gli avvenimenti successivi hanno smentito tristemente le previsioni di Fidel. L’assenza di un deciso orientamento verso l’economia pianificata e l’espropriazione delle oligarchie locali e delle proprietà dell’imperialismo, insieme all’isolamento della rivoluzione nicaraguense, portarono alla vittoria elettorale della reazione capeggiata da Violeta Chamorro nel 1990, la quale seppe approfittare, tra l’altro, dello scontento e della disillusione provocata da dieci anni di “economia mista” combinata con l’aggressione militare e economica degli Stati Uniti e dei Contras.
Nuove svolte nella politica economica
Dopo un periodo nel quale ci si era spinti a nazionalizzare persino i piccoli negozi, cosa assolutamente innecessaria in una economia socialista, verso la metà degli anni ’70 si realizza un nuovo cambiamento nella politica economica. Furono introdotti incentivi per la produzione, soprattutto agricola, si istituirono i “mercati liberi contadini”, dove i piccoli proprietari potevano vendere il raccolto eccedente. Si permise ai direttori delle fabbriche di concedere incentivi materiali, solitamente più alti dei salari, il tutto sotto l’insegna di concedere autonomia alle imprese, ma nella misura in cui le imprese non erano sotto il controllo dei lavoratori, l’autonomia significava l’autonomia degli amministratori. Le differenze tra i salari aumentarono e “l’egualitarismo piccolo borghese” fu pubblicamente condannato. Mentre il salario medio di un operaio di una fabbrica statale era tra 80 e 100 pesos, la retribuzione di un impiegato di livello medio era tra 2.000 e 3.000 pesos e quella di un ministro arrivava a 6.000 pesos.
Durante questi anni di riforma aumentarono sensibilmente il numero dei casi di indisciplina sul posto di lavoro, chiaro sintomo dell’insofferenza dei lavoratori di fronte ai citati premi di produzione che accrescevano le differenze salariali all’interno delle singole imprese e tra di esse. I processi per indisciplina passarono da 9.988 nel 1979 a 25.672 nel 1985. Questi processi riguardavano ogni tipo di “delitti” come gli accordi segreti tra amministratori e rappresentanti dei lavoratori per stabilire livelli di salario, ritmo e condizioni di lavoro.
La rettifica del 1986
Durante la prima metà degli anni ’80 Cuba visse una nuova e profonda crisi economica. Risultava ogni volta più difficile raggiungere il tasso di crescita economica del 4% come succedeva all’inizio della rivoluzione. Il debito estero era cresciuto dell’11% nel 1985, arrivando a 6,5 miliardi di dollari. I prezzi del nichel e dello zucchero stavano precipitando sul mercato mondiale. Il governo cubano ammetteva un tasso di disoccupazione del 6% nel 1987, mentre nel 1981 era pari solo al 3,4%.
Questa situazione convinse la dirigenza cubana che era arrivato il momento di lanciare un “processo di rettifica delle tendenze negative”. I rappresentanti delle riforme economiche degli anni precedenti furono criticati e allontanati dai posti di responsabilità. Si proibirono molte attività private considerate poco prima legali, come i mercati liberi dei contadini. Si criticò l’indebitamento estero e si arrivò perfino a parlare di una moratoria nel pagamento degli interessi sullo stesso.
Nel luglio 1986, nella decima sessione della Assemblea Nazionale, Fidel denunciò: “abbiamo creato una classe di nuovi ricchi” riferendosi al fatto che un piccolo commerciante de L’Avana poteva guadagnare fino a venti volte di più di un cardiologo. Si verificarono casi di arricchimento personale di alcuni dirigenti a livelli veramente scandalosi. Nel 1986 Manuel Sanchez Perez, viceministro incaricato dell’acquisto dall’estero di attrezzature tecniche, disertò portandosi dietro mezzo milione di dollari.
Il circolo dirigente capeggiato da Fidel Castro temeva seriamente che i settori che avevano accresciuto enormemente il loro potere economico potessero diventare una minaccia reale per la stabilità del governo. Venne fortemente ridotto il margine di autonomia degli amministratori e fu ristabilito il controllo da parte dell’apparato del Pcc. Si esortava lo sviluppo dell’industria facendo appello allo spirito di sacrificio dei lavoratori, alla coscienza rivoluzionaria e al lavoro volontario. La parola d’ordine di moda era “il migliore al timone”, ma uno dei problemi era che il “migliore” non era scelto dai lavoratori ma dalla direzione delle imprese. Si scatenò una campagna contro i “tecnocrati e i nuovi capitalisti” (cosa che contrastava evidentemente con la propaganda del partito che affermava il trionfo del socialismo da 30 anni). Si lanciarono appelli all’egualitarismo, spolverando alcuni discorsi del Che, ma era un egualitarismo che tendeva alla costante diminuzione dei salari e cercava di nascondere le misure di austerità. La caduta dell’Urss e dei regimi dell’Est europeo, nel corso degli anni ’90, ebbe un effetto devastante a Cuba, aprendo il periodo più critico per la rivoluzione dal 1959.
Jordi Rosich
Puntate precedenti:
La Revolución (1 pt)
Guerra de Guerrillas (2 pt)
¡El Capitalismo es golpeado! (3 pt)
Cuba después de la Revolución (4 pt)
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