Creative Destruction

Meno male che la popolazione non capisce il nostro sistema bancario e monetario, perché se lo capisse, credo che prima di domani scoppierebbe una rivoluzione.
Henry Ford

Fin dalla nascita le grandi banche, agghindate di denominazioni nazionali, non sono state che società di speculatori privati che si affiancavano ai governi e, grazie ai privilegi ottenuti, erano in grado di anticipare loro denaro. Quindi l'accumularsi del debito pubblico non ha misura più infallibile del progressivo salire delle azioni di queste banche, il cui pieno sviluppo risale alla fondazione della Banca d'Inghilterra. La Banca d'Inghilterra cominciò col prestare il suo denaro al governo all'otto per cento; contemporaneamente era autorizzata dal parlamento a battere moneta con lo stesso capitale, tornando a prestarlo un'altra volta al pubblico in forma di banconote. Non ci volle molto tempo perché questa moneta di credito, fabbricata dalla Banca d'Inghilterra stessa, diventasse la moneta nella quale la Banca faceva prestiti allo Stato e pagava per conto dello Stato gli interessi del debito pubblico. Non bastava però che la Banca desse con una mano per aver restituito di più con l'altra, ma, proprio mentre riceveva, rimaneva creditrice perpetua della nazione fino all'ultimo centesimo che aveva dato.
Karl Marx

L'attuale creazione di denaro dal nulla operata dal sistema bancario è identica alla creazione di moneta da parte di falsari. La sola differenza è che sono diversi coloro che ne traggono profitto.
Maurice Allais



Il banco trae beneficio dall'interesse su tutta la moneta che crea dal nulla.
William Paterson, banchiere.

Autorizzato ad emettere moneta, e a controllare il sistema monetario di un paese, non mi preoccupo di certo di chi fa le leggi.
Mayer Amschel Rothschild, banchiere.

Pochi comprenderanno questo sistema, coloro che lo comprenderanno saranno occupati nello sfruttarlo, il pubblico forse non capirà mai che il sistema è contrario ai suoi interessi.
Sherman Rothschild, banchiere.
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A proposito della crisi non sono mancati coloro che, per affermare sempre e comunque la sacralità del Mercato, hanno parlato di “creative destruction schumpeteriana”. Una stronzata assoluta, posto che qui si distrugge solo, senza creare niente se non altro debito.
Interi paesi dal circuito finanziario debole messi in ginocchio (praticamente gli USA - la nazione più ricca del mondo - hanno prosciugato ricchezza e drenato capitali, esportando debiti a danno di paesi finanziariamente più deboli); l'intero mercato interbancario in mano a ladri e malfattori (come se i banchieri - tutti! - non lo fossero già. Dai “furbetti del quartierino” ai furbetti globali); gli effetti degli attivi “tossici” e della perdita dei valori azionari spalmati ovunque, perfino sui bilanci delle grandi assicurazioni e dei fondi pensione (con conseguenze imprevedibili sul lungo periodo. Insomma, ci hanno ipotecato anche il futuro!); agevolazioni ed aiuti di stato implorati da tutti i settori industriali a causa della restrizione creditizia; una sempre maggior presenza della mano pubblica nelle banche private per il cui salvataggio sono stati dispensati soldi pubblici, cioè di noi tutti... e questi stronzi parlano di “creative destruction”.
Cominciamo a dirle chiare, le cose...
Alla radice di tutto ci sono il capitalismo spinto, il business col turbo, il potere enorme delle grandi banche e dell'aristocrazia della finanza.
Si trasferisce un surplus che non ha alcuna relazione con attività di produzione o servizi resi, ma deriva solo da posizioni di potere e ingegneria finanziaria. Gli stessi compensi e “bonus” del big management sono diventati di natura e proporzioni tali da non esser più riconducibili ad un corrispettivo professionale. Li si paga come divi del cinema e dello sport.
Paul Volcker, non certo un pericoloso socialista ma l'economista ex governatore della Fed famoso per avere sconfitto la Grande Inflazione degli anni '70, s'azzardò a criticare apertamente l'andamento del sistema finanziario americano alla riunione dell'Economic Club di New York. Risultato: “Ricevetti molte indicazioni di simpatia, ma la Corporate America non era lì, in nessuna delle sue forme organizzate. Privatamente mi dicevano che potevo contare sulla loro simpatia, ma fondamentalmente volevano essere lasciati in pace...”
In parole povere: Paul (Volker), fatti i cazzi tuoi!
Poi Volker è stato il pilastro della credibilità di Obama nei circoli di politica monetaria e sui mercati durante la corsa alla Casa Bianca. Senza di lui le credenziali di Obama come candidato in grado di prendere decisioni economiche molto semplicemente sarebbero state pari a zero. Ora io chiedo: dov'è finito Paul Volker? Semplicemente non lo si vede più, sparito. Una volta arrivati al potere lo si è messo da parte. Hanno vinto i rampanti Larry Summers e Tim Geithner. E infatti nessuno dei due si preoccupa delle disastrose conseguenze a lungo termine del loro tentativo di risolvere le conseguenze della bolla scatenata dai loro predecessori ripetendone gli errori.
Ancora una volta è come avessero detto: Paul (Volker), fatti i cazzi tuoi!
Perché? Perché si parla tanto di risolvere la crisi, ma non delle sue cause strutturali, come vorrebbe Volker?
Perché alla base di tutto c'è un enorme, colossale, gigantesco quanto inconfessato e inconfessabile conflitto d'interessi che ha al suo centro le grandi banche d'affari e la loro avida aristocrazia del denaro. La crescita dimensionale, il gigantismo finanziario hanno fatto premio su ogni altra considerazione fino a dar vita a dei mostri giuridici ed economici. Analisti e gestori, investitori e rentrier, banchieri e broker, finanzieri e politici, assicuratori e assicurati, controllori e controllati oramai... SONO GLI STESSI!! Eccola la verità chiara e tonda.
Ogni volta che ci si azzarda a toccare questo tasto è tutta una levata di scudi da parte dei difensori del “sacro” Mercato, davanti al quale bisognerebbe inginocchiarsi come davanti ad un totem: "il mercato ha voluto cosi... il mercato metterà a posto ogni cosa... non bisogna contrastare il mercato..."
Allora, proviamo a chiederci cos'è il mercato finanziario. Un grande economista ha di recente scritto: “la mia opinione è che chiamiamo mercati finanziari un insieme di alvei di transazioni che, per almeno tre quarti, è un'accozzaglia di domini artificialmente segmentati e totalmente opachi di poche grandi banche oligopoliste che devono la loro posizione alle distorsioni del 'too big to fail'. Da questo privilegio derivano la rendita di posizione che, insieme alla leva, spiegano i return on equity (indice del rapporto tra redditto netto e capitale impiegato. Ndt) esagerati di un settore protetto. Gli intermediari bancari sono stati iper-regolamentati in modo prociclico e controproducente e così sono stati creati degli alvei di negoziazione fragili ed instabili che è fin vergognoso chiamare mercati”. Questo è oggi il Mercato finanziario: un'aristocrazia feudale, una nobiltà di censo, un mondo protetto e a parte, un Sistema, una Matrice...
Dov'erano i controllori della base monetaria quando cresceva la bolla del credito? Perché tutti hanno fatto finta di non vedere la convergenza di prodotti hedging e speculativi con quelli assicurativi, previdenziali e d'investimento?
Perché le Banche Centrali (tutte, ad eccezione della Banca Centrale Libanese!) hanno tollerato e consentito le pratiche dei veicoli fuori bilancio?
Perché si sono trasformati in “investiment bank” dei modelli operativi di business che col credito non avevano nulla a che fare?
Tutto questo, non lasciatevi ingannare, non è frutto del caso, di errori, di ignoranza o negligenza o imperizia. E' frutto di una precisa volontà, di una specifica strategia, di un accurato progetto ideato, sviluppato ed attuato, passo dopo passo, dalle uniche potenze di questo tipo di Mercato: le banche!
Si è trattato di un abile sistema per ampliare artificialmente la liquidità e i mercati finanziari a nostre spese. Vi è infatti una differenza enorme tra le banche e le imprese: le banche non producono, ma attraverso le banche passa il sangue delle imprese e di tutto l'apparato produttivo. E' fondamentale quindi che il flusso non si fermi, ma si vuole anche che aumenti e frutti sempre di più.
La sofferenza indotta dal sistema bancario ha costretto gli Stati ad intervenire per il salvataggio con soldi pubblici, aumentando così l'esposizione debitoria di noi tutti e accrescendo la liquidità indipendentemente dalla ricchezza prodotta.
Lo schok finanziario alla fine è stato come dare l'epo ad un asino (noi tutti che lavoriamo) legato alla ruota: si aumenta l'emoglobina in circolo in modo da farlo andare più svelto... Non solo, ma - dulcis in fundo - tutti gli ingegnosi strumenti finanziari utilizzati per portare all'attuale crisi, dai derivati agli swap ai Cfd, non sono stati dichiarati illegali e rimarranno tra di noi! Un piano perfetto!
Ora ci racconteranno la favoletta che sono state le modalità con cui sono stati adoperati questi strumenti che hanno portato al collasso del sistema e, dunque, sono solo tali modalità a dover essere corrette.
Ripeteranno che sarà necessario capire e correggere gli abusi, gli eccessi, le cattive gestioni, affinché tutto questo non abbia più a ripetersi.
Metteranno in prigione per un po' di tempo un paio di mascalzoni e faranno finta che le Banche Centrali non c'entrino nulla in questo disastro.
Riporteranno sugli altari qualche economista e finanziere come nuovi oracoli del mercato mentre la gente comune dovrà tirare la cinghia (c'è la crisi...), trovarsi un nuovo impiego (c'è la crisi...), svendere casa per pagare il mutuo (c'è la crisi...) e ricominciare pazientemente a faticare e risparmiare, perché tutto sarà nel frattempo aumentato (c'è stata la crisi... ricorda?). L'asino alla ruota continua a girare...
Alla fine business as usual.
Questo è quello che uomini di potere, politici, economisti, imprenditori, banchieri e rispettivi lacchè, portaborse e tirapiedi si stanno alacremente affrettando a fare.
Impossibile trovare tra di essi uno, uno solo, che parli un linguaggio diverso. Non ce n'è...
Nessuno che parli di por mano ai gravi squilibri che dominano l'economia mondiale, dar vita ad una più seria, equilibrata, responsabile e coinvolgente globalizzazione.
Che proponga di bilanciare il rapporto tra economia finanziaria ed economia produttiva a favore sempre e solo di quest'ultima e di liberarci dall'idolatria di quell'idiozia chiamata Pil.
Che chieda di attenuare e non accentuare le differenze di reddito, perché non è vero che è con il darwinismo sociale che si alimenta il motore dello sviluppo, ma con la solidarietà.
Che invochi a gran voce di porre fine al gigantismo di monopoli ed oligopoli ed al loro strapotere, non con la regolamentazione ma con la segmentazione.
Che discuta la posizione sociale degli alti dirigenti e top manager della finanza, innalzati allo status di una neoaristocrazia senza responsabilità che si appropria di una rendita parassitaria che non trova meriti...
Proviamo a farla per davvero una "creative destruction schumpeteriana"!
(D*)

No existe un momento...



No existe un momento del día
en que pueda apartarme de tí,
el mundo parece distinto
cuando no estás junto a mí.

No hay bella melodía
en que no surjas tú,
ni yo quiero escucharla
si no la escuchas tú.

Es que te has convertido
en parte de mi alma.
Ya nada me consuela
si no estás tú también.

Más allá de tus labios,
del sol y las estrellas.
Contigo en la distancia
amada mía, estoy...

No hay bella melodía
en que no surjas tú,
ni yo quiero escucharla
si no la escuchas tú.

Es que te has convertido
en parte de mi alma.
Ya nada me consuela
si no estás tú también.

Más allá de tus labios,
del sol y las estrellas.
Contigo en la distancia
amada mía, estoy.
Amada mía, estoy...

César Portillo de La Luz
__________

Non esiste un momento del giorno
In cui posso allontanarti da me:
Il mondo appare diverso
quando non mi sei vicina.

Non c'è bella melodia
In cui non appaia tu,
Nè desidero ascoltarla
Se mi manchi tu.

E' che sei diventata
una parte della mia Anima,
ed ora nulla mi soddisfa
se non ci sei anche tu.

Più in là delle tue labbra,
oltre il sole e le stelle,
con te nella distanza,
amata mia io resterò.

César Portillo de La Luz


Však ústa po růži ti voní...

Máš po sněžence bledou pleť,
však ústa po růži ti voní.
Jsou slova lásky monotónní,
co počít mám si s nimi teď,
když čekám na tvou odpověď
a zmaten pospíchám si pro ni?
Máš po sněžence bledou pleť,
však ústa po růži ti voní.
Jen nakonec mě nepodveď,
a strach, který ti oči cloní,
ať zmizí rychle, prosím, hleď,
jako ten sníh, co padal loni.
Máš po sněžence bledou pleť,
však ústa po růži ti voní.

Jaroslav Seifert

















Hai pelle chiara come bucaneve
ma le labbra profumano di rosa.
Monotone d'amore sono le parole
e come posso ora utilizzarle,
mentre attendo che tu mi risponda
e confuso m'affretto ad ascoltarti?
Hai pelle chiara come bucaneve
ma le labbra profumano di rosa.
Alla fine però non m'ingannare
e la paura che ti vela gli occhi
rapidamente si sciolga, ti prego,
come la neve caduta l'anno scorso.
Hai pelle chiara come bucaneve
ma le labbra profumano di rosa.

Jaroslav Seifert


مع الكتاب في واحدة يد, القنبلة في الأخرى…



La macchina che guidi guarda bene non è tua,
la paghi tutti i giorni al fabbricante di liquame
che va a cena con i santi,
che t'infilano le bombe nelle tasche.
E fanno guerre che bruciano ragazzi come te,
che cadono col sogno di proteggere un sogno
e in chiesa la gente che piange fa largo e si stringe,
nel posto in prima fila c'è sempre un governante
che tratta col mercante, che cena con i santi
che tirano le bombe e tirano le somme
e il ciclo non si rompe, la guerra non è santa,
ma noi stiamo arrivando...
Col libro in una mano, la bomba nell'altra...

Nel pane c'è il corpo, nel vino c'è il sangue;
nell'oro il demonio, nell'umiltà il santo...
Nel pane c'è il corpo, nel vino c'è il sangue;
nell'oro il demonio, nell'umiltà il santo...
Scintilla un anello di giallo metallo,
la mano pietosa saluta il Consiglio...
Al polso gemelli di rosso rubino,
su un abito bianco di seta e di lino...
La porpora è un manto di gloria e di vanto,
sul petto una croce con sopra il suo Santo...
"Non m'immortalate!", diceva il suo canto,
"Non mi sbandierate!", gridava il suo pianto.
Nel pane c'è il corpo, nel vino c'è il sangue;
che Dio ci perdoni, se stiamo pregando...
Col libro in una mano, la bomba nell'altra...
Abbiamo il fuoco, abbiamo ragione.
Saremo più grandi, saremo più uniti,
saremo più forti di chi ci ha colpiti...
Col libro in una mano, la bomba nell'altra...


لو كنت أستطيع أن أقابل السلطان

لو أحد يمنحني الأمان
لو كنت أستطيع أن أقابل السلطان
قلت له :
يا سيدي السلطان
كلابك المفترسات مزقت ردائي
عيونهم ورائي..
أنوفهم ورائي ..
أقدامهم ورائي..
يستجوبون زوجتي..
ويكتبون عندهم أسماء أصدقائي..
يا حضرة السلطان
لأنني اقتربت من أسوارك الصماء..
لأئني حاولت أن أكشف عن خزني وعن بلائي
ضربت بالحذاء..
أرغمني جندك أن آكل من حذائي..
يا سيدي .. يا سيدي السلطان
لقد خسرت الحرب مرتين
لأن نصف شعبنا ليس له لسان
ما قيمة الشعب الذي ليس له لسان؟!
لأن نصف شعبنا محاصر كالنمل والجرذان
في داخل الجدران..
...
لو أحد يمنحني الأمان
من عسكر السلطان
قلت له : يا حضرة السلطان
لقد خسرت الحرب مرتين
لأنك انفصلت عن قضية الإنسان
...

نزار توفيق قباني

















Se mi fosse concessa l'impunità,
se potessi incontrare il Sultano
gli direi: signor Sultano
i tuoi cani feroci hanno lacerato la mia veste
e i tuoi inquisitori sono sempre alle mie calcagna...
I loro occhi mi seguono
i loro nasi mi seguono
i loro piedi mi seguono
come l'inevitabile destino, come il fato...
Interrogano la mia donna,
segnano i nomi dei miei amici...
Signor Sultano,
per essermi avvicinato alle tue sorde mura,
per aver tentato di mettere a nudo il mio dolore e il mio tormento,
sono stato picchiato con una scarpa.
Mio signore, signor Sultano,
hai perso la guerra due volte
poiché metà del nostro popolo non ha lingua...
Che valore può aver un popolo che
non ha lingua?
Poiché metà del nostro popolo
è chiuso come la formica e il topo
all'interno di mura...
Se qualcuno mi mettesse al sicuro
dai soldati del Sultano
gli direi:
Hai perso la guerra due volte
poiché ti sei staccato dalla causa dell'uomo...


Nizār Tawfīq Qabbānī



The Black List

I derivati rappresentano sempre più un importante veicolo per diversificare i rischi e per allocarli agli investitori più capaci di gestirli. (1999!) Alan Greenspan

Alan Greenspan dice stronzate (bullshit). D*



Si pretende di far passare l'idea che crisi gravi e complesse come quella che ha messo a soqquadro i mercati finanziari internazionali non si prestino a spiegazioni chiare e precise e per questo non abbiano dei responsabili individuabili. Invece se proviamo a ricercare le cause scatenanti e ad analizzare i passaggi chiave, nomi e cognomi cominciano a saltar fuori.
Cominciamo a farli, i nomi e cognomi.
Il primo nella mia personale lista nera si chiama William Phil Gramm, ed è uno che partito come congressista democratico è poi finito senatore repubblicano e consigliere economico di John McCain. E' sua la firma sul GLBA, Gramm-Leach-Bliley Act, cioè il Financial Services Modernization (sich!) Act che nel 1999 ha abrogato in gran parte il Glass-Steagall Act e attuato la deregulation bancaria.
Il secondo nome della mia personale lista è William Jefferson Clinton, alias “Pompino Bill”, 42° presidente degli Stati Uniti.
Alla GLBA faceva infatti seguito, di lì a un anno, un'altra arma finanziaria di distruzione di massa, la CFMA alias Commodity Futures Modernization (arisich!) Act, messa a punto nei laboratori di guerra finanziaria del PWG, President's Working Group (gli americani con gli acronimi raggiungono l'orgasmo!). Se col primo si era liberalizzato il sistema bancario col secondo si deregolamentava il trading dei derivati, inclusi i famigerati (e letali) CDS, credit default swap.
Venne sbandierata come una “important legislation to allow the United States to maintain its competitive position in the over-the-counter derivative markets”... L'Impero voleva (e doveva) mantenere ed estendere il dominio economico-finanziario mondiale.
Terzo nome: Charles Christofer Cox, Chris per gli amici, 28° presidente della SEC, Securities and Exchange Commission (equivalente della nostra Consob, quella che l'onorevole Elisabetta "Forzitalia" Gardini - beata lei - non sa cosa sia).
Chiamato a deporre davanti al senato "Chris" ha dovuto ammettere che il Gramm-Leach-Bliley Act è stato un “costoso errore” e il CFMA una “grave falla regolamentativa” ma, guarda caso, ha elegantemente sorvolato su nomi e cognomi dei responsabili, non si è espresso sul fiasco colossale dell'organo di vigilanza da lui diretto né si è assunto la responsabilità di una crisi (boom di cartolarizzazioni, derivati sistemici e CDS) consumatasi sotto il suo mandato.
Ma chi doveva vigilare su Lehman Brothers, Bear Sterns, Merrill Lynch, Morgan Stanley e Goldman Sachs? "Chris" naturalmente, il quale però avviava un “programma speciale” per concedere esenzioni speciali proprio ai “fabulous five”, salvo poi sospenderlo quando tutto andava ormai a puttane.
In pratica le regole che imponevano alle agenzie di brokeraggio limiti sui parametri patrimoniali, in termini di debiti-capitale, vennero aggirate definendo l'attività come di banking investment. Una decisione apparentemente di normazione tecnica e di tassonomia finanziaria, ma chiaramente legata ad inconfessabili interessi economico-speculativi e a chiare scelte politiche sponsorizzate da George W. Bush (43° presidente degli Stati Uniti e quarto nome nella mia lista!) e dal suo staff, che all'epoca controllava il Congresso ed aveva nominato Cox.
In parole povere i grandi finanzieri si rivolsero ai politici e dissero: “Il mondo finanziario è profondamente cambiato, lo scenario s'è fatto difficile per l'arrivo di nuovi protagonisti e competitors (economie emergenti, tigri asiatiche, ecc..), l'America, signori politici, rischia di perdere così la sua supremazia, il suo dominio economico-finanziario, ma... ma per fortuna adesso abbiamo messo a punto una serie di nuove armi. E' vero, sono ancora sperimentali e in via di perfezionamento, ma promettono molto bene. Quindi, se volete mantenere una posizione di dominio incontrastato nel mondo, anziché imporci limiti e controlli (Berlusconi avrebbe detto “lacci e lacciuoli”... Quanto mi garba quel “lacciuoli” detto dal Berlusca con la bocca a culo di gallina!) lasciate fare a noi, lasciateci usare le nostre insuperabili doti manageriali, i nostri sofisticati e complessi programmi con algoritmi computerizzati di “risk management” e vedrete che sfruttando l'onda lunga di questi nuovi strumenti di ingegneria finanziaria domineremo il mondo.”
I politici (repubblicani e democratici. I soldi fanno gola a tutti...) non ci pensarono due volte e in men che non si dica, semplicemente cambiando nome alle cose, si passò da una regola chiara di valutazione del rischio ad un sistema farraginoso e di fatto inesistente.
Risultato: l'attività di trading and market sui mercati finanziari venne svolta al riparo da ogni controllo e si poté utilizzare nel modo più spinto e irresponsabile la leva finanziaria per aumentare esponenzialmente il debito e creare una ricchezza illusoria, virtuale. Ora vorrei chiedere al signor Cox, già praticante avvocato, e insegnante, e imprenditore, e politico, e infine (forse) presidente della SEC: come si fa a pensare di sostenere un'attività con un rapporto debito-capitale netto di 40 a 1? Perché questo facevano le grandi banche di investimento.
E abbiamo visto com'è andata a finire, stiamo pagando tutti il conto. E lo pagano soprattutto i poveri, gli sfruttati e i disoccupati di tutto il mondo.
I signori menzionati dalla mia lista, invece, non pagano dazio, incassano bonus!
(D*)


نار

"La poesia è un bel cavallo, che ciascuno cavalca a modo suo. Quanto a me, non cerco di domare il mio cavallo, e non mi dispiace correre sul terreno aspro, nel fango e nelle tenebre..."
Nizār Tawfīq Qabbānī


نار

La luce è più importante della lampada,
la poesia è più importante del quaderno,
il bacio è più importante delle labbra.
Le mie lettere a te
sono più potenti e importanti di noi due.
Sono i soli documenti
nei quali le genti scopriranno
la tua bellezza
e la mia follia...




Più bruciante del fuoco,
più violento dell'urlo di un uragano,
più aspro dell'inverno è l'amor mio per lei.
Qual effusione di lacrime!
Se il mio pensiero le sfiorasse il seno,
la brucerei con i miei desideri,
o se inavvertitamente il suo seno si scoprisse,
con torbido occhio la fisserei.
Incommensurabile è il mio amore per lei,
come ella mi scorresse nelle vene.
La voglio io solo. Altri
non pretenda la sua passione! Quelle son colline mie.
Su di esse voglio far scorrere la mia mano,
per la mia diffidenza, per l'eccesso del mio amore.
L'amo io solo. Nè mi nuoce
che le stelle raccontino la mia storia.
L'alba attinge alla sua luce,
il tramonto alla mia.
Finchè tu resti mia, mio è il segreto della sera,
mie sono queste lune.
Gli astri della notte sono per me un manto,
sulla palpebra dell'Oriente è il mio fazzoletto.


نزار توفيق قباني
Nizār Tawfīq Qabbānī

شكور

شكور

Grazie al dolore
che rende i nostri cuori più delicati e forti.
Grazie al piombo
che c'insegna il valore del canto
e ci ricorda l'appuntamento fuggente e il bacio dimenticato.
Grazie alle prigioni
che fan tornare alla mente l'azzurro del cielo e il tocco delle erbe vaghe.
E grazie al mondo...
sui suoi aspetti più neri scriviamo questi incliti poemi.
Grazie a Nerone, a Caligola, a Hiroshima,
alla cella sbarrata e alla croce uncinata,
alle bare, alle epidemie, ai cancri del sangue;
essi ci ricordano la vita che fu... e gli imminenti oblii.
Grazie agli incubi - dice l'uomo timoroso -
essi aprono le strade chiuse e guidano al tempo pacifico.
E grazie alla notte
che i volti dei tiranni rende più laidi e neri.
Ai pugnali schifosi e alle zanne ben fisse.
E grazie al pianto...
E grazie ai nazisti e ai tribunali dell'inquisizione... e a Ponzio Pilato.
E grazie al mio cuore...
che continua ad amarvi.

Nazìh Abu 'Afash


Tu eres mi norte y mi sur



Tengo marcado en el pecho todo los dias
y el tiempo no me dejo estar aqui
Tengo una fe quemadura que va conmigo
y me cura desde que te conoci
Tengo un hueya perdida entre tu sobra
y la mia que no me deja mentir
Soy una moneda en la fuente
tu mi deseo pendiente mis ganas de revivir
Tengo una mañana fustrante
y una quarela esperando verte pintado de azul
Tengo tu amor y tu suerte y un caminito empinado
Tengo el bardero otro lado
tu eres mi norte y mi sur

Hoy voy a verte de nuevo
voy en volverme en tu ropa
sursuramen tu silencio cuando me veas llegar

Hoy voy a verte de nuevo
voy alegrar tu tristesa
vamos hacer una fiesta pa'que este amor cresca mas

Tengo una frase colgada entre mi boca
y al muada que me desnuda ante ti
Tengo una playa y un pueblo que me acompaña
de noche cuando no estas junto a mi
Tengo una mañana fustrante
y una quarela esperando verte pintado de azul
Tengo tu amor y tu suerte y un caminito empinado
Tengo el bardero otro lado
tu eres mi norte y mi sur

Hoy voy a verte de nuevo
voy en volverme en tu ropa
sursuramen tu silencio cuando me veas llegar

Hoy voy a verte de nuevo
voy alegrar tu tristesa
vamos hacer una fiesta pa'que este amor cresca mas.



Y te llevaré por los caminos del mundo...

Me gustaría gritarlo a los cuatro vientos
por los siete mares
por los cinco continentes
cuánto te amo.
Quisiera contarle al primero que pasa
lo que me está pasando
lo que siento por ti
Me gustaría escribirlo en la corteza de los árboles,
en los muros de los edificios,
en el viento, en el agua,
en el aire húmedo de la noche,
en las estaciones del metro,
en los vidrios empañados de los autos,
en las fachadas de las iglesias,
en los bancos de los parques,
en las veredas de las ciudades más populosas,
sobre la arena mojada a la orilla del mar,
en las pancartas de todos los manifestantes de la tierra.

Me gustaría
publicarlo en los diarios, difundirlo por la radio.
publicitarlo en la televisión, en los afiches,
en los folletos turísticos. en Internet.
en las marquesinas de los teatros, de los cines,
en los pasacalles de las calles más transitadas.
Quisiera que el mundo entero supiese cuánto te amo.
Tanto amor no puede ser anónimo,
tiene nombre y apellido,
tiene cosas qué decir y canciones qué cantar.
No se merece vivir a la sombra,
amarse en silencio, viajar de polizón.
Este amor escondido, algún día amor mío,
saldrá a la luz del día
y en ese día todas las mañanas serán tuyas.
Te lo prometo y lo firmo.
Confía en mí, amante mía
y te llevaré por los caminos del mundo
como una bandera,
como una bandera al viento
Pero ahora no,
no puedo, tengo miedo
y tu sabes por qué.
Porque te amo.

Gian Franco Pagliaro

























Mi piacerebbe gridarlo ai quattro venti
per i sette mari
per i cinque continenti
quanto ti amo.
Vorrei dirlo al primo che passa
quello che sta accadendomi
quello che provo per te
mi piacerebbe scriverlo nella corteccia degli alberi,
sui muri delle case,
nel vento, nell'acqua,
nell'aria umida della notte,
nelle stazioni della metro,
sui vetri appannati delle auto,
sulle facciate delle chiese,
sulle panchine dei parchi,
nei vicoli delle città più popolose,
sulla sabbia bagnata ai bordi del mare,
negli striscioni di tutti i manifestanti della terra.

Mi piacerebbe
pubblicarlo sui giornali, trasmetterlo per la radio.
diffonderlo in televisione, coi poster,
nelle guide turistiche, su Internet,
nelle locandine dei teatri, dei cinema,
ai passaggi pedonali delle strade più transitate.
Vorrei che il mondo intero sapesse quanto ti amo.
Tanto amore non può essere anonimo,
ha nome e cognome,
ha cose da dire e canzoni da cantare,
Non si merita di vivere nell'ombra,
amarsi in silenzio, viaggiare clandestino.
Questo amore nascosto, qualche giorno amore mio,
uscirà alla luce del giorno
ed in quel giorno tutte le mattine saranno tue.
Te lo prometto e lo scrivo.
Fidati di me, ammante mia
e ti porterò per le strade del mondo
come una bandiera,
come una bandiera al vento
Ma ora no,
non posso, ho paura
e tu sai perché.
Perchè ti amo.

Gian Franco Pagliaro

Bandera Roja

Per chi conosce solo il tuo colore,
bandiera rossa,
tu devi realmente esistere, perché lui
esista:
chi era coperto di croste è coperto di
piaghe,
il bracciante diventa mendicante,
il napoletano calabrese, il calabrese
africano,
l'analfabeta una bufala o un cane.
Chi conosceva appena il tuo colore,
bandiera rossa,
sta per non conoscerti più, neanche coi
sensi:
tu che già vanti tante glorie borghesi e
operaie,
ridiventa straccio, e il più povero ti
sventoli.

Pier Paolo Pasolini



















Para quien conoce sólo tu color,
bandera roja,
tú debes en realidad existir para que él
exista:
quien estaba lleno de postillas está ahora lleno de
llagas,
el jornalero se convierte en mendigo,
el napolitano en calabrés, el calabrés en
africano,
el analfabeto en búfalo o perro.
Quien conocía tan sólo tu color,
bandera roja,
está por dejar de conocerte, ni siquiera
de vista:
tú que te jactas ya de tantas glorias burguesas y
obreras,
hazte trapo otra vez y que el más pobre
te agite.


Pier Paolo Pasolini

La velocidad del sueño (primera parte)

No llores por un mundo que lucha, lucha por un mundo que llora. Anónimo

Yo soy como soy y tú eres como eres, construyamos un mundo donde yo pueda ser sin dejar de ser yo, donde tú pueda ser sin dejar de ser tú, i donde ni yo ni tú obiguemos al otro a ser como yo o como tú. Subcomandante Insurgente Marcos



Botas

No corre la madrugada en las montañas del Sureste mexicano. Como si no tuviera prisa, se regodea en todos y cada uno de los rincones, como amante paciente y dedicada. La niebla le va de la mano, con su largo vestido de nube, y consigue asfixiar la luz más empecinada, le tiende cerco, la rodea de su nívea pared, la encierra en un aro difuso. Desde la mitad del cielo, la luna se bate en retirada. Una voluta de humo se confuende con la neblina, despacio, con la misma lentitud con la que la nube arropa, bajo el amplio vuelo de su nagua, las champas dispersas. Todos duermen. Todos menos la Sombra. Todos sueñan. Sobre todo la Sombra. Apenas extiende la mano y atrapa una pregunta.
¿Cuál es la velocidad del sueño?
No lo sé. Tal vez es... Pero no, no lo sé...
En realidad, acá, lo que se sabe, se sabe en colectivo.
Sabemos, por ejemplo, que estamos en guerra. Y no me refiero sólo a la guerra propiamente zapatista, que no acaba de satisfacer las ansias de sangre de algunos medios de comunicación y de algunos intelectuales "de izquierda", tan afectos como son, los unos a las cantidades de muertos, heridos y desaparecidos, los otros a traducir muertes en errores "por no hacer lo que yo les decía".
No sólo, también hablo de ésta a la que nosotros llamamos "IV Guerra Mundial", que se libra por el neoliberalismo y contra la humanidad. La que transcurre en todos los frentes y en todas partes, incluyendo las montañas del Sureste mexicano. Lo mismo en Palestina que en Irak, en Chechenia o en los Balcanes, en Sudán, o en Afganistán, con ejércitos más o menos regulares. La que, de la mano de éstas, el fundamentalismo de uno y otro bandos lleva a todos los rincones del planeta. La que, asumiendo formas no militares, cobra víctimas en América Latina, en la Europa Social, en Asia, en Africa, en Oceanía, en el Lejano Oriente, con bombas financieras que hacen volar en pedazos estados nacionales enteros y organismos internacionales.
Esta guerra que, según nosotros (insisto: tendencialmente), pretende destruir /despoblar territorios, reconstruir/reordenar las geografías locales, regionales y nacionales, y crear, a sangre y fuego, una nueva cartografía mundial. Esta que, en el camino, va dejando su firma de identidad: la muerte.
Tal vez la pregunta "¿Cuál es la velocidad del sueño?" debería ser acompañada de la pregunta "¿Cuál es la velocidad de la pesadilla?"
Todavía unas semanas antes de los atentados terroristas del 11 de marzo de 2004 en España, un periodista-analista político mexicano (de ésos a los que les dan un dulce y se sueltan cantando loas ridículas) alababa la visión "de Estado" de José María Aznar.
El analista decía que, al acompañar a Estados Unidos y a la Gran Bretaña en la guerra contra Irak, Aznar había conseguido un campo promisorio para la expansión de la economía hispana, y que el único costo que tenía que pagar era el repudio de una "pequeña" parte de la población española, "los radicales que nunca faltan, incluso en una sociedad tan boyante como la española", dijo el "analista". Y más, señaló que entonces a los españoles sólo les tocaba esperar sentados a que el negocio de la reconstrucción de Irak se echara a andar, y entonces sí, a recibir carretadas de dinero. En suma, un sueño.
La realidad no tardó en pasar a cobrar la verdadera factura de "la visión de Estado" de Aznar. Esa mañana del 11 de marzo se cumplía aquello de que Irak no está en Irak, quiero decir no sólo en Irak, sino en todo el mundo. En fin, la estación de Atocha como sinónimo de pesadilla.
Pero antes de la pesadilla estaba el sueño, pero el sueño neoliberal. Con holgada anterioridad a los atentados terroristas del 11 de septiembre de 2001 en territorio estadunidense, la guerra contra Irak se había puesto en marcha.
Para ir a ese inicio nada como una foto...
Suelo llano, rojizo. Se adivina duro. Tal vez arcilla o algo parecido. Una bota. Sola, sin su par. Abandonada. Sin pie que la calce. Algunos escombros esparcidos. De hecho, la bota parece un escombro más. Es todo lo que hay en la imagen, así que es el pie de foto el que aclara que se trata de Irak. ¿Fecha? 2004, septiembre.
No se alcanza a discernir si es la bota de alguien que murió, que la abandonó en la huida, o que se trata, simple y llanamente, de una bota botada. Tampoco se sabe si es la bota de un soldado estadunidense o británico, o de un combatiente de la resistencia, de un civil iraquí o de otro país.
Sin embargo, a pesar de la falta de más información, la imagen da una idea de lo que es el Irak de la "posguerra" de Bush: violencia, muerte, destrucción, desolación, confusión, caos.
Todo un programa neoliberal.
Si el falaz argumento de que la guerra contra Irak era una guerra "contra el terrorismo" se ha venido abajo, las verdaderas razones emergen ahora, más de un año después de que, ayudada por los tanques de guerra estadunidenses, fuera derribada la estatua de Hussein y un eufórico Bush se erigiera otra a sí mismo declarando el fin de la guerra. (Probablemente la resistencia iraquí no escuchó el mensaje de Bush: el número de soldados estadunidenses y británicos muertos y heridos no ha hecho sino aumentar desde que "terminó la guerra", y ahora se suman las bajas de civiles procedentes de varias naciones.)
La ideología neoconservadora en Estados Unidos tiene un sueño: construir la "disneylandia" neoliberal. En lugar de una "aldea modelo", reflejo de los manuales de contrainsurgencia de los 60, se trataba de edificar una "nación modelo". Se eligió entonces el territorio de la antigua Babilonia.
El sueño de la construcción de un "ejemplo" de lo que debe ser el mundo (siempre según los neoliberales) se nutrió de "(...) la más apreciada creencia de los arquitectos ideológicos de la guerra (contra Irak): que la codicia es buena. No buena sólo para ellos y sus amigos, sino buena para la humanidad, y ciertamente buena para los iraquíes. La codicia crea ganancias, las cuales crean crecimiento, el cual crea trabajos, productos y servicios, y cualquier otra cosa que alguien pudiera posiblemente necesitar o querer. El papel de un buen gobierno, entonces, es crear las condiciones óptimas para que las corporaciones prosigan su codicia sin fondo, de modo que, a su turno, puedan satisfacer las necesidades de la sociedad. El problema es que los gobiernos, aun los gobiernos neoconservadores, raramente tienen la oportunidad de probar lo correcto de su sagrada teoría: a pesar de sus enormes esfuerzos ideológicos, aun los republicanos de George Bush son, en sus propias cabezas, eternamente saboteados por entrometidos demócratas, obstinados sindicatos y alarmados ambientalistas. Irak iba a cambiar todo esto. En un lugar de la Tierra, la teoría finalmente sería puesta en práctica en su más perfecta e incomprometida forma. Un país de 25 millones de habitantes no sería reconstruido como era antes de la guerra: sería borrado, desaparecido. En su lugar aparecería una deslumbrante sala de exposiciones para las políticas del laissez-faire, una autopía como el mundo jamás había visto." ("Bagdad año cero. El pillaje de Irak tras una utopía neoconservadora", Naomi Klein, en Harper's Magazine, septiembre de 2004. Traducción: Julio Fernández Baralbar.)
En lugar de eso, Irak es un ejemplo sí, pero de lo que le espera al mundo entero si los neoliberales ganan la gran guerra, la IV Guerra Mundial: desempleo de casi 70 por ciento, la industria y el comercio paralizados, aumento exorbitante de la deuda externa, muros antiexplosiones por todos lados, crecimiento geométrico del fundamentalismo, guerra civil... y exportación del terrorismo a todo el planeta.
No voy a saturarlos con algo que sale a diario en las noticias: ofensivas militares de la coalición (ojo: en una guerra que "ya terminó"), movilización de la resistencia iraquí, atentados, ataques a objetivos militares y civiles, secuestros, ejecuciones, nuevas ofensivas de la coalición, nueva movilización de la resistencia iraquí, etcétera. Estoy seguro de que podrán encontrar abundante información en la prensa de todo el mundo. En castellano, sin lugar a dudas la mejor fuente es el periódico mexicano La Jornada, que cuenta entre sus colaboradores a algunos de los analistas más serios y documentados sobre el tema de Irak.
Lo cierto es que este video ya lo hemos visto antes en otras partes... y lo seguimos viendo: Chechenia, los Balcanes, Palestina, Sudán, son sólo ejemplos de esta guerra que destruye naciones para tratar de "reconvertirlas" en "paraísos"... y terminan convertidas en infiernos.
Una bota abandonada en suelos del Irak "liberado" resume el nuevo orden mundial: la destrucción de naciones, la desertificación de cualquier indicio de humanidad, la reconstrucción como el reordenamiento caótico de las ruinas de una civilización.
Hay, sin embargo, otras botas, aunque sean unas...
Botas rotas. Sí, las botas de la insurgenta Erika están rotas. En la puntera derecha, la suela está desprendida y le da a la bota un aspecto de boca insatisfecha. Los dedos no son visibles aún, así que la Erika no parece haberse dado cuenta de que sus botas, marcadamente la derecha, están rotas.
Desde los primeros días en la montaña, el mirar hacia abajo se me hizo costumbre. El calzado suele ser uno de los sueños/pesadillas del guerrillero (¿otros?: el azúcar, tener los pies secos, y otras obsesiones más bien húmedas), así que dedica a él buena parte de su atención. Tal vez por eso uno adquiere esa manía de mirar siempre a los pies del otro.
La insurgenta Erika ha venido a avisarme que ya acabaron de editar el cuento de La naranja mágica (última producción de Radio Insurgente que trata de... bueno, mejor escúchenlo). Yo le respondo que tiene rota la bota. Ella baja la mirada y me dice "tú también". Saluda militarmente y se va.
La Erika va a cambiarse porque al rato juegan futbol dos equipos de insurgentas, uno se llama "8 de Marzo", y el otro "Las Princesas de La Selva". No sé mucho de futbol pero, a mi entender, las "princesas" juegan con un estilo bastante alejado de las buenas costumbres de la corte real, y las del "8 de marzo" lo hacen como si fuera el alzamiento del primero de enero. O sea que buena parte de ellas termina en el puesto de salud insurgente. Es más, cada vez que van a jugar, las de sanidad tienen la camilla a un lado de la cancha. "Para no dar la vuelta", dicen.
Empataron. O sea que en el futbol las insurgentas empataron. Se fueron a penaltis y llegó la hora de la formación sin que desempataran. A decirme eso viene la insurgenta Erika. La Erika es como la asesora sentimental de las insurgentas, pero esta vez no viene a contarme que a una compañera "le duele su corazón" por mal de amores, sino que ya acabó el partido y ella ya se va a dar plática a los pueblos, más en concreto, a las mujeres de los pueblos. Va de civil, o sea con ropa civil. Bueno, eso dice ella. Porque yo veo que trae unas botas hechas en talleres zapatistas y que tienen grabado un "EZLN" en un costado.
"Mmh, si vas a llevar esas botas mejor lleva el uniforme completo", le digo intentando ser sarcástico. Se va la Erika. Al rato regresa con el uniforme puesto. "¿Adónde vas?", le pregunto. "Al pueblo", responde. "Pero, ¿cómo se te ocurre ir de uniforme?", le pregunto/regaño. "Pues así me dijiste", dice que le dije. Entiendo que es inútil tratar de explicar las cualidades de la ironía sutil, así que sólo ordeno: "No, ponte de civil y quítate esas botas". Se va. Al rato regresa, con ropa civil... y descalza. Yo suspiré, ¿qué otra cosa podía hacer?
No le crean a la Erika, mi bota no está rota. Está descosida, que no es lo mismo. Además, es un ojillo el que se ha desprendido, y por eso el entrecruce de las agujetas parece sistema político en el neoliberalismo, o sea que es un revoltijo y no se sabe adónde va la derecha y adónde va la izquierda. Le estoy explicando esto a Rolando cuando llega...
La Toñita Primera-Generación, o sea la Toñita I (la del beso negado porque "mucho pica", la de la tacita rota, la del olote de maíz habilitado como muñeca), tiene ya 15 años. "O sea que cumplió 14 pero entró en 15, o sea que ya va para 16", me dice su papá, un responsable zapatista de los más antiguos con nosotros.
Yo asiento, sin confesar que nunca he entendido las altas matemáticas que rigen los calendarios en las comunidades rebeldes zapatistas (después de tratar de explicarme, inútilmente, el Monarca se resigna y sólo agrega: "Creo que es porque así es nuestro modo, que de por sí es muy otro").
El papá de la Toñita I (o sea la Toñita Primera-Generación) viene para que yo la mire, porque tiene más de 10 años que la vi por última vez. Diez años no pasan en vano, así que la Toñita I no sólo no me niega un beso, sino que, sin que yo alcance a decir nada, me abraza y me estampa un beso en la acolchada mejilla del pasamontañas y se pone de todos colores (la Toñita I, no el pasamontañas). Yo no digo nada, pero pienso "Mmh, ando mal este año... y eso que no me he quitado el pasamontañas ni para bañarme".
Entonces la Toñita I saca de una su mochila unas sus botas y se las pone. Yo voy a preguntarle por qué se pone las botas después de caminar descalza seis horas desde su pueblo, en lugar de ponérselas para el camino y quitárselas al llegar, pero la Toñita I se adelanta y me pregunta si puede ir "allá" - y señala para donde están un grupo de insurgentas -. La Toñita I sabe lo que un beso, manque sea sobre el pasamontañas, puede conseguir, así que no espera la respuesta y se va.
Mientras la Toñita I corre a ver si la dejan jugar en el partido de futbol de las insurgentas, su papá me cuenta de su pueblo (al que yo siempre he llamado, cuidando de que nadie me escuche, "Cumbres Borrascosas"). He alcanzado a ver la cicatriz de un rasguño en el brazo izquierdo de la Toñita I, así que le pregunto de eso.
Me cuenta el papá de la Toñita I que un joven del pueblo quería llevársela a la letrina. (Nota: le aclaro al improbable lector de estas líneas que la letrina en algunos pueblos no sólo cumple sus olorosas funciones higiénicas, también suele ser lugar de encuentro de parejas. No son pocos los matrimonios en comunidades que tienen como origen el nada romántico sitio de la letrina. Fin de la Nota.) El caso es que la Toñita I no quiso ir a la letrina. "O sea que no era su gusto", me confirma su papá. Y entonces el muchacho la quiso obligar y entonces, "como no era su gusto" - reitera su papá -, forcejearon. La Toñita I logró escaparse pero, como luego dicen, se publicó y el asunto llegó a la asamblea del pueblo. Me cuenta su papá de la Toñita I que la querían meter a ella a la cárcel. Yo interrumpo: "¿Pero por qué, si a ella la atacaron y hasta trae rasguñado el brazo?" "Ah, Sup, es que viera cómo quedó el joven... - me dice el papá -, de plano quedó privado, y es que la Toñita es, como luego se dice, muy brava."
La Toñita I, además de un rostro agraciado, tiene un físico corpulento, o sea que... ¿cómo les explico?, bueno, para que me entiendan sólo les diré que Rolando quiere que juegue de defensa central en la selección zapatista de futbol.
"Pero el equipo de las insurgentas ya está completo", le digo a Rolando. El sólo agrega: "Acaso es para el equipo de insurgentas, yo la quiero para el equipo de los hombres". En eso pasan las de sanidad con dos insurgentas bastante golpeadas. La Toñita I está llorando porque por su culpa le marcaron dos penaltis a su equipo. Yo entiendo a Rolando y volteo hacia el papá y le pregunto. "¿No ha dicho la Toñita si quiere ser insurgenta?"
La Toñita I se quitó las botas y las puso en una su mochila. Se va con su papá, caminando descalza.
No tiene mucho que se fue cuando aparece, acompañando a su mamá... la Toñita Segunda-Generación, o sea la Toñita II.
La mamá de la Toñita II, o Segunda Generación, se llama Elena. Es teniente insurgenta de sanidad y cuenta en su haber que en enero de 1994 salvó la vida de varios insurgentes y milicianos que salieron heridos de los combates de Ocosingo. En un más que modesto hospital de campaña, Elena operó heridas de bala y extrajo pedazos de metralla del cuerpo de zapatistas. "Se nos murió un compa", dijo cuando informó. No mencionó a los más de 30 combatientes, que hoy viven y luchan en estas tierras, a los que salvó.
La Toñita II tiene tres años. "¿O sea que cumplió dos y va para cuatro?", me adelanto a la explicación de Elena. Ella ríe. Quiero decir, Elena ríe. Porque la Toñita II está pegando unos chillidos dignos de mejor causa. Y es que resulta que, asumiendo mi mirada coqueta (la número 7 de mi exclusivo "catálogo de miradas seductoras") le pedí un beso. La Toñita II ni siquiera dijo "mucho pica" (o sea que no es un versión mejorada), simplemente se echó a llorar con tal vehemencia que ya tiene a su lado a un grupo de insurgentas que le ofrecen caramelos, una bolsita con cara de conejo (aunque a mí me parece que tiene cara de tlacuache -la bolsita, se entiende-), y hasta le están cantando la del chivito, una rola que tiene inusitado éxito entre los niños y niñas zapatistas.
"No te quieren", me dice, lloviendo sobre mojado, la mayor Irma. Yo respondo: "Bah, está loca por mí", y hago como que no tengo roto el corazón.
Saliendo de la bodega, Rolando me da una de esas agujas llamadas "capoteras" y un rollo de hilo de nailon.
Ya en la champa de la comandancia general del EZLN dudo...
Si no sé cuál es la velocidad del sueño, tampoco sé si remendarme las botas o el corazón.

Desde las montañas del Sureste mexicano.
Subcomandante insurgente Marcos

(Continuará...)




Stivali

L’alba sulle montagne del Sudest messicano non corre. Come non avesse fretta, si crogiola in tutti e in ognuno degli angoli, come un amante paziente ed affezionato. La nebbia le scivola dalla mano, con il suo lungo abito di nuvola, e riesce a coprire la luce più intensa, l’accerchia, la circonda con la sua coltre di nuvola, la racchiude in un ampio circolo. Dalla metà del cielo, la luna batte in ritirata. Una voluta di fumo si confonde con la foschia, lentamente, con la stessa lentezza con la quale la nuvola, sotto l’ampio volo del suo nagua, copre le capanne sparse. Tutti dormono. Tutti meno Ombra. Tutti sognano. Soprattutto Ombra. Tende appena la mano ed afferra una domanda.
Qual è la velocità del sogno?
Non so. Forse è… Ma no, non lo so…
In realtà, qua, quello che si sa, si sa in maniera collettiva.
Sappiamo, per esempio, che siamo in guerra. E non mi riferisco solo alla guerra propriamente zapatista che non cessa di soddisfare le bramosie di sangue di alcuni mezzi di comunicazione e di alcuni intellettuali “di sinistra”, così attenti, gli uni, alla quantità di morti, feriti e scomparsi, e gli altri a tradurre i morti in errori “per non aver fatto quello che io avevo detto loro di fare”.
Non solo, parlo anche di quella che noi chiamiamo “IV Guerra Mondiale” dichiarata dal neoliberismo contro l’umanità. Quella in atto su tutti i fronti e in ogni luogo, comprese le montagne del Sudest messicano. La stessa che si combatte in Palestina e in Iraq, in Cecenia o nei Balcani, in Sudan o in Afghanistan, con eserciti più o meno regolari. Quella che il fondamentalismo dell’una e dell’altra fazione porta in tutti gli angoli del pianeta. Quella che, assumendo forme non militari, miete vittime in America Latina, nell’Europa Sociale, in Asia, in Africa, in Oceania, nel Lontano Oriente, con bombe finanziarie che mandano in pezzi interi stati nazionali ed organismi internazionali.
Questa guerra che, secondo noi (insisto: tendenzialmente) vuole distruggere/spopolare territori, ricostruire/riordinare le geografie locali, regionali e nazionali e creare, con il ferro e con il fuoco, una nuova cartografia mondiale. Quella che, sul suo percorso, continua a lasciare la sua firma: la morte.
Forse la domanda “qual è la velocità del sogno?” dovrebbe essere accompagnata dalla domanda “qual’è la velocità dell’incubo?
Ancora alcune settimane prima degli attentati terroristici dell’11 marzo 2004 in Spagna, un giornalista-analista politico messicano (di quelli a cui quando si dà un dolcetto si sciolgono in lodi ridicole) lodava la visione “dello Stato” di José María Aznar.
L’analista diceva che, affiancando gli Stati uniti e la Gran Bretagna nella guerra contro l’Iraq, Aznar aveva ottenuto una promettente possibilità di espandere l’economia spagnola e che l’unico costo che doveva pagare era il dissenso di una “piccola” parte della popolazione spagnola, “i radicali che non mancano mai, perfino in una società tanto fortunata come quella spagnola”, ha detto “l’analista”. Aggiungendo che gli spagnoli avrebbero dovuto solo aspettare comodamente seduti che l’affare della ricostruzione dell’Iraq si mettesse in marcia ed allora sì, avrebbero cominciato a riscuotere carrettate di denaro. Insomma, un sogno.
La realtà non ha tardato a passare per riscuotere il vero conto della “visione dello Stato” di Aznar. Quella mattina dell’11 di marzo si realizzava quella circostanza per cui l’Iraq non sta in Iraq, voglio dire non solo in Iraq, bensì in tutto il mondo. Alla fine, la stazione di Atocha è divenuta sinonimo di incubo. Prima dell’incubo c’era il sogno, ma il sogno neoliberista. Molto prima degli attentati terroristici dell’11 settembre 2001 in territorio statunitense, la guerra contro l’Iraq si era messa in moto.
Non c’è niente di meglio di una foto per riandare a quell’inizio…
Suolo piatto, rossiccio. Sembra essere duro. Forse argilla o qualcosa di simile. Uno stivale. Solo, senza il suo compagno. Abbandonato. Senza un piede che lo calzi. Alcune macerie sparse. In realtà, lo stivale sembra una maceria in più. È tutto quello che c’è nell’immagine, cosicché è la didascalia della foto a chiarire che si tratta dell’Iraq. La data? 2004, settembre.
Non si riesce a distinguere se è lo stivale di qualcuno che è morto, che l’ha abbandonato nella fuga, o se si tratta semplicemente e normalmente di uno stivale buttato via. Non si sa neanche se è lo stivale di un soldato statunitense o britannico, o di un combattente della resistenza, di un civile iracheno o di un altro paese.
Tuttavia, nonostante la mancanza di altre informazioni, l’immagine dà un’idea di quello che è l’Iraq del “dopoguerra” di Bush: violenza, morte, distruzione, desolazione, confusione, caos.
Tutto un programma neoliberista.
Se il falso argomento che la guerra contro l’Iraq era una guerra “contro il terrorismo” è venuto meno, le vere ragioni emergono ora, più di un anno dopo che, con l’aiuto dei carri armati da guerra statunitensi, è stata abbattuta la statua di Hussein ed un euforico Bush ne ha eretta un’altra a se stesso dichiarando la fine della guerra. (Probabilmente, la resistenza irachena non ha ascoltato il messaggio di Bush: il numero di soldati statunitensi e britannici morti e feriti non ha fatto altro che aumentare da quando “è finita la guerra”, ed ora si aggiungono le morti di civili provenienti da varie nazioni).
L’ideologia neoconservatrice negli Stati Uniti ha un sogno: costruire la “disneylandia” neoliberista. Invece del “villaggio modello”, come dettano i manuali di contro-insurrezione degli anni sessanta, si è tentato di costruire una “nazione modello”. Si è scelto allora il territorio dell’antica Babilonia.
Il sogno della costruzione di un “esempio” di quello che deve essere il mondo (sempre secondo i neoliberisti) si è nutrito della “(…) più apprezzata credenza tra gli architetti ideologici della guerra (contro l’Iraq): che l’avidità è buona. Non solo buona per loro ed i loro amici, ma buona per l’umanità e certamente buona per gli iracheni. L’avidità crea guadagni, i quali creano crescita, la quale crea lavoro, prodotti e servizi e qualunque altra cosa di cui qualcuno possa aver necessità o desiderio. Il ruolo di un buon governo, quindi, è quello di creare le condizioni migliori perché le corporations, le multinazionali, sviluppino la loro avidità senza fondo, in modo che, a turno, possano soddisfare le necessità della società. Il problema è che i governi, anche i governi neoconservatori, hanno raramente l’opportunità di sperimentare quanto sia corretta la loro sacra teoria: nonostante i loro enormi sforzi ideologici, perfino i repubblicani di George Bush, nei loro stessi vertici, sono eternamente sabotati da impiccioni democratici, sindacati ostinati ed allarmati ambientalisti. L’Iraq doveva cambiare tutto questo. In un luogo della Terra, finalmente la teoria sarebbe stata messa in pratica nella sua forma più perfetta e pura. Un paese di 25 milioni di abitanti non sarebbe stato ricostruito come era prima della guerra: sarebbe stato cancellato, sarebbe scomparso. Al suo posto sarebbe sorta una luccicante sala d’esposizione per le politiche del laissez-faire, un’utopia come il mondo non aveva mai visto”. (“Baghdad anno zero. Il saccheggio dell’Iraq dietro un’utopia neoconservatrice”, Naomí Klein, Harper’s Magazine, settembre 2004).
Invece l’Iraq è un esempio, sì, ma di ciò che aspetta il mondo intero se i neoliberisti vincono la grande guerra, la IV Guerra Mondiale: disoccupazione quasi al 70 per cento, l’industria ed il commercio paralizzati, aumento esorbitante del debito estero, muri anti-attentato ovunque, crescita esponenziale del fondamentalismo, guerra civile… ed esportazione del terrorismo in tutto il pianeta.
Non voglio sommergervi con qualcosa che quotidianamente trovate nei notiziari: offensive militari della coalizione (attenzione: in una guerra che “è già finita”), mobilitazione della resistenza irachena, attentati, attacchi ad obiettivi militari e civili, sequestri, esecuzioni, nuove offensive della coalizione, nuova mobilitazione della resistenza irachena, eccetera. Sono sicuro che potrete trovare esaurienti informazioni sulla stampa di tutto il mondo. In lingua spagnola, senza dubbio la miglior fonte è il quotidiano messicano La Jornada che conta tra i suoi collaboratori alcuni degli analisti più seri e documentati sulla questione dell’Iraq.
La cosa sicura è che questo video l’abbiamo già visto prima da altre parti… e continuiamo a vederlo: Cecenia, i Balcani, Palestina, Sudan, sono solo esempi di questa guerra che distrugge nazioni per cercare di “riconvertirle” in “paradisi”… e finiscono per essere trasformate in inferni.
Uno stivale abbandonato sulle terre dell’Iraq “liberato” riassume il nuovo ordine mondiale: la distruzione di nazioni, la desertificazione di qualsiasi segno di umanità, la ricostruzione come riordinamento caotico delle rovine di una civiltà.
Tuttavia, ci sono altri stivali, anche se pochi…
Stivali rotti. Sì, gli stivali “dell’insurgenta” Erika sono rotti. Nella punta destra, davanti, la suola è staccata e conferisce allo stivale l’aspetto di una bocca affamata. Le dita non sono ancora visibili, cosicché la Erika non sembra essersi accorta che i suoi stivali, precisamente il destro, sono rotti.
Fin dai primi giorni in montagna, guardare verso il basso è diventata per me un’abitudine. La calzatura normalmente è uno dei sogni/incubi del guerrigliero (Altri? Lo zucchero, avere i piedi asciutti ed altre ossessioni piuttosto umide), cosicché egli le dedica buona parte della sua attenzione. Forse per questo motivo si prende la mania di guardare sempre i piedi degli altri.
La insurgenta Erika è venuta ad avvisarmi che avevano appena pubblicato il racconto “L’arancia magica” (ultima produzione di Radio Insurgente che racconta di… bene, è meglio ascoltarlo). Io le rispondo che ha lo stivale rotto. Lei abbassa lo sguardo e mi dice “anche tu”. Saluta militarmente e va via.
La Erika si cambia perché tra poco giocheranno a pallone due squadre di “insurgentas”, una si chiama “8 Marzo” e l’altra “Le Principesse della Selva”. Non so molto di calcio ma, a mio parere, le “principesse” giocano con un stile abbastanza lontano dalle buone abitudini della corte reale, e quelle del “8 Marzo” giocano come si trattasse dell’insurrezione del primo gennaio [del 1994, quando l’Esercito zapatista insorse in Chiapas, ndt.]. Cioè, buona parte di loro finisce in infermeria. Ogni volta che giocano, le addette alla sanità tengono la barella a lato del campo. “Per non fare il giro”, dicono.
Hanno poi pareggiato. Cioè, le “insurgentas” hanno pareggiato giocando a calcio. Sono andate ai rigori perché continuavano a restare in pareggio. La “insurgenta” Erika viene a dirmi questo. La Erika è la consulente sentimentale delle “insurgentas”, ma questa volta non viene a raccontarmi che ad una compagna “duole il cuore” per il mal d’amore, ma che la partita è finita e lei va a parlare con il villaggio, più in concreto con le donne dei villaggi. Si presenta come civile, cioè con abiti civili. Questo è quello che dice. Perché io vedo che porta degli stivali fabbricati dall’artigianato zapatista e che hanno sul lato il marchio “Ezln”.
Mmh, se porti quegli stivali, allora tanto vale che indossi l’uniforme completa”, le dico cercando di essere sarcastico. La Erika se ne va. Dopo un momento ritorna con l’uniforme. “Dove vai?”, le domando. “Al villaggio”, risponde. “Ma come ti viene in mente di andarci in uniforme?”, le domando/rimprovero. “Perché così mi hai detto tu.”, mi dice di averle detto. Capisco che è inutile tentare di spiegare le qualità della sottile ironia, quindi le ordino: “No, mettiti in abiti civili e togliti quegli stivali”. Se ne va. Dopo un attimo ritorna con abiti civili… e scalza. Ho sospirato, che cos’altro potevo fare?
Non credete alla Erika, il mio stivale non è rotto. È scucito, e non è la stessa cosa. Si staccato un occhiello ed è per questo che l’incrocio delle stringhe sembra il sistema politico nel neoliberismo, cioè, un groviglio in cui non si sa dove va la destra e dove va la sinistra. Sto spiegando questo a Rolando quando arriva…
La Toñita Prima-Generazione, cioè la Toñita I (quella del bacio negato perché “pizzica tanto”, quella della tazzina rotta, quella dell’olote di mais promosso a bambola): ha già 15 anni. “Cioè ha compiuto i 14 ma è entrata nei 15, cioè va per i 16”, mi dice suo papà, un responsabile zapatista dei più vecchi tra noi.
Io mi siedo, senza confessare che non ho mai capito le misure matematiche che regolano i calendari nelle comunità ribelli zapatiste (dopo aver tentato inutilmente di spiegarmelo, il Monarca si rassegna ed aggiunge solo: “Credo che sia perché così è il nostro modo, che effettivamente è molto diverso”).
Il papà della Toñita I (cioè della Toñita Prima-Generazione) è venuto perché io la vedessi, perché sono passati più di dieci anni da quando l’ho vista l’ultima volta. Dieci anni non passano invano, cosicché la Toñita I non solo non mi nega un bacio, ma senza che io riesca a dire niente mi abbraccia e mi stampa un bacio sulla guancia ovattata dal passamontagna, e diventa tutta rossa (la Toñita I, non il passamontagna). Io non dico niente ma penso "Mmh, si mette male…" e non mi sono tolto il passamontagna neanche per lavarmi.
Intanto la Toñita I tira fuori dal suo zaino degli stivali e se li mette. Io sto per domandarle perché si mette gli stivali dopo avere camminato scalza per sei ore dal suo villaggio a qui, invece di metterseli per il cammino e toglierseli all’arrivo, ma la Toñita I mi precede e mi domanda se può andare “”, e indica dove c’è un gruppo di “insurgentas”. La Toñita I sa quello che si può ottenere con un bacio, anche se sul passamontagna, così non aspetta la risposta e corre via.
Mentre la Toñita I corre a vedere se la lasciano giocare nella partita di calcio delle “insurgentas”, il padre mi racconta del suo villaggio (che io ho sempre chiamato, stando attento che nessuno mi sentisse, “Cime tempestose”). Sono riuscito a vedere la cicatrice di una ferita sul braccio sinistro della Toñita I, così gli domando cos’è. Il papà della Toñita I mi racconta che un giovane del villaggio voleva portarsela nella latrina. (Nota: chiarisco all’ignaro lettore di queste righe che la latrina in alcuni villaggi non adempie solo alle sue odorose funzioni igieniche, ma suole essere anche luogo di incontro di coppie. Non sono pochi i matrimoni in comunità che hanno come origine il per nulla romantico luogo della latrina. Fine della Nota). Il caso vuole che la Toñita I non ha voluto andare alla latrina. “Cioè non le piaceva”, mi conferma suo papà. Allora il ragazzo ha cercato di obbligarla e, “dato che non le andava” – ribadisce suo papà – hanno lottato. La Toñita I è riuscita a fuggire ma, come succede, la cosa si è risaputa ed è giunta fino all’assemblea del villaggio. Il papà della Toñita I mi racconta che la volevano mettere in prigione. Io lo interrompo: “Perché, se è lei che è stata aggredita ed ha persino il braccio ferito?”. “Ah, Sup, avessi visto com’era ridotto il giovanotto… – mi dice il papà – praticamente è rimasto menomato, il fatto è che la Toñita, come si dice, è molto selvaggia”.
La Toñita I, oltre ad un viso grazioso, ha un fisico forte, cioè, come spiegarvi? Beh, per farvi capire vi dirò solo che Rolando vuole che giochi al centro della difesa nel torneo zapatista di calcio.
Ma la squadra delle ‘insurgentas’ è già al completo”, dico a Rolando. Lui aggiunge solo: “Non è per la squadra delle ‘insurgentas’, io la voglio per la squadra degli uomini”. In quel momento passano le addette alla sanità con due “insurgentas” piuttosto peste. La Toñita I sta piangendo perché per colpa sua hanno rifilato due rigori alla squadra. A questo punto capisco Rolando, mi rivolgo al papà e gli domando: “La Toñita non ha detto se vuole diventare insurgenta?”.
La Toñita I si è tolta gli stivali e li ha messi nel suo zaino. Se ne va con suo papà, camminando scalza.
Non è molto che se n’è andata quando, accompagnata da sua mamma… appare la Toñita Seconda-Generazione, cioè la Toñita II.
La mamma della Toñita II, o Seconda Generazione, si chiama Elena. È tenente “insurgenta” di sanità ed ha il merito di aver salvato la vita di diversi insorti e miliziani che, nel gennaio 1994, erano stati feriti nei combattimenti di Ocosingo [lo scontro più cruento del primo gennaio ‘94, quando l’esercito federale aprì il fuoco sugli insorti in un mercato, ndt.]. In un più che modesto ospedale da campo, Elena ha operato ferite d’arma da fuoco ed estratto pezzi di mitraglia dal corpo degli zapatisti. “Ci è morto un compa” [familiare per “compañero”, ndt.], mi diceva allora. Non menzionava gli oltre 30 combattenti che oggi vivono e lottano in queste terre: quelli che salvò.
La Toñita II ha tre anni. “Cioè, ne ha compiuti due e va per i quattro?”, mi affretto a dire prima della spiegazione di Elena. Lei ride. Voglio dire, Elena ride. Perché la Toñita II sta lanciando delle urla degne di nota. È che, con uno sguardo civettuolo [il numero 7 del mio esclusivo “catalogo” di sguardi seduttori] le ho chiesto un bacio. La Toñita II non ha neppure detto “pizzica tanto” (cioè, non è una versione migliorata), semplicemente si è messa a piangere con tale veemenza che ha già al suo fianco un gruppo di “insurgentas” che le offrono caramelle, un sacchetto con un muso di coniglio, anche se a me sembra di tlacuache [mammifero marsupiale, ndt.], il sacchetto, si capisce, e stanno persino cantandole la canzoncina del capretto, una canzonetta che gode di un inusitato successo tra i bambini e le bambine zapatiste.
Non ti vuole”, mi dice la maggiore Irma facendo piovere sul bagnato. Io rispondo: “Bah, è pazza di me”, e fingo di non avere il cuore a pezzi.
Uscendo dallo spaccio, Rolando mi dà uno di quegli aghi chiamati “da cappotto” e un rotolo di nylon.
Nella capanna del comando generale dell’Ezln rifletto dubbioso…
Se non so qual è la velocità del sogno, non so nemmeno se ricucirmi gli stivali o il cuore.

Dalle montagne del Sudest messicano.
Subcomandante insurgente Marcos


[Continua…]

سجل

سجل
أنا عربي
و رقم بطاقتي خمسون ألف
و أطفالي ثمانية
و تاسعهم سيأتي بعد صيف
فهل تغضب
سجل
أنا عربي
و أعمل مع رفاق الكدح في محجر
و أطفالي ثمانية
أسل لهم رغيف الخبز
و الأثواب و الدفتر
من الصخر
و لا أتوسل الصدقات من بابك
و لا أصغر
أمام بلاط أعتابك
فهل تغضب
سجل
أنا عربي
أنا إسم بلا لقب
صبور في بلاد كل ما فيها
يعيش بفورة الغضب
جذوري
قبل ميلاد الزمان رست
و قبل تفتح الحقب
و قبل السرو و الزيتون
و قبل ترعرع العشب
أبي من أسرة المحراث
لا من سادة نجب
وجدي كان فلاحا
بلا حسب و لا نسب
يعلمني شموخ الشمس قبل قراءة الكتب
و بيتي كوخ ناطور
من الأعواد و القصب
فهل ترضيك منزلتي
أنا إسم بلا لقب
سجل
أنا عربي
و لون الشعر فحمي
و لون العين بني
و ميزاتي
على رأسي عقال فوق كوفية
و كفى صلبة كالصخر
تخمش من يلامسها
و عنواني
أنا من قرية عزلاء منسية
شوارعها بلا أسماء
و كل رجالها في الحقل و المحجر
يحبون الشيوعية
فهل تغضب
سجل
أنا عربي
سلبت كروم أجدادي
و أرضا كنت أفلحها
أنا و جميع أولادي
و لم تترك لنا و لكل أحفادي
سوى هذي الصخور
فهل ستأخذها
حكومتكم كما قيلا
إذن
سجل برأس الصفحة الأولى
أنا لا أكره الناس
و لا أسطو على أحد
و لكني إذا ما جعت
آكل لحم مغتصبي
حذار حذار من جوعي
و من غضبي

محمود درويش


















Scrivi: sono un arabo;
la mia carta porta il numero cinquantamila.
Ho otto bambini,
e il nono nascerà dopo l’estate.
Ti dispiace forse?

Scrivi: sono un arabo;
impiegato con i compagni di miseria in una cava,
ho otto bambini
per i quali dalla roccia
ricavo il pane,
i vestiti ed il quaderno.
Non chiedo la carità alle vostre porte
né mi umilio davanti alle piastrelle dei gradini.
Ti dispiace forse?

Scrivi : sono un arabo;
un nome senza titolo
e resto paziente in una terra
dove tutto vive con impulso di furia.
Le mie radici si sono ancorate qua,
prima del nascere del tempo
prima dell’apertura delle ere
anteriormente ai cipressi, agli uliveti
ed al crescere dell’erba.

Mio padre viene dalla stirpe dell’aratro,
non è un figlio di signori privilegiati,
mio nonno pure era un contadino
né ben cresciuto, né ben nato!
Mi insegnava l’orgoglio del sole
prima di insegnarmi la lettura dei libri.
La mia casa è la guardiola di un custode
fatta di rame e di canna.
Sei soddisfatto della mia posizione?
Ho un nome senza titolo!

Scrivi: sono un arabo;
dai capelli color carbone
e dagli occhi bruni.
La mia descrizione:
un akal sulla kufiyya copre il mio capo;
e il palmo della mano duro come la roccia,
graffia chi lo oserebbe toccare.
Il mio indirizzo è:
un villaggio disarmato, dimenticato
dalle vie senza nomi.

Scrivi: sono un arabo;
avete rubato la vigna dei miei nonni
e la terra che coltivavo
insieme ai miei figli.
Senza lasciare a noi nulla
né ai nostri nipoti
se non queste rocce.
E’ forse vero che il vostro stato
prenderà anche queste
come si mormorava?

Allora!
scrivilo in cima alla prima pagina:
non odio la gente
né aggredisco nessuno,
ma se divento affamato
la carne dell’usurpatore sarà il mio cibo.

Attenzione!
Guardativi
dalla mia collera
e dalla mia fame!

Mahmud Darwish


كنّا نجلسُ عاريين في الصحراء

(1)
* ما اسمكَ أيها الشاعر؟
- اسمي الطائر.
* وبعد؟
- السمكة.
* السمكة؟
- نعم.
* ذلك ممتع!

(2)
* ما لون البحرِ أيها الشاعر؟
- السفن والنساء.
* وما لون الحريّة؟
- الخبز والملح.
* الخبز والملح؟
- نعم.
* ذلك طريف!

(3)
* وكيفَ تكتب؟
- أدخلُ في الحرف
أتمنطقُ بسرِّ الحرف
أبكي، أتأمّلُ، أغفو
أحلمُ، أهذي، أرقصُ، وأموت.
* وتموت؟
- نعم.
* ذلك محزن!

(4)
* والنقطة، كيفَ تصفُ النقطة؟
- النقطة أمّي وأبي.
* وإذنْ، قضّيتَ طفولتكَ معها؟
- وقضّيتُ صباي وشبابي ودهري الأعمى.
* هل كنتَ سعيداً؟
- نعم،
إذ عشتُ وسط النقطةِ كالسمكة
وكانت النقطةُ بحراً يمتدّ ويمتدّ
إلى ما شاءَ الله.
* وهل رأيتَ الله؟
- لا.
* لِِمَ؟
- لأنّ الله في قلبي شمس تتكلم.
* الله شمس تتكلمُ في قلبك؟
- نعم
* ذلك غريب!

(5)
* حسناً، وكيف ستموت؟
- إذا تاهَ الطائرُ في أرضِ الله.
* وبعد؟
- إذا تاهت السمكةُ في بحرِ الله.
* وبعد؟
- إذا التقطَ الطائرُ السمكة.
* ذلك مدهش!

أديب كمال الدين
________

(1)
- Oh poeta come ti chiami ?
- Uccello
- E poi?
- Pesce
- Pesce?
- Sì
- Questo è divertente!

(2)
- Di che colore è il mare?
- Il suo colore è fatto di barche e di donne
- E la libertà che colore ha?
- Ha il colore del pane e del sale
- Del pane e del sale?
- Sì
- Questo è simpatico!

(3)
- E come scrivi?
- Entro dentro la lettera, mi avvolgo con il suo segreto,
piango e mi addormento.
Sogno, deliro, ballo e poi muoio
- e poi muori?
- Sì
- Questo è triste!

(4)
- E il punto come lo descrivi?
- Egli è mia madre e mio padre
- E allora vuol dire che hai passato la tua infanzia con esso?
- E con esso ho passato anche la mia gioventù ed il mio tempo cieco
- Ed eri contento?
- Sì, perché ho vissuto dentro il punto come un pesce;
e il punto era un mare che si distendeva sempre di più
sino all’infinito
- E Dio l’hai visto poi?
- No
- E perché
- Perché Dio è un sole che parla dentro il mio cuore
- Dio è un sole che parla dentro il tuo cuore?
- Sì
- Questo è strano!

(5)
- Va bene, e come morirai?
- Quando si smarrirà l’uccello sulla terra di Dio
- E poi?
- Quando si smarrirà il pesce nel mare di Dio
- E poi?
- E poi quando l’uccello beccherà il pesce
- Questo è stupendo!

Adeeb Kamal Ad-deen



(1)
كنّا نجلسُ عاريين في الصحراء
حين اقترب منّا حصانان أسود وأحمر
فقمتِ بعينين دامعتين
وقبلتني القبلة الأخيرة
فدهشتُ
ثم امتطيتِ الحصانَ الأسود
وقلتِ بصوتٍ مرتجفٍ: وداعاً
فذهلتُ
لكني قلتُ لنفسي
سأمتطي الحصانَ الأحمر
إن عصفَ بي الشوق
وعذّبني الحبّ
هكذا اقتربتُ من جسدكِ العاري
لأقبّل شفتيكِ وثدييك
ولأراك تختفين مثل سهمٍ في الصحراء.


(2)
مرّت ساعاتُ الذهول
ساعة إثر أخرى
وأنا أنظرُ إلى جسدكِ العاري
يمتطي الحصانَ الأسودَ ويختفي في الأعماق
ثم سرعان ما عصفَ بي الشوق
وعذّبني الحبّ
فالتفتُ إلى حصاني الأحمر
لم أجده
ووجدتُ الشمسَ تغيبُ على امتداد الصحراء
مثل أسدٍ أحمر.

أديب كمال الدين‎
__________

(1)
Eravamo seduti nudi nel deserto
quando si avvicinarono a noi
due cavalli, uno nero e l’altro rosso.
Ti eri alzata piangente
dandomi l’ultimo bacio.
Rimasi sorpreso
e poi montasti il cavallo nero
dicendomi addio, con voce tremolante.
Rimasi perplesso
però pensai che dovevo
montare il cavallo rosso,
in caso mi avesse assalito
la nostalgia di te
a farmi soffrire d’amore.
E così mi ero avvicinato al tuo corpo
per baciare le tue labbra e i tuoi seni,
mentre sparivi, come una lancia
dentro il deserto.

(2)
Passarono le ore della perplessità,
una dopo l’altra,
mentre guardavo il tuo corpo nudo
che montava
il cavallo nero e scompariva
nelle profondità.
Ma avvertii subito la nostalgia di te,
e il mal d’amore.
Girai su me stesso
per montare il mio cavallo rosso,
mentre mi accorgevo del sole,
che stava tramontando come un leone rosso.

Adeeb Kamal Ad-deen

El viento trae



El viento trae una copla,
recuerdos de huracán
que un día me partió un ala
y me hizo caer,
hasta que me arrastré.
Nuestra bandera flameaba
en medio del temporal.
Del norte el frío mataba,
se hizo dura la piel,
el terror fue la ley.
Y no olvidé nada,
que plantamos ilusión
en la pampa mojada,
que sudaba, como yo,
inevitable ausencia.
Y no me saqué el anillo,
ni el cielo, la Cruz del Sur,
ni mi titilar de grillo,
que por las noches canta,
porque extraña a su amor.
Y sigo lavando copas
de gente mejor que yo;
si puedo, bebo las sobras:
el mezcladito me enciende.
Y me pongo loco,
fantaseo con el mar,
de irme nadando,
de volverte a tocar.
Y me pongo manco,
manos de inutilidad,
dejé allá mi sangre,
y hoy me tengo que inventar...
¡Sì soy argentino!
El viento trae una copla...
Nuestra bandera flameaba...
Yo sigo lavando copas...

الفرق

تسئلني حبيبتي
مالفرق بيني وبين ... السماء
الفرق ما بينكما
انكي ان ضحكتي يا حبيبتي
انسى السماء

نزار توفيق قباني



L'amor mio mi chiede:
"Qual è la differenza
tra me e... il cielo?
"

La differenza è che se tu ridi
- amore mio -
io mi dimentico il cielo.

Nizār Tawfīq Qabbānī


Todavía falta lo que falta…



Lo cuento como le contaron. Fue hace tiempo, mucho. No hay calendario que lo ubique. El lugar en que ocurrió no tiene geografía que lo señale. Sombra, el guerrero, todavía no era guerrero ni era aún Sombra. Cabalgaba la montaña cuando le dieron la noticia.
¿Dónde?”, preguntó.
Allá, donde la hendidura de la montaña”, fue la vaga referencia que le dieron.
Cabalgó Sombra, que no era Sombra todavía. La noticia recorría las cañadas de extremo a extremo:
La Luna. Cayó. Así nomás. Como que se desmayó y se vino a caer. Despacito vino, como no queriendo. Como no me miren. Como no den cuenta. Pero bien que la miramos. Como que paró sobre el cerro y luego se fue rodando hasta el fondo del barranco. Allá fue. Claro lo vimos. Era luz, pues. La Luna era.”
Llegó Sombra al borde del barranco, se apeó del caballo. Despacio bajó al fondo. La encontró a La Luna. Con mecapal la rodeó. Sobre su espalda la cargó. Subieron Luna y Sombra montaña arriba. Sombra sobre el camino, Luna sobre Sombra. Llegaron hasta la punta más alta del cerro. Para lanzarla de ahí de nuevo al cielo, dijo Sombra. Para que de nuevo anduviera Luna los caminos de la noche. No quiero, dijo Luna. Acá quiero quedar, contigo. Tibia será mi luz para ti, en la noche fría. Fresca en el ardiente día. Tú me traerás espejos que multipliquen mi brillo. Contigo quedaré, acá. Sombra dijo no, el mundo, sus hombres y mujeres, sus plantas y animales, sus ríos y montañas, la Luna necesitan para bien mirar su paso en la oscuridad, para no perderse, para no olvidar quienes son, de donde vienen, a dónde van. Discutieron. Tardaron ahí. Los murmullos eran luces morenas, sombras luminosas. A saber qué más se dijeron. Tardaron. De madrugada se irguió Sombra y con el mecapal lanzó a La Luna de nuevo al cielo. Enojada iba Luna, molesta. En lo alto, en el lugar que los dioses primeros le dieron, quedó la Luna. Desde ahí Luna maldijo a Sombra. Así dijo:
Desde ahora Sombra serás. Luces verás pero no serás. Sombra caminarás. Guerrero serás. No habrá para ti rostro, ni casa, ni reposo. Sólo camino y lucha tendrás. Vencerás. Encontrarás, sí, a quien amar. Tu corazón hablará en tu boca cuando “te quiero” digas. Pero Sombra seguirás y nunca encontrarás quien te ame. Buscarás, sí, pero no encontrarás los labios que sepan decir “tú”. Así serás, Sombra, el guerrero, hasta que ya no seas
Desde entonces, Sombra es quien ahora es: Sombra, el guerrero.
A saber cuándo y dónde fue y será.
Todavía falta hacer ese calendario, todavía falta inventar esa geografía.
Todavía falta aprender a decir “”.
Todavía falta lo que falta…
Gracias.

Subcomandante Insurgente Marcos


Lo racconto come me lo raccontarono. Successe molto tempo fa. Non c’è un calendario che possa dire quando. Il luogo in cui accadde non ha geografia che lo indichi. Ombra, il guerriero, non era ancora guerriero, né era ancora Ombra. Cavalcava la montagna quando gli dettero la notizia.
Dove?”, domandò.
Là, nella fenditura della montagna”, fu il vago riferimento che gli diedero.
Cavalcò Ombra, che non era ancora Ombra. La notizia percorreva le valli da un estremo all’altro:
La Luna. E’ caduta. Così. Ha perso coraggio ed è caduta giù. Piano piano è venuta, come se non volesse. Come non guardatemi. Come non accorgetevene. Però noi sì che l’abbiamo guardata. Come si è fermata sulla montagna e poi è rotolata giù fino in fondo al burrone. Lì è stato. Chiaro l'abbiamo visto. Era luce, insomma. Era la Luna”.
Arrivò Ombra al bordo del precipizio, smontò da cavallo. Piano piano scese sul fondo. E lì trovò la Luna. La cinse con una corda. Se la caricò sulle spalle. Luna e Ombra salirono fino in cima alla montagna. Ombra sopra il cammino, Luna sopra Ombra. Arrivarono fino alla punta più alta. Per lanciarla di nuovo nel cielo, disse Ombra. Perché di nuovo camminasse Luna per i cammini della notte.
Non voglio, disse Luna. Qui voglio restare, con te. Tiepida sarà la mia luce per te, nella notte fredda. Fresca nel giorno ardente. Tu mi porterai specchi, che moltiplicheranno il mio brillare. Con te resterò, qui.
Ombra disse no, il mondo, i suoi uomini e donne, le piante e gli animali, i fiumi e le montagne, hanno bisogno della Luna per vedere bene i propri passi nell’oscurità, per non perdersi, per non dimenticare chi sono, da dove vengono, dove vanno. Discussero. Se ne stettero lì a lungo. I loro bisbigli erano luci scure, ombre luminose. Chissà cosa si dissero ancora. Se ne stettero lì a lungo. All’alba, Ombra si spazientì e con la corda lanciò la Luna di nuovo nel cielo. Arrabbiata andava Luna, molesta. Lì in alto, nel luogo che gli dei primigeni le avevano dato, restò Luna. Da lì Luna maledisse Ombra. Così disse:
Da questo momento sarai Ombra. Luce vedrai, ma non sarai. Ombra camminerai. Guerriero sarai. Non ci sarà volto per te, né casa, né riposo. Solo cammino e lotta. Vincerai. Incontrerai, sì, chi amare. Il tuo cuore parlerà nella tua bocca quando “ti amo” dirai. Però Ombra seguirai e mai incontrerai chi ti amerà. Cercherai, sì, però non incontrerai le labbra che sapranno dire “tu”. Così sarai, Ombra, il guerriero, fino a quando non sarai più.”
Da allora, Ombra è quello che è: Ombra, il guerriero.
Chissà quando e dove è stato e sarà.
Bisogna ancora fare questo calendario, bisogna ancora inventare questa geografia.
Bisogna ancora imparare a dire “Tu”.
Ancora manca quel che manca...
Grazie.

Subcomandante Insurgente Marcos


Puenteando sueños...



Estaba ya la tarde por dejar de serlo. Había ese gris brillante que anuncia también la madrugada. El Viejo Antonio terminó de acomodar dos costales de café pergamino y se fue a sentar a mi lado. Yo esperaba la llegada de un enlace que me ayudaría a cruzar por un poblado en el que no había compañeros. El cruce debía de ser de noche. Amanecía enero y amanecía 1986. Tiempos de esconderse todavía, de ocultarnos de aquellos de los que seríamos parte luego. Yo miraba hacia occidente y, emboscado detrás del humo de la pipa, trataba de soñar una mañana diferente.
El Viejo Antonio se quedó silencio y apenas si hizo el ruido necesario para forjarse con doblador uno de esos cigarrillos que anunciaban humo e historias. Pero el Viejo Antonio no habló. Quedó mirando adonde yo miraba y esperó, paciente, a que yo hablara:"­¿Hasta cuándo estaremos escondiéndonos de nuestra gente?" ­dije mientras la última bocanada de humo se escapaba por la cazuela de la pipa.
El Viejo Antonio carraspeó y se decidió por fin a encender el cigarro y la palabra. Despacito, como quien se alivia la esperanza, el Viejo Antonio realumbró la tarde con...

La historia de los 7 arcoiris

"Muy en el principio de los mundos que luego caminaron nuestros más grandes abuelos, los más grandes dioses, los que nacieron el mundo, los primeros, se bajaron a platicar con los hombres y mujeres de maíz. Era una tarde como ésta, de frío, lluvia y sol que parpadea. Se sentaron los más primeros dioses a platicar con los hombres y mujeres de maíz para hacer los acuerdos de los caminos que debían caminarse los hombres y mujeres verdaderos. Porque estos dioses, que eran los más primeros, los que nacieron el mundo, no eran mandones como los dioses que fueron llegando luego. No eran mandones los primeros dioses, buscaban el buen acuerdo entre ellos y con los hombres y mujeres de maíz. Buscaban siempre llegar al buen camino juntos, con buen acuerdo y buena palabra. Y entonces estaban esta tarde, que era de las primeras del mundo más primero, platicando los dioses más grandes con los hombres y mujeres de maíz, con sus iguales.
Acuerdo hacían de buscar los acuerdos buenos con otros hombres y mujeres, con otras lenguas y con otros pensamientos. Tenían que caminar los hombres y mujeres de maíz hasta muy lejos adentro de su corazón para buscar las palabras que otros hombres y mujeres, que otros colores, que otros corazones entendieran.
Y entonces sacaron acuerdo de los trabajos que debían hacer los hombres y mujeres de maíz para hacer un mundo bueno. Y entonces sacaron el acuerdo de que siete eran los trabajos más primeros, los más importantes para hacernos nuevos. Y hablaban los 7 primeros dioses, los que nacieron el mundo, diciendo que 7 eran los trabajos que debían cumplirse para que el mundo fuera bueno y nos hiciera nuevos. Decían los más grandes dioses que 7 debían de ser porque 7 eran los aires o los cielos que techo le ponían al mundo y así decían los dioses primeros que estos eran los siete cielos; el séptimo aire el de NOHOCHAACYUM, el gran padre Chaac. En el aire sexto los CHAACOB o dioses de la lluvia. En el quinto los KUILOB KAAXOB, los señores del yermo. En el cuarto aire los guardianes de los animales. En el aire tercero los malos espíritus. En el segundo los dioses del viento. En el primero, inmediatamente por encima de la tierra, los BALAMOB que guardan las cruces del pueblo y de las milpas. En las profundidades estaba KISIN, el dios del temblor y el miedo, el diablo.

­Y también decían los primeros dioses que 7 eran los colores y 7 su número en que se contaban. Y la historia de los colores ya te la conté en otro día y la de los 7 trabajos te la cuento después si es que hay tiempo y modo que la escuches y que yo te la hable" ­apura el Viejo Antonio al mismo tiempo que se agota el último resplandor en su cigarro.
Después viene el silencio en el que el Viejo Antonio reforja humo y sueños. Un diminuto relámpago en el cerillo de su mano y se sigue el fuego:
"Y entonces los hombres y mujeres de maíz se estuvieron de acuerdo en cumplir con los 7 trabajos para que el mundo fuera bueno y miraron al lugar donde el sol y la luna se turnan su duermevela y preguntaron a los dioses primeros que cuánto debían caminar para cumplir esos 7 trabajos que sirven para hacer el mundo nuevo y entonces los dioses primeros dijeron que 7 veces 7 se caminaran el 7 porque así había salido el número que recuerda que no todos pueden ser pares y que siempre puede haber lugar para el otro. Y entonces los hombres y mujeres del maíz dijeron bueno y volvieron a mirar hacia la montaña que cajita era para guardar los pechos de la madre tierra por turnos, uno de día, de noche la otra. Y mirando los hombres y mujeres de maíz se preguntaron que cómo saben cuántas veces es 7 veces 7 caminar el número 7 y los dioses primeros dijeron que no lo sabían tampoco porque eran dioses primeros pero no todo lo sabían y tenían todavía que estudiarse mucho y por eso no se iban luego sino que se quedaban con los hombres y mujeres de maíz para aprenderse juntos lo nuevo. Y entonces se hicieron una reunión entre los dioses primeros y los hombres y mujeres de maíz y se pusieron a pensar juntos para juntos encontrar el buen camino que nuevo hiciera el mundo.
Y en eso estaban, o sea que pensándose, o esa que sabiéndose, o sea que hablándose, o sea que aprendiéndose, o sea que estándose cuando la lluvia se colgó en la mera mitad de la tarde sin caerse ni levantarse, nomás estando ahí y los hombres y mujeres de maíz se quedaron mirando y también los primeros dioses y ahí nomás que se empieza a pintar un puente de luz y nubes y colores y de la montaña venía el puente y al valle iba al puente y luego clarito se veía que el puente de colores, nubes y luz no iba a ninguna parte ni se venía de ningún lado sino que nomás se estaba ahí, encima de la lluvia y el mundo. Y tenía el puente de luz, colores y nubes 7 colores como franjas y entonces los dioses primeros y los hombres y mujeres de maíz se miraron otra vez y se volvieron a mirar el puente que no iba ni venía sino nomás se estaba y entonces se entendieron que el puente de colores, nubes y luz no va ni viene sino que sirve para ir o para venir y entonces se pusieron muy alegres los todos que se estaban pensándose y aprendiéndose y supieron que eso era lo bueno, ser puente para que vayan y vengan los mundos buenos, los nuevos que nos hacemos. Y rápido sacaron los musiqueros sus instrumentos y rápido se sacaron los pies los dioses primeros y los hombres y mujeres verdaderos y a bailar se pusieron porque ya estaban un poco pensándose y sabiéndose y hablándose y aprendiéndose. Y ya que se acabaron de bailarse, se reunieron otra vez y encontraron que 7 veces 7 era que 7 arcoiris de 7 colores tenían que hacerse caminando para que pudieron cumplirse los 7 trabajos principales. Y entonces ya se supieron también que terminados los 7 se seguían otros 7 porque los puentes de nubes, colores y luz no van ni viene, no tienen principio y final, no empiezan ni acaban, sino que se la pasan siempre cruzando de un lado a otro. Y así quedó el acuerdo que sacaron los dioses primeros y los hombres y mujeres verdaderos. Por eso, desde esa tarde de alegría y saber, los hombres y mujeres de maíz, los verdaderos, se pasan la vida haciendo puentes, y en la muerte también se hacen puentes. Puentes siempre de colores de nubes y de luz, puentes siempre para ir de uno a otro lado, para hacer los trabajos que nacen al mundo nuevo, al que buenos nos hace 7 veces 7 se caminan el 7 los hombres y mujeres de maíz, los verdaderos. Haciendo puentes se viven, haciéndose puentes se mueren..."

Se calla el Viejo Antonio. Yo me le quedo mirando y estoy a punto de preguntarle que qué tiene que ver eso con mi pregunta de hasta cuándo nos vamos a estar escondiendo, cuando una luz le renueva la mirada y sonriendo me señala hacia la montaña, a occidente. Yo me giro y veo un arcoiris que no va ni viene, que se está ahí nomás, puenteando mundos, puenteando sueños...

Desde las montañas del Sureste Mexicano.
Subcomandante Insurgente Marcos


Il pomeriggio stava già per smettere di esserlo. C'era quel grigio brillante che a volte annuncia anche l'aurora. Il vecchio Antonio finì di sistemare due sacchi di caffè pergamino e si sedette al mio fianco.
Io aspettavo l'arrivo di una staffetta che mi doveva aiutare ad attraversare un villaggio in cui non c'erano compagni.
L'attraversamento doveva avvenire di notte. Sorgeva il gennaio e sorgeva il 1986. Era ancora tempo di nasconderci, di occultarci agli occhi di coloro di cui in futuro saremmo stati parte. Io guardavo verso occidente e nascosto dietro il fumo della pipa cercavo di sognare un domani diverso. Il vecchio Antonio rimase in silenzio facendo soltanto il rumore necessario per arrotolarsi con un doblador una di quelle sigarette che annunciavano fumo e storie. Ma il vecchio Antonio non parlò. Rimase a guardare nella direzione verso cui io guardavo e aspettò paziente che parlassi: "Fino a quando continueremo a nasconderci dalla nostra gente?", dissi mentre l'ultima boccata di fumo scappava dal fornello della pipa. Il vecchio Antonio si schiarì la voce e decise finalmente di accendere la sigaretta e la parola. Lentamente, come chi addolcisce la speranza, il vecchio Antonio dette nuova luce al pomeriggio con...

La storia dei 7 arcobaleni

"Proprio al principio dei mondi che i nostri avi avrebbero camminato, i più grandi dèi, quelli che crearono il mondo, i primi, scesero a parlare con gli uomini e le donne di mais. Era un pomeriggio come questo, di freddo, di pioggia, e di tremulo sole. I primi tra gli dèi si sedettero a discutere con gli uomini e le donne di mais per accordarsi su quali cammini dovessero percorrere gli uomini e le donne veritieri. Perché questi dèi, che erano i primi, quelli che crearono il mondo, non erano autoritari come gli dèi che arrivarono dopo. Non erano prepotenti i primi dèi, cercavano di andare d'accordo tra di loro e con gli uomini e le donne di mais. Cercavano di giungere al cammino migliore insieme, mettendosi d'accordo e parlando saggiamente. Dunque in quel pomeriggio, che era uno dei primi del primo tra i mondi, gli dèi più grandi stavano a parlare con gli uomini e le donne di mais, da eguali.
Si accordavano per cercare dei buoni accordi con gli altri uomini e le altre donne, di altre lingue e di altre idee. Dovevano camminare, gli uomini e le donne di mais, molto lontano dentro il loro cuore, per cercare parole che potessero essere intese da altri uomini e altre donne, altri colori, altri cuori.
Dunque stabilirono quali lavori dovessero fare gli uomini e le donne di mais per dar vita ad un mondo buono. E decisero che sette erano i primi lavori, quelli fondamentali per farne poi altri. E parlavano i sette primi dèi, quelli che crearono il mondo, dicendo che sette erano i lavori che dovevano essere compiuti perché il mondo fosse buono e ci facesse nuovi. Dicevano gli dèi più grandi che dovevano essere sette perché sette erano le arie e i cieli che davano un tetto al mondo, e dicevano i primi dèi che questi erano i sette cieli: il settimo cielo era quello di Nohochaacyum, il grande padre Chaac. Nel sesto cielo stavano i Chaacob, gli dèi della pioggia. Nel quinto i Kuilob Kaaxob, i signori del deserto. Nel quarto cielo i guardiani degli animali. Nel terzo cielo gli spiriti cattivi. Nel secondo gli dèi del vento. Nel primo, immediatamente sopra la terra, i Balamob che custodiscono le croci dei villaggi e dei campi di mais. Nelle profondità stava Kisin, il dio del tremore e della paura, il diavolo.
E dicevano anche, i primi dèi, che sette erano i colori e sette era il numero con cui si cingevano. La storia dei colori già te l'ho raccontata un giorno, quella dei sette lavori te la racconterò se ci sarà tempo e modo che tu la ascolti e che io la racconti
", terminò il vecchio Antonio, nel momento in cui si consumava l'ultimo bagliore della sua sigaretta.
Giunse il silenzio in cui il vecchio Antonio ridava forma al fumo e ai sogni. Il piccolo lampo di un cerino nella sua mano e il fuoco riprese: "Dunque gli uomini e le donne di mais furono d'accordo nel fare i sette lavori perché il mondo fosse buono, e guardarono verso il luogo dove il sole e la luna si avvicendano nel loro dormiveglia e chiesero ai primi dèi quanto dovessero camminare per realizzare i sette lavori che servivano per fare nuovo il mondo. I primi dèi risposero che sette volte sette avrebbero dovuto camminare il sette, perché questo era il numero che ricordava che non tutti possono essere pari e che sempre c'è posto per un altro. Dunque gli uomini e le donne di mais annuirono e si voltarono a guardare verso la montagna, forziere che a turno custodiva i seni della madre terra, uno di giorno, l'altro di notte. E guardando, gli uomini e le donne di mais si chiesero come avrebbero saputo quante volte è sette volte sette camminare il numero sette. I primi dèi dissero che non lo sapevano neanche loro, perché erano i primi tra gli dèi ma non sapevano tutto e dovevano ancora studiare molto e per questo non se ne andavano ma rimanevano con gli uomini e le donne di mais, per imparare insieme ciò che era nuovo. Allora i primi dèi fecero un'assemblea con gli uomini e le donne di mais e insieme si misero a pensare come trovare insieme il giusto cammino che avrebbe fatto nuovo il mondo.
In ciò erano intenti, ovvero nel pensarsi, sapersi, parlarsi, impararsi, stare lì, quando la pioggia si appese proprio alla metà del pomeriggio senza cadere né salire, semplicemente restando lì. Gli uomini e le donne di mais rimasero a guardare e anche i primi dèi, e proprio lì iniziò a dipingersi un ponte di luce, nuvole e colori. Il ponte pareva venire dalla montagna e andare verso valle ma poi si vide meglio che il ponte di luce, colori e nuvole non andava da nessuna parte e non proveniva da alcun luogo ma stava semplicemente lì, sulla pioggia e sul mondo. Il ponte di luce, colori e nuvole aveva sette colori che gli facevano da frangia. I primi dèi e gli uomini e le donne di mais si guardarono e poi tornarono a guardare il ponte, che non andava né veniva ma semplicemente stava lì e allora capirono che il ponte di luce, colori e nuvole non andavano né venivano ma servivano per andare e per venire, e dunque furono molto felici tutti coloro che stavano a pensarsi e a impararsi, e capirono che quella era cosa buona, essere ponte perché vadano o vengano i mondi buoni, quelli nuovi che noi facciamo. Subito i musici tirarono fuori i loro strumenti e subito si levarono in piedi i primi dèi e gli uomini e le donne veritieri e si misero a ballare perché già iniziavano a pensarsi, sapersi, parlarsi e conoscersi. Appena finito di ballare si riunirono un'altra volta e scoprirono che sette volte sette significava che sette arcobaleni di sette colori dovevano passare durante il cammino perché potessero compiersi i sette lavori principali. E già sapevano che finiti i primi sette ne sarebbero seguiti altri sette, perché i ponti di colori, di nuvole e luce non vanno e non vengono, non hanno né un principio né un termine, non iniziano e non finiscono ma attraversano sempre da una sponda all'altra. Questo fu l'accordo che presero i primi dèi e gli uomini e le donne veritieri. Per questo, da quel pomeriggio di felicità e sapienza, gli uomini e le donne di mais, i veritieri, passano la vita facendo ponti e anche nella morte fanno ponti. Sempre ponti di colori, nuvole e luce, sempre ponti per andare da una sponda all'altra, per fare i lavori che generano il mondo nuovo, quello che ci fa buoni, sette volte sette camminano gli uomini e le donne di mais, i veritieri. Facendo ponti vivono, facendo ponti muoiono
.".
Il vecchio Antonio tacque. Io rimasi a guardarlo e stavo quasi per chiedergli che cosa avesse a che fare tutto ciò con la mia domanda su quanto tempo avremmo dovuto nasconderci, quando una luce gli ravvivò lo sguardo e sorridendo mi indicò la montagna, a occidente. Io mi girai e vidi un arcobaleno che non andava e non veniva, che semplicemente stava lì, facendo ponti per i mondi, facendo ponti per i sogni.

Dalle montagne del sudest messicano
Subcomandante Insurgente Marcos