Subcomandante Insurgente Marcos
Sorelle e fratelli, attraverso la mia voce, parla la voce dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale. E con la mia voce salutiamo uomini, donne, bambini ed anziani zapatisti, indigeni di radici maya che vivono e lottano nelle montagne del sudest messicano.
Salutiamo i popoli, le nazioni e le tribù che sono radici e sostegno di questo continente. Salutiamo i molti colori che trova in loro il colore della terra. Salutiamo i popoli indios del Nordovest del Messico che ci accolgono: i Kumiai, i Pai Pai, i Kiliwa, i Cucapá, i Tohono Odham, i Comcaá, i Pima, i Mayo Yoreme, i Raramuri, i Guarijío.
E salutiamo in particolare l’uomo e la donna Yaqui che ci ricevono e nelle cui terre e cieli si incontrano le parole delle culture originarie d’America. Salutiamo le autorità tradizionali di Vicam e degli altri popoli presenti della tribù Yaqui. Salutiamo il Congresso Nazionale Indigeno, voce e ascolto che ci convocano. Salutiamo le donne e gli uomini di Sonora, del Messico, d’America, del Mondo, che ci aiutano, appoggiano ed accompagnano.
A questo Incontro dei Popoli Indios d’America si arriva con tutto contro: le distanze, le lingue, le frontiere, i governi, le bugie, le persecuzioni, le morti e le false divisioni che colui che sta in alto ci impone. E come tutti i nostri sogni nella veglia che dall’alto ci impongono, sembrava impossibile alla vigilia, alcune ore fa, alcuni giorni fa, alcuni mesi fa, circa 515 anni fa!
Sono presenti delegazioni e rappresentanze di popoli, nazioni e tribù che danno vita all’America, dall’Alaska fino alla Patagonia. Da molti angoli arrivano l’ascolto e la parola. A volte ascolteremo il loro canto, a volte il loro silenzio. A volte vedremo il loro colore, a volte il loro ricordo. Per questo salutiamo coloro che essendoci ci sono e coloro che pur essendo qui non ci sono.
E con la memoria salutiamo, con la storia. All’altro estremo della terra messicana, nelle montagne del sudest, racconta una leggenda che, quando la luna è appena un’ombra ferita da un curvo graffio di luce, una domanda si disegna nello spazio che fecero i primi dei, quelli che partorirono il mondo, affinché la pelle crescesse sotto la carezza che allevia stancando. E racconta la leggenda che la domanda si ripete nel notturno tetto dei popoli indios di tutto il continente, quando la luna è nuova nei nostri cieli.
La stessa domanda appare nel cielo del nord dell’America, in terra Haudenosaunee, delle Nazioni Mohawk, Oneida, Cayuga, Onondaga, Seneca e Tuscarora, sul Tsoneratasekowa, il Grande Albero dalle foglie sempre nuove, passa per la terra del Wayúu e si estende fino al cielo del Mapuche, nell’estremo sud del continente.
Ogni luna nuova, una domanda antica: "Ci sarà vita per la terra, la prima madre?"
E raccontano i nostri più anziani, i guardiani della memoria, che la risposta non è stata creata quando i primi dei partorirono il mondo. Raccontano che fu lasciata da loro, dei e dee, dai creatori, come pezzo fondamentale del rompicapo del mondo.
Raccontano che la lasciarono sul tetto della terra e fecero in modo che ogni tanto apparisse, affinché non si perdesse la memoria. Dopo venne il denaro, che manda la morte, a comandare in queste terre. Portò distruzione e la chiamò “modernità”. Portò furto ed esproprio e li chiamò “civiltà”. Portò imposizione e la chiamò “democrazia”. Portò oblio e lo chiamò “moda”.
Perché, raccontano i nostri saggi, che non si riesce neanche a scorgere la domanda nelle volte del denaro in Wall Street, nelle torri di vetro delle grandi corporazioni, nei bunker dei malgoverni che feriscono tutto il continente. E raccontano che, per questo, solo i popoli originari possono leggere nel cielo questa ed altre domande che lasciò l’inizio del mondo, il primo cammino della terra.
Da allora, raccontano i nostri più antichi, molte risposte si trovano, si fanno canto, danza, lingua, colore su tessuto e pelle, parola, storia, cultura, memoria. Quello che sta in alto, il Prepotente, il denaro, ha una sola risposta, solida come il suo conto in banca, abbondante come la sua avidità, crescente come la sua ambizione. "No – risponde il denaro – non ci sarà vita per la terra". "Ci saranno affari", argomenta per non dire: "Ci sarà morte".
Invece, nei nostri popoli, nazioni e tribù originarie, la risposta è rotta, divisa in molti pezzi, sparsa nei calendari e nelle geografie, persa tra le frontiere che la morte erige e governa. 515 anni fa, il dominatore ci scoprì a volte in contrasto, divisi altre, frammentati sempre. Conquistò così il sangue diviso che era unito dalla terra. 515 anni durante i quali i nostri popoli, nazioni e tribù hanno cercato di resistere, di sopravvivere, di lottare.
Queste storie di dolore e di ribelle dignità, ora saranno ascoltate. Ci faremo ascolto e parola, per sapere ciò che siamo e dove stiamo. Sarà nominato il dolore del nostro sangue e sarà nominato il responsabile: il denaro. Saranno nominate l’esperienza e la saggezza e saranno nominati i nostri popoli. Saranno nominate le nostre richieste: la giustizia che vogliamo, la democrazia che necessitiamo, la libertà che ci meritiamo. Sarà nominato ciò che ci appartiene e fu nostro e che ci è stato portato via. Si ascolteranno i nostri cuori e quelli della nostra gente.
Impareremo allora, forse, che la risposta che la terra, la prima madre, si aspetta, il "sì" alla vita che reclama, incomincerà a scorgersi nei nostri cieli quando sarà collettiva, quando questo continente recupererà la voce che oggi ammutoliscono con fuoco, oblio e rumore. La prima voce, quella originaria, la nostra.
Allora, forse, come la luna nuova che dà oggi il suo passo dall’ombra alla luce, incomincerà a scorgersi nelle nostre bambine e nei nostri bambini la risposta che ci sarà Vita nella loro strada, nel loro passo, in loro compagnia.
Per questo, forse, bisognerà guardare indietro e molto lontano, perché così chiamano i nostri la memoria; bisognerà essere degni oggi e qui, perché così chiamano i nostri la ribellione; e bisognerà camminare mondi che ancora non esistono ma aspettano la mano che dia loro forma, la bocca che li canti, il passo che li cammini, perché è così che i nostri chiamano la lotta.
Sorelle e fratelli, è nostra decisione che in questa occasione la nostra storia taccia, di zapatisti quali siamo. Sappiamo che i nostri dolori saranno nominati nei dolori di altre sorelle e di altri fratelli indigeni, come saranno nominati anche i nostri sogni e le nostre speranze, e le lotte che portano, per renderli reali. Oggi, come altre volte, ci tocca fare da ponte affinché le vostre voci vadano da una parte all’altra, affinché trovino un ascolto sincero, affinché i vostri colori si vedano e le vostre memorie si mostrino.
Così hanno detto le nostre ed i nostri capi, i guardiani: che parlino l’altro e l’altra, che ascolti il nostro cuore. Che insegnino l’una e l’altro, che il nostro cuore impari. Che il nostro silenzio sia saluto, omaggio, rispetto e gratitudine per coloro che, dal Canada fino al Cile, ci ricordano che non ci hanno vinti, che la battaglia continua e che la vittoria sarà vita in un altro mondo, un mondo dove ci stiano tutti i mondi che siamo e che saremo. Che sia così.
Subcomandante Insurgente Marcos
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