¡Que Viva Mexico!

Io non vedrò il frutto dell’albero che abbiamo piantato, ma voi lo vedrete, amigos !
Emiliano Zapata



35 ANNI DI DITTATURA

E’ nel corso della dittatura del generale Porfirio Diaz (1876-1911) che si accumulano, in Messico, le cause che porteranno alla enorme esplosione rivoluzionaria del 1910-1919.
Diaz cominciò la sua carriera come seminarista presso il pontificio seminario di Oaxaca. A 19 anni preferì arruolarsi nell’esercito, schierandosi (paradossalmente) con Benito Juarez nella guerra contro Massimiliano d’Austria e i colonialisti francesi.
Una volta vinta la guerra e iniziata la nuova storia del Messico indipendente, altrettanto paradossalmente Porfirio Diaz, destinato a diventare il padrone assoluto del paese, fu uno dei più strenui difensori della legalità costituzionale. Si oppose a tutti i tentativi che dapprima lo stesso Juarez, e successivamente Lerdo de Tejada, misero in atto per essere rieletti presidenti e instaurare una dittatura.
Il 28 novembre del 1876 Diaz, battuto Tejada, entrò a Città del Messico e l’11 dicembre successivo venne eletto presidente della repubblica.
Riuscì con la violenza e la frode a farsi rieleggere per ben 7 volte, a parte brevi intervalli in cui metteva al potere qualche suo burattino. Sta di fatto che fu proprio nel corso del periodo definito “porfirista” che il Messico divenne una polveriera, la deflagrazione fu lenta ma inevitabile. Diaz aggravò, con la sua politica terriera di tipo medievale, le già durissime condizioni dei contadini messicani.
Invece di procedere con la riforma agraria avviata da Benito Juàrez egli preferì, ovviamente, appoggiare i poteri forti (costituiti dai proprietari terrieri) che lo aiutavano a mantenersi al potere, inaugurando la politica delle cosiddette “delimitazioni”. Le terre appartenenti ai villaggi contadini e, molto spesso coltivate in maniera collettiva, vennero allora “delimitate”, ossia recintate e divise tra chi poteva vantare su di esse un qualche titolo di proprietà. Tali operazioni vennero affidate a compagnie private, appositamente create, che ricevettero in cambio un terzo delle terre “delimitate”.
Vennero “delimitati” circa 50 milioni di ettari, e le compagnie misero le mani su 16 milioni di ettari di terra, mentre altri 20 furono comperati dai terratenientes a prezzi irrisori.
A capo di queste compagnie c’erano una cinquantina di grossi proprietari terrieri. Basti pensare che quando vennero recintate le terre della Bassa California ben 12 milioni di ettari vennero ripartiti tra sole quattro persone,oppure che il censimento del 1910 dimostrò che esistevano, in Messico, 840 proprietari terrieri contro 12 milioni di braccianti. I grandi agrari erano i padroni assoluti del paese, con haciendas che arrivavano a 250mila ettari di superficie.
Per tutto il periodo “porfirista” la rivolta contadina restò viva e allo stato endemico, affiancandosi ai
primi moti operai nelle grandi città. Il dittatore riuscì, per decenni, a domare sia i moti bracciantili delle provincie di Chihuahua a nord e dello Yucatan, a sud, sia gli scioperi minerari della Cananea e del Rio Blanco presso Veracruz.
Lo strumento della repressione fu l’esercito, potenziato acquistando cannoni dalla Germania, navi dall’Italia e armi dagli Stati Uniti, raddoppiando gli effettivi e creando accademie militari sul modello europeo. Insomma,la risposta ai problemi sociali del Messico fu la repressione pura e semplice.
Tuttavia i nodi vennero al pettine e si aprì il periodo rivoluzionario.
Nel 1910 Diaz, lasciata l’uniforme per la finanziera e il cilindro, si apprestava a celebrare, sicuro di sé, la sua settima elezione alla presidenza. Non pensava di sedere sull’orlo di un vulcano.

IL MASSACRO DEI SERDAN

Sebbene rivolte locali e scontri tra insorti e truppe governative si fossero susseguiti per tutta l’estate del 1910 negli stati di Sinaloa e dello Yucatàn, gli storici sono concordi nel ritenere come primo vero episodio della rivoluzione la “battaglia di casa Serdàn”,nella città di Puebla.
Aquiles Serdàn, era il capo di una famiglia interamente massacrata dai soldati “porfiristi” e divenne il primo martire della rivoluzione.
Serdàn, nel breve periodo di vita legale del Partito Costituzionale Progressista, si mise in luce come uno dei più accesi sostenitori di Madero, e naturalmente, dopo l’incarcerazione e la fuga negli USA di Madero, era costantemente tenuto d’occhio dalla polizia. Tuttavia si adoperò incessantemente per preparare la sollevazione armata entro la data stabilita.
Il 18 novembre del 1910 però, un reparto di polizia si presentò alla porta della sua casa, a Puebla. Serdàn si rifiutò di farli entrare e quando gli sbirri di Diaz tornarono scortati dall’esercito decise di resistere con le armi.
La casa era piena di armi, ammucchiate in previsione dell’insurrezione armata prevista per il 20 novembre. In casa era presente l’intera famiglia Serdàn, che ingaggiò con l’esercito una battaglia che durò quattro ore e durante le quali morirono tutti i componenti della famiglia, compresi donne e bambini.
Alla fine, una volta fatta irruzione nella casa, i soldati non trovarono il corpo di Aquiles, il quale si era salvato e nascosto in un rifugio nel cortile con la speranza di poter fuggire e ricongiungersi a Madero.
Dopo 24 ore Aquiles tentò di uscire dal suo nascondiglio, ma venne visto da uno dei soldati che ancora presidiavano la casa e finì ucciso con un colpo di fucile alla nuca. La battaglia di Puebla era terminata,e i “maderisti” locali sterminati.
Ma il fatidico 20 novembre era vicino, e all’alba di quel giorno un altro fedele di Madero: Abraham Gonzalez iniziava le operazioni sulle montagne dello stato di Chihuahua,a capo di una banda di contadini e minatori.
Il potere di Diaz vacillava, appoggiandosi ormai solo alla punta delle baionette, mentre Madero dagli USA era attivissimo, spendendo tutto il suo patrimonio personale in armi da inviare agli insorti.

RICCHI E MISERABILI: IL MESSICO FEUDALE

Agli inizi dell’ottocento otto famiglie messicane, discendenti dei colonizzatori spagnoli, possedevano qualcosa come 49 milioni di ettari di terra, ossia una superficie coltivabile grande quanto l’intera Francia!
Nel 1910 il 75% dei contadini messicani era formato da braccianti privi di qualsiasi proprietà, mentre non esisteva all'epoca gruppo sociale dominante che potesse paragonarsi, per ricchezza e agiatezza di vita, ai grandi possidenti agrari e proprietari di miniere, che si accentravano a Città del Messico.
Il Messico produceva un quarto della produzione mondiale di argento. Le proprietà agrarie si dividevano in “Haciendas” e “Ranchos” (inferiori ai duemila ettari). Al centro di ogni hacienda c’era la casa padronale, un vero e proprio palazzo con grandi saloni e giardini all’europea, dove il padrone risiedeva durante il periodo dei raccolti e della chiusura dei conti, mentre durante il resto dell’anno restava un amministratore non meno ricco e dispotico del proprietario. Tutt’intorno sorgevano le capanne di mattoni imbiancati in cui abitavano i braccianti.
Le condizioni di lavoro erano dure, con una paga di 12 centavos (6 centesimi attuali) al giorno.
Uno dei pilastri su cui si reggeva il sistema delle haciendas era quello delle “tiendas de raya”, ossia le botteghe di generi alimentari, tequila e abbigliamento che ogni proprietario allestiva nella sua hacienda e di cui i braccianti erano obbligati a servirsi.
Vendevano a credito, indebitando così i braccianti che da quel momento non potevano più allontanarsi, pena la morte per mano dei “rurales”, la polizia padronale, e si ritrovavano alla fine a lavorare gratuitamente.
Un altro pilastro era, appunto, la “ley de fuga” (legge della fuga), che permetteva ai padroni di uccidere i contadini che osavano allontanarsi senza aver “onorato” i propri “debiti” verso il proprio padrone.
Vi erano anche delle “punizioni” esemplari per i contadini ribelli, come frustarli, impiccarli o seppellirli vivi.
Proprietari e “porfiristi” sperperavano denaro a piene mani, un enorme flusso di denaro usciva dal paese per pagare i generi voluttari ordinati in Francia o negli USA. Per di più un'altra enormità di denaro usciva dal paese grazie alle gigantesche compartecipazioni che la politica di Diaz aveva assicurato al capitale straniero.
Nel 1910 il 97% delle miniere messicane era in mano a compagnie straniere, perlopiù inglesi o francesi, e tutti i pozzi petroliferi scoperti a Tampico, Tuxpan, Matamoros e Reinosa erano di proprietà statunitense, mentre l’80% della popolazione, analfabeta e povera, viveva sfruttata nutrendosi di tortillas di granoturco, non potendosi permettere neanche il pane.

MADERO: L’ANIMA DELLA RIVOLUZIONE

L’uomo che nel 1910 doveva guidare la prima fase della rivoluzione aveva appena 37 anni, si chiamava Francisco Indalecio Madero ed era discendente di una ricca famiglia di piantatori della provincia settentrionale del Messico.
Pieno di idealismo divenne famoso per il suo assistenzialismo verso i poveri e i reietti. I suoi ideali non erano socialisti, voleva fare del Messico un paese democratico e progressista, instaurando libertà politica, legalità e abbattendo la politica agraria antipopolare.
Ebbe subito l’appoggio degli intellettuali e dei borghesi progressisti del paese. La sua azione, però, mise in movimento quelle forze che si agitavano nel profondo della società messicana: gli indios, i braccianti, i poveri del paese.
L’esercito rivoluzionario di cui si avvalse Madero era composto da peones, da braccianti scappati dalle haciendas; essi sapevano di essere poveri e che era arrivato il momento di agire.
La ragione stava sostanzialmente dalla parte di questo esercito di “straccioni”, incapaci magari di intendere le vere ragioni di quanto stava accadendo, ma decisi a cambiare il corso della propria vita e ricacciare povertà e miseria nella gola di chi, sino ad allora, gliela aveva imposta.
Curiosamente fu proprio Diaz a dar fuoco alle polveri. Forse per accontentare la borghesia progressista, dichiarò, durante un'intervista a un giornale statunitense che in fondo non ci sarebbe stato nulla di male se fosse sorto qualche partito d’opposizione. La frase, che nelle intenzioni dell’intervistato doveva servire a calmare l’opinione pubblica USA in ansia per quanto accadeva i Messico, ebbe l’effetto di una bomba.
Madero pubblicò un opuscolo di grande successo, “La successione presidenziale”, in cui sostenne l’illegalità di una nuova elezione “porfirista” e Diaz si vide costretto a riconoscere l’esistenza di due partiti: uno guidato dal generale Reyes, e l’altro (il Partito Costituzionale Progressista) guidato dallo stesso Madero.
Ma un mese dopo, alla vigilia delle consultazioni elettorali, Diaz sciolse con la forza i due partiti avversari, esiliò Reyes e imprigionò Madero.
Quindi, dopo aver “vinto” le elezioni per la settima volta, ormai sicuro di se liberò Madero, il quale fuggì immediatamente negli USA, recandosi a San Antonio, in Texas. Dal suo esilio Madero lanciò un documento definito “Il piano di San Luis Potosì” nel quale incitava tutto il popolo messicano a ribellarsi contro la tirannia di Diaz e tutto quello che essa rappresentava.
Infine il 20 novembre del 1910 iniziava la lotta armata.


W VILLA !

Francisco Pancho Villa era nato vicino a Durango, nel ranch la Coyoitoda di San Juan del Rìo di proprietà di Lopez Negrete, da una coppia di mezzadri, Augustin Arango e Micaela Arámbula.
La sua leggenda iniziò a fiorire nel 1894, quando era ancora sedicenne; subito dopo la morte del padre si era trasferito nell'hacienda di Gogojito e una sera, tornando a casa sorprese la madre in una accesa discussione con il proprietario del ranch che aveva tentato di molestare la sorella maggiore del futuro Pancho Villa. Questi non ci pensò due volte, sparando al ranchero e ferendolo ai piedi. Fu
l'inizio di un lungo periodo di latitanza, braccato dalla polizia.
Paladino degli indifesi, Robin Hood di frontiera (si dice che, come “l'eroe di Sherwood”, rubasse ai ricchi per dare ai poveri, e questo sarebbe storicamente provato), aveva avuto un passato giovanile fatto (forse suo malgrado) di scorrerie ai danni di allevatori, cui sottraeva capi di bestiame, e di rapine a ricchi minatori.
Braccato sui monti della Sierra (dove diventerà Francisco Pancho Villa) fu più volte catturato, riuscendo sempre a farsi rilasciare grazie all'interessamento di influenti amicizie; si sarebbe ritrovato arruolato - con compiti di comandante - nelle truppe degli eserciti irregolari di Francisco Indalecio Madero e Alvaro Obregon: forse, per lui, era solo una dignitosa scappatoia.
Nel 1910, con una nuova identità e una coscienza immacolata, era quindi pronto a scendere dalle montagne per contribuire alla prima vera rivoluzione del ventesimo secolo.
Venuto in contatto con Abraham Gonzales, fido di Madero, Villa decise così di unirsi alla causa della rivoluzione messicana. Nello Stato di Chihuahua, proprio al confine con il Texas ed il New Mexico, Villa e i suoi Dorados (truppe a cavallo che lo affiancavano in ogni momento) agivano divisi in piccoli gruppi con azioni di sorpresa; la strategia seguita era quella degli indiani Apache e Comanche contro cui si erano battuti i messicani di una generazione prima.
Negli anni successivi, con Madero al governo, Pancho Villa servì nell'esercito sotto il generale Victoriano Huerta che lo condannò a morte per insubordinazione; non gli restò che espatriare negli Stati Uniti, salvo tornare dopo il rovesciamento di Madero (e il suo conseguente assassinio per avvelenamento in carcere) da parte di Huerta, con la presa del potere nel 1913. Villa fiancheggiò poi, nella guerra civile del 1913-1914 tesa ad abbattere il nuovo despota Huerta, il leader del movimento progressista Venustiano Carranza, dal quale si distaccò tuttavia quando questi divenne presidente, ritenendolo troppo moderato.
Ad ogni buon conto Villa riuscì ad assicurarsi il controllo dello Stato di Chihuahua, dove – con l'aiuto di Emiliano Zapata - fomentò la rivolta contadina non esitando a oltrepassare – primo straniero dopo cento anni - la frontiera americana. Per oltre un anno venne (invano) inseguito oltre confine dalle truppe inviate dal presidente Woodrow Wilson.
Il 9 marzo 1916 Villa condusse millecinquecento guerriglieri messicani in un attacco contro la città di Columbus, nel New Mexico, dove era presente una guarnigione di seicento soldati americani.
L'abitato fu messo a fuoco ed anche un albergo venne fatto esplodere; la conseguenza fu la morte di diciassette persone. Il presidente Wilson rispose con quella che è passata alla storia come una spedizione punitiva: pose una taglia di 5.000 dollari sulla testa di Villa (da catturare "vivo o morto") e inviò settemila soldati guidati dal generale John "Blackjack" Pershing e dal suo braccio destro, George Patton, futuro "generale d'acciaio", sui monti sopra Chihuahua per dargli la caccia.
In quella occasione le truppe statunitensi impiegarono i mezzi più moderni per quell'epoca, come camion, motocarri, motociclette e carri armati; fu impiegato persino un dirigibile pilotato personalmente dal generale Pershing. Senza contare l'impiego - per la prima volta - di aerei da combattimento (otto, riportano le cronache dell'epoca). Tutto fu vano: il tentativo di catturare Villa e i suoi uomini si protrasse, appunto senza esito, fino alla fine di gennaio dell'anno successivo.
Le imprese da rivoluzionario di Pancho Villa termineranno nel 1920: tre anni dopo morirà assassinato (come coloro per cui aveva combattuto, Madero, Carranza e Obregon) nella cittadina di Parral, dopo essersi ritirato a vita privata nella sua hacienda, proprio dove si sentiva più al sicuro, nel suo Stato di Chihuahua.



EMILIANO ZAPATA: IL CONDOTTIERO DEL SUD

Anenecuilco,nello stato del Morelos, è un povero villaggio. E’ qui, in una capanna dal tetto di stoppie che nel 1877 nacque Emiliano Zapata.
Emiliano crebbe in un piccolo rancho sulle rive del Rio Ayala imparando dal fratello maggiore Eufemio a cavalcare lungo i dirupi della della Sierra Ayala.
Ma Emiliano imparò anche che le terre migliori, i campi più fertili, non erano mai nelle mani dei contadini, ma erano recintati da filo spinato e palizzate, ed erano sorvegliati dai rurales, la terribile polizia campestre assoldata dai grandi proprietari terrieri.
Emiliano frequentò solo i primi due anni della scuola di Ayala, ma quello che non potè leggere sui libri glielo insegnò l’esperienza; osservava con i suoi occhi i peones puniti a scudisciate, l’impotenza di fronte al sopruso padronale, le migliaia di pesos dissipati nelle feste delle haciendas mentre i braccianti morivano di fame.
Per questo, prima ancora che Madero lanciasse il suo appello all’insurrezione, Zapata si era già mosso. Parlava poco, con un culto fanatico per l’onestà, ma aveva capito che le cose non sarebbero cambiate se qualcuno non avesse preso l’iniziativa.
Cosa che lui fece, a 28 anni, guidando una delegazione di tre pueblos fino a Chapultepec per consegnare una petizione scritta al presidente, in cui si pretendeva la restituzione delle terre confiscate.
Diaz ricevette la delegazione, promise giustizia, ma per intanto si pazientasse...
Al ritorno, invece, Zapata mobilitò il villaggio, iniziando a fare un censimento delle proprietà, ma tutto venne presto interrotto dai rurales, che puntarono contro i campesinos una mitragliatrice.
Prima che però i rurales aprissero il fuoco Zapata, galoppando loro incontro, con un colpo di lazo riuscì a strappare la mitragliatrice di mano ai soldati, scappando inseguito dalle fucilate.
Per un anno si nascose nella Sierra Puebla,organizzando con i campesinos un movimento armato contro la dittatura. Nel 1906 un aristocratico gli procurò il “perdono” delle autorità. Emiliano potè così far ritorno al suo villaggio mentre continuava in segreto a tenere contatti con i gruppi rivoluzionari. E così, prima ancora che il grido di Madero raggiungesse il sud, da Cuaùtla a Cuernavaca il motto fu quello di Zapata: Tierra y Libertad !
Nel novembre del 1910 in una delle riunioni clandestine organizzate da Zapata gli venne portato l’annuncio che i maderisti stavano preparandosi per l’insurrezione generale.
Zapata ascoltò e infine decide: il Morelos è troppo lontano dal nord e dalle bande di Villa e Orozco, bisognerà agire con cautela e rapidità. Inviò un suo emissario da Madero che fece ritorno con una valigia piena di banconote e un messaggio: “impegnate i federali del Morelos”. Insorgerà dunque anche il Morelos, ma la tattica inaugurata da Zapata sarà quella di colpire il nemico dove è meno forte e poi eclissarsi, per colpire altrove.
L’11 febbraio del 1911 Zapata e i suoi uomini presero d’assalto la città di Ayala, armati di qualche carabina, machetes e qualche pistola colt: è la prima vittoria.
Un mese dopo i guerriglieri di Zapata saranno 700 uomini, provvisti di fucili mauser (catturati ai federali).

LA BATTAGLIA DI CIUDAD JUAREZ

Nonostante lo scacco di Casas Grande la ribellione era ben lontana dall’essere battuta, perché sorretta dalle forze indomabili della rivoluzione .
Per tutto il marzo e l’aprile del 1911 i ribelli continuarono a fortificarsi, organizzare nuove bande, ricevere armi da oltre confine e disturbare con azioni di guerriglia le truppe federali.
Dalla massa di contadini emergevano nuovi capi come Luz Blanco o Luis Campa.
A conti fatti verso il maggio del 1911 i guerriglieri presenti nel nord del paese erano più di tremila, e formavano un vero e proprio esercito con distaccamenti organici alla cui testa erano Villa, Gonzalez e Orozco.
Oltre che un problema militare essi costituivano per Diaz un problema politico. Ormai avevano stabilito contatti con gli uomini di Zapata a sud, e cominciavano a incidere anche sull’opinione pubblica della capitale.
Madero seppe dar prova di rilevanti qualità politiche e militari. Il primo successo politico lo ebbe quando un terzo dei soldati federali ( “lavorati” dalla propaganda) delle regioni settentrionali del paese disertò abbandonando materiali e cavalli con i quali Villa poté costituire un ottimo reparto di cavalleria.
Il successo militare, invece, lo conseguì concentrando intorno a Ciudad Juarez tutte le forze a sua disposizione.
All'alba del 9 maggio del 1911 ebbe inizio la battaglia. La prima fase vide un sanguinoso assalto frontale dei peones maderisti contro le linee governative,che però venne respinto, dopodiché i guerriglieri cominciarono a manovrare con reparti meglio armati, e dopo una battaglia che durò tre giorni l’esercito rivoluzionario conquistò la città la sera dell'11 maggio.
La notizia della vittoria attraversò tutto il Messico, si sollevò anche la capitale, dove caserme e posti di polizia vennero presi d’assalto da grandi manifestazioni di piazza organizzate dall’opposizione. Intanto i rivoluzionari scendevano verso sud, mentre le loro fila si ingrossavano di uomini che lasciavano i ranchos e le haciendas dove erano stati fino ad allora sfruttati.
La rivoluzione era ormai esplosa in tutto il paese, e gli indios affamati di terra prendevano possesso delle proprietà degli odiati padroni e giustiziavano i rurales artefici delle efferatezze sino ad allora subite.
Dieci giorni dopo la vittoria di Ciudad Juarez le forze della destra messicana si convinsero che ormai conveniva abbandonare il vecchio “uomo forte” al suo destino e venire a patti con Madero.
Quello della destra messicana fu un calcolo sottile, i suoi capi capirono che era impossibile vincere la partita sulle posizioni estremiste di Porfirio Diaz e lo costrinsero alle dimissioni.
Essi compresero che il vero pericolo non era Madero, ma i rivoluzionari che lo sostenevano, e in prima linea Zapata; si schierarono quindi con Madero, sicuri che prima o poi sarebbe venuto in conflitto con l’ala radicale del suo movimento e quello sarebbe stato per loro il momento della rivincita.
Il 25 maggio Diaz si dimise e sparì completamente dalla scena, andò a Veracruz dove, il 31 maggio del 1911, si imbarcò clandestinamente per l’Europa.
I suoi ex amici, con alla testa Leòn de la Barra (ministro degli esteri di Diaz) prendevano nel frattempo contatti con Madero. L’accordo venne firmato a Ciudad Juarez e prevedeva libere elezioni dopo un breve periodo di presidenza provvisoria presieduta proprio da Leòn de la Barra.
Il 15 ottobre del 1911 Madero assume la presidenza del paese.

LA LOTTA TRA LE FAZIONI

La vittoria di Madero portava la sconfitta nel suo stesso seno. In fondo Madero aveva vinto grazie a un compromesso con la destra, e la sua stessa ideologia gli impediva di portare fino in fondo quella riforma agraria che era il sogno di quasi tutti i suoi seguaci.
Il suo fronte era diviso, e presto avrebbe dovuto combattere sia contro le forze conservatrici che rialzavano la testa sia contro l’ala più radicale del suo stesso movimento.
Madero conservò quasi tutti i quadri del vecchio esercito “porfirista”, mentre i conservatori che si venivano schierando con lui gli imponevano di disarmare le bande contadine che lo avevano portato alla presidenza.
Il Piano di San Luis Potosì, sulla cui base fu riconosciuto capo di tutta la rivoluzione, prevedeva all’articolo 3 la riforma agraria, con il trasferimento della terra dalle mani dei padroni delle haciendas in quelle dei contadini. Madero non poteva più essere fedele a questo programma, perché ora era presidente e temeva complicazioni.
I primi a sollevarsi, com'è ovvio, furono gli zapatisti, seguiti nel marzo del 1912 da Pascual Orozco, nominato da Madero governatore dello stato di Chihuahua, il quale si pronunciò contro l’insoddisfacente regime che si era venuto a creare.
Huerta dovette abbandonare precipitosamente il sud del paese, inviato da Madero al nord per combattere contro gli insorti capeggiati da Orozco, il quale resistette fino ai primi di giugno.
La repressione messa in atto da Huerta fu atroce. L’intero paese era di nuovo in fiamme e questa volta erano i maderisti di diverse posizioni ad affrontarsi. Madero restava in balia di forze che non riusciva più a dominare.
Ma fu verso la fine del 1912 che le forze conservatrici messicane decisero di sbarazzarsi definitivamente di Madero e tornare ai vecchi sistemi. Il paese del resto era in preda al caos più totale e Madero aveva dato prova, ai loro occhi, di troppa debolezza, non riuscendo a sbarazzarsi della sinistra del suo movimento.
La destra messicana era alla ricerca di un nuovo “uomo forte” che sostituisse il presidente, e pensò di averlo trovato nella persona del generale Felix Diaz, nipote del vecchio dittatore Porfirio, che Madero aveva avuto la debolezza di lasciare in libertà a Veracruz.
In un primo tempo i loro progetti furono elusi da Madero e dalle truppe a lui fedeli, Felix Diaz fu arrestato, processato e condannato a morte ma successivamente graziato da Madero stesso.
Cominciò a quel punto, alimentata dai proprietari terrieri e delle miniere, una feroce campagna di stampa contro Madero. A finanziarla dietro le quinte c’era lo stesso governo statunitense, nell'interesse delle sue compagnie petrolifere che temevano la nazionalizzazione degli impianti.
I giornali di Città del Messico incitavano apertamente alla rivolta contro il governo, tanto che numerosi di essi vennero chiusi per un certo periodo. Gruppi armati di estrema destra si andavano organizzando alla luce del sole. Madero, era debole e incerto, circondato da spie e traditori, continuava a preoccuparsi della minaccia costituita da Zapata e non vedeva che il vero nemico era la destra reazionaria, risparmiata dalla prima fase rivoluzionaria.
L’8 febbraio del 1913 gli appelli contro Madero e il suo governo sfociarono nell’azione armata. Il primo a muoversi fu un generale che comandava la guarnigione della capitale di nome Mondragòn. Mondragòn, alla testa di duemila uomini, andò per prima cosa a rimettere in libertà Felix Diaz, dopodiché si portò all’attacco del Palazzo Nazionale (la sede del governo). La guardia reagì all'assalto e Felix Diaz e Mondragòn vennero respinti andandosi a rifugiare, con ciò che rimaneva dei loro uomini, nel forte La Ciudadela.
Madero, sorpreso dagli avvenimenti, chiamò in suo aiuto i cadetti della scuola militare e il “fido” Victoriano Huerta. Dopo 10 giorni di battaglia, che insanguinarono le strade della capitale, Huerta, che aveva preso contatti e stretto accordi sia con l’ambasciatore Wilson sia con Felix Diaz, fece il suo colpo di stato e, nella notte del 18 febbraio 1911, fece arrestare Madero proclamandosi nuovo presidente della repubblica.
La rivolta di Mondragòn aveva fatto, nella capitale, duemila morti e la città era semidistrutta. Appariva evidente che se anche la vittoria di Huerta sembrava segnare un momento di pausa essa non avrebbe fatto che rafforzare e rinvigorire i moti rivoluzionari nel paese. Huerta dal canto suo si dimostrò abile, riuscendo a mettere Felix Diaz contro Mondragòn e a neutralizzarli entrambi, restando di fatto assoluto padrone del paese. Con la sua assunzione della presidenza del Messico iniziava per il paese un periodo fosco e sanguinario.




ZAPATA NON DEPONE LE ARMI

Ora che Madero aveva vinto i campesinos del Morelos aspettavano la terra. Era stato Zapata a rassicurarli che Madero avrebbe fatto giustizia. Invece, tre mesi prima delle elezioni di ottobre, il presidente provvisorio convinse Madero a sbarazzarsi del suo pericoloso alleato del sud.
Madero accettò il consiglio e sollecitò Zapata affinché congedasse le sue bande. Dal suo quartier generale a Cuautla, Zapata rispose che avrebbe consegnato le armi solo quando avesse visto applicato l’articolo 3 del “Piano di San luis di Potosì”, l’articolo cioè che prevedeva la riforma agraria elaborata da quello stesso Madero che ora voleva fosse invece dimenticata.
Libertà di stampa, democrazia parlamentare... per gli indios sono parole vuote, la vera conquista, per loro, è la terra che gli consente di vivere.
Madero, nell’agosto del 1911, si recò allora personalmente a Cuautla, per parlare con Zapata. Promise l’attuazione della riforma agraria e in più la nomina di due zapatisti, rispettivamente come governatore e comandante militare dello stato del Morelos. Zapata si lasciò convincere. Lui che si era battuto per la riforma agraria schierò a quel punto i suoi uomini e, al suono degli ottoni, fece consegnare le armi. Uno per uno i suoi uomini deponevano le armi ai piedi di Madero, ma la cerimonia appena iniziata venne presto interrotta quando una staffetta giunge per avvisare di aver scorto una colonna di soldati governativi con salmerie e cannoni al seguito. La comandava Victoriano Huerta, un generale ex porfirista che Leòn de la Barra aveva inviato contro Zapata.
Medero, all’oscuro di quella manovra, rimase interdetto. Zapata decise allora di riprendere le armi. Ripreso ognuno il proprio fucile, gli zapatisti montarono in sella per scomparire nella Sierra.
Il 25 novembre del 1911 la ribellione di Zapata divenne un documento ideologico. Emiliano radunò lo stato maggiore e chiamò Otilo Montano (il maestro elementare di Ayala) per dettargli un avanzato programma sociale che terminava con il disconoscimento di Madero come traditore dei principi rivoluzionari. In sua vece venne nominato Pascual Orozco come nuovo caudillo e proposto come candidato alla presidenza.
Alla pubblicazione dei 14 articoli del “Plan de Ayala” il ministro della guerra Carranza reagì duramente . Un contingente di soldati venne inviato a sud per sgominare i ribelli zapatisti. Furono quattro mesi di lotte feroci. Il generale Huerta, comandante dei contingenti governativi, fece incendiare decine di villaggi e fucilò gli zapatisti catturati, ma senza riuscire ad aver ragione della ribellione. I quattromila uomini di zapata erano ormai diventati “l’armata di liberazione del sud”,come egli stesso li definì.

IL PERIODO “HUERTISTA”

Quattro giorni dopo il tradimento, Huerta fece fucilare Madero. Dette ordine ai suoi soldati di prelevarlo dalla prigione col pretesto di trasferirlo al penitenziario di Città del Messico, ma sulla strada la diligenza venne attaccata.
In realtà l’attacco era stato organizzato proprio da Huerta con l'intento di eliminare Madero, tant’è che nessuno dei soldati rimarrà scalfito da un proiettile mentre Madero sarà trovato morto.
Questa fu la fine di colui che aveva suscitato le speranze delle masse popolari del paese per poi ripiegare su posizioni tutto sommato conservatrici e moderate.
Huerta dopo l’assassinio di Madero cominciò a consolidare il suo potere. Per prima cosa si liberò di Felix Diaz, spedendolo per una non meglio precisata “missione speciale” a Washinghton, posto da cui Felix Diaz non fece più ritorno.
Poi cominciò a fucilare i “maderisti” e gli oppositori. Si calcola che tra marzo e ottobre del 1913 abbia fatto uccidere, in vari modi, 150 oppositori tra sindacalisti, deputati e semplici sostenitori di Madero. Venne fatto fucilare, tra gli altri, il glorioso Abraham Gonzalez, uno dei primi aderenti alla rivoluzione.
Nell’ottobre del 1913 sciolse infine il parlamento, facendo arrestare i 150 deputati sopravvissuti alla prima epurazione e sosituì i governatori rivoluzionari delle provincie con uomini a lui fedeli o generali dell’esercito. Ci fu anche chi tradì, come quel Pascual Orozco che dall’opposizione di sinistra si affrettò a entrare tra le fila di Huerta.
Tuttavia il caos continuava e nelle provincie attorno alle grandi città prendeva vita la seconda fase rivoluzionaria:l’insurrezzione dei “pobres” contro il nuovo tiranno.
Il cosiddetto “periodo huertista” fu terribile. In 17 mesi ci furono 120 000 morti e l’insurrezione contro il regime pagò, nonostante la vittoria, un prezzo pesante: 800 mila caduti.
Poiché Huerta non era riuscito ad estirpare le quattro grandi forze di opposizione al suo regime, furono queste forze a sconfiggerlo.
La prima era costituita da Venustiano Carranza, destinato a diventare presidente costituzionale dell’intero paese. Alla notizia del golpe di Huerta si era dato alla macchia con alcuni partigiani, sullo stile dei primi giorni eroici della rivoluzione.
La seconda forza era costituita da Pancho Villa, che, radunati i suoi uomini, si diede alla guerriglia sul confine settentrionale del paese.
La terza forza d’opposizione era costituita da Zapata e i suoi uomini, presenti nel sud del paese.
La quarta forza era quella socialista,costituita dai lavoratori delle miniere e dalla borghesia “illuminata” delle città.
Il contributo maggiore lo diedero però i proletari che combattevano nelle fila di Villa e Zapata.
Villa,nominato capo degli insorti del nord dai rivoluzionari di Chihuahua, Durango e Coahuila, avanzò con risolutezza su Ciudad Juarez conquistando la città agli avversari. Gli uomini di Huerta si rifugiarono a Torreòn, ma Villa conquistò anche Torreòn ed entrò nella città accolto dagli applausi di molti e dal panico di non pochi.
Nel frattempo si erano mossi anche gli indios e i contadini di Zapata nel sud e nel sud-est del paese. Nessuno quanto Huerta fu crudele nella guerra contro gli indios, e nessuna delle due parti faceva prigionieri.
Huerta era in realtà un debole; si diceva, nel Messico di allora, che il regime di Porfirio Diaz si era mantenuto al potere grazie alle “quattro p”: pan o palo, plata o plomo (pane o bastone, argento o piombo). Ma Huerta non aveva abbastanza pane per sfamare, abbastanza armi e uomini per reprimere né, ancor meno, abbastanza denaro per comprare.
Huerta reagì all’opposizione con misure militari quali la leva in massa che portò nel suo esercito masse di contadini letteralmente rapiti dai loro villaggi e che disertavano al momento opportuno per passare tra le file degli insorti, oppure usando la più bieca repressione che provocava l’effetto esattamente contrario a quanto si voleva ottenere.

L’INTERVENTO DEGLI USA

Durante i sanguinosi 17 mesi della dittatura di Huerta i rapporti del Messico con gli Stati Uniti subirono un'evoluzione profonda. All’ascesa al potere di Huerta aveva dato un contributo l’ambasciatore statunitense Henry Lane Wilson, tipico rappresentante dei magnati dell’industria e della finanza che avevano in Messico molti interessi da tutelare.
Wilson si trovava, all’epoca, a Città del Messico come inviato del presidente statunitense Taft, e la politica che svolse, oltre che dalle sue convinzioni, fu influenzata molto da Washington.
Tuttavia Taft tergiversò a lungo, nonostante la stessa opinione pubblica reclamasse a gran voce un intervento armato. Il suo governo si concludeva di lì a poco, per aprire la strada a quello del presidente Wilson; era il momento di passare la “patata bollente” al nuovo arrivato.
Il 21 aprile del 1914, dietro espresso ordine di Wilson, i marines del contrammiraglio Fletcher sbarcarono nel porto di Veracruz. La reazione fu violenta, sia da parte degli uomini di Huerta sia da parte dei costituzionalisti di Villa e Carranza.
L’occupazione di Veracruz fu, al principio, veloce e tranquilla. Alle 11 e 30 del mattino il comandante huertista del porto consegnò i depositi e il porto intero ai marines.
Nel pomeriggio però la popolazione, insieme ai 200 cadetti della locale accademia militare, aprì il fuoco contro gli yanquis, che dovettero ritirarsi. L’indomani i cannoni della flotta militare polverizzarono l’accademia e posero fine alla resistenza.
Questa assurda prova di forza costò agli statunitensi 19 caduti e causò quattrocento morti tra le file dei resistenti. Le notizie dei militari (USA) deceduti “sconvolsero” Wilson e il paese si “sentì sull’orlo di una guerra”, mentre gli uffici di reclutamento si riempivano di volontari.
La prosecuzione dell’intervento fu evitata dall’Argentina, dal Brasile e dal Cile, che offrirono la loro mediazione per superare la crisi. Si mise in piedi una conferenza a Niagara Falls, che iniziò il 18 maggio e si concluse il 30 giugno con un accordo che prevedeva la creazione in Messico di un governo provvisorio, preludio a “libere” elezioni.
Nel frattempo le vittorie dei costituzionalisti toglievano a Huerta una città dopo l’altra, fino a che il dittatore fu costretto a rinunciare al potere e fuggire in esilio.
L’occupazione USA di Veracruz si protrasse fino a novembre. L’immensa popolarità di cui godeva Carranza fu dovuta anche all’atteggiamento che egli assunse di fronte all’intervento statunitense. Egli aveva tutto l’interesse a non mettersi in urto con il potente vicino e invece non esitò a prendere una posizione netta contro il governo USA, intimando a Wilson di ritirare le sue truppe da Veracruz.
Il 20 agosto del 1914 Carranza fece il suo trionfale ingresso a Città del Messico, ma non volle assumere il titolo di presidente della repubblica. Si dichiarò infatti “incaricato del potere esecutivo” e con i suoi uomini dette il via alla formazione del nuovo governo.
Sembrava dunque che il Messico si apprestasse a iniziare un nuovo periodo di pace, ma così non fu.
Villa e Zapata non erano disposti a riconoscere l’autorità di Carranza. Villa per insofferenza alla disciplina militare, Zapata per diffidenza politica (visti i precedenti con Madero).
Per evitare una nuova guerra civile si cercò da più parti di smussare l’antagonismo fra quei tre uomini.
Dopo lunghe discussioni si giunse a un'intesa secondo cui sarebbe stata convocata a Città del Messico una conferenza di governatori e alti capi militari per tracciare le linee del nuovo ordinamento costituzionale che sarebbe stato rispettato da tutte le correnti rivoluzionarie.
La Conferenza iniziò il 1 ottobre del 1914, ma fu disertata sia da Villa che da Zapata, i quali non mandarono nemmeno dei loro rappresentanti.
I due leaders sostenevano che la capitale fosse talmente infeudata a Carranza da esercitare forti pressioni sull’esito della conferenza stessa.
Carranza, al contrario, vi partecipò e dopo il discorso introduttivo si ritirò per permettere la massima libertà di discussione tra i partecipanti.
La carta era giocata e al momento di stabilire la fiducia a Carranza quale incaricato del potere esecutivo, la conferenza gli confermò la carica.
Tuttavia l’atmosfera divenne tesa e ci furono aspre discussioni tra i sostenitori di Villa e Zapata e quelli di Carranza. Alla fine peones e Carranzisti raggiunsero un accordo:la conferenza sarebbe stata spostata in una piccola cittadina di provincia considerata “neutrale”, Aguascalientes.
Il trasferimento rovesciò completamente la situazione a favore degli avversari di Carranza, ed anche se non si presentarono né Carranza né Zapata, data la cospicua presenza di avversari di Carranza (tra cui molti zapatisti), la conferenza si rivelò in maggioranza contraria al mantenimento di Carranza come capo dell’esecutivo.
Dalla capitale Carranza inviò un messaggio in cui si dichiarava pronto, se la conferenza lo avesse ritenuto necessario, a dare le dimissioni a patto però che venissero accettate le seguenti condizioni:
1) Che in attesa della creazione di un governo definitivo quello provvisorio procedesse urgentemente alle riforme sociali reclamate da gran parte della popolazione;
2) Che Villa rinunciasse al comando della divisione del nord e si ritirasse a vita privata;
3) Che anche Zapata rinunciasse a ogni incarico pubblico ritirandosi a vita privata.
Carranza concludeva il messaggio sostenendo che, qualora si fosse deciso per l’esilio di Villa e/o Zapata, sarebbe partito anch'egli per l’estero.
Le condizioni di Carranza vennero respinte e la conferenza lo esonerò dal suo ruolo mettendo al suo posto Eulabio Gutierrez.
Ma Carranza non volle cedere il potere, fuggendo a Veracruz sotto l’incalzare degli uomini di Villa e Zapata. Lo stesso Gutierrez cercò poi di liberarsi dei due rivoluzionari accusandoli di aver compiuto delitti e saccheggi a Città del Messico ma dovette fuggire dal Messico, lasciando il posto a Lagos Chazaro.

LA FINE DI ZAPATA

Nel 1917 venne proclamata la costituzione redatta da Carranza, nuovo presidente del Messico. Zapata era rimasto ormai l’unico capo rivoluzionario a non aver deposto le armi. Dai monti di Tlaquiltenango, nel Morelos, poteva controllare con i suoi uomini tutta la costa del Guerrero fino a Acapulco. Era deciso a difendere quello che considerava il patrimonio ideale della rivoluzione, il Plan de Ayala, e solo quando avesse trovato un uomo disposto a realizzarlo avrebbe deposto le armi.
Non si fidava dei politici, non aveva voluto presenziare alla conferenza di Aguacalientes, aveva capito che il Messico era ricco di terra e risorse minerarie che avrebbero dovuto essere espropriate e divise, ma anche che mancavano i quadri per la rivoluzione, la campagna era analfabeta mentre la città era corrotta. Ma ormai era isolato. Il generale Pablo Gonzalez che Carranza gli spedì contro adottò la tattica della terra bruciata: i villaggi zapatisti vennero incendiati, i “ribelli” fucilati e le haciendas svuotate dei viveri.
Eppure, nonostante tutto, i peones rimanevano fedeli a Zapata e a ciò che egli rappresentava: la riforma agraria, la repubblica indigena fatta di uomini liberi e padroni della propria terra. Gli abitanti dei villaggi del Morelos si unirono a Zapata, scappando nella Sierra dove i guerrilleros dominavano indisturbati.
Zapata per sfamare queste persone creò delle unità d’assalto appositamente addestrate, in grado di penetrare tra le fila carranziste e far razzia di salmerie e viveri; dette ordine che si coltivasse la terra nei territori da lui controllati: nei momenti di pausa la zappa sostituisce il fucile.
Intorno a lui cominciarono però anche le defezioni. Prima Montano (il suo scrivano), poi altri colonnelli e consiglieri dello stato maggiore.
Ora Carranza sapeva che Zapata era sempre più solo, ma vista inutile la forza delle armi fece ricorso a un altro metodo, il tradimento: fissò una taglia di centomila pesos sulla testa di Zapata.
Alla fine sarà il colonnello Jesùs Guajardo ad uccidere Zapata. Fece prelevare un comandante zapatista destinato al plotone d’esecuzione e gli promise salva la vita se avesse fatto da intermediario tra lui e Zapata. Guajardo disse al prigioniero che intendeva passare tra le fila zapatiste. Il prigioniero accettò e recò a Zapata il messaggio.
La mattina del 10 aprile 1919 Zapata, con trenta uomini di scorta, si recò all’incontro presso la Hacienda di Chinaneca. Zapata e i suoi entrarono nella hacienda, in apparenza disabitata, ma arrivati nel cortile sentirono improvviso il crepitare dei fucili mentre i proiettili piovvero loro addosso da tutte le parti. Zapata e i suoi morirono senza avere nemmeno il tempo di reagire.
Poche ore dopo Carranza ricevette un telegramma: “Vi porto il corpo di Emiliano Zapata”. Il cadavere del leggendario condottiero viene esposto nella pubblica piazza affinché i peones vedessero che Emiliano era morto e tutto era finito. Da lì a poco anche le bande zapatiste si dissolvevano.


LA FINE

Carranza
Nel maggio del 1917 Carranza venne eletto definitivamente presidente del paese, promulgò una costituzione basata su principi di libertà politica ed equità sociale, e la popolazione iniziò a sperare in un lungo periodo di pace.
L’economia messicana era in uno stato spaventoso: i salari dei braccianti erano gli stessi del 1792, mentre il 95% di contadini viveva in povertà e le proprietà demaniali erano in mano straniera.
La tanto attesa riforma agraria si limitò a dare 180mila ettari di terra a 48mila famiglie povere del paese, cosa che suscitò delle agitazioni subito represse con la forza. Inoltre le compagnie straniere proprietarie delle miniere si sentirono minacciate dai principi di nazionalizzazione contenuti nella nuova costituzione.
Infine si apriva una crepa fra le fila carranziste, poiché s'approssimava per Carranza lo scadere del mandato ma egli non intendeva rinunciare alla presidenza del paese. Contro tale pretesa insorse il generale Obregòn che accusò Carranza di voler instaurare una dittatura. Carranza ordinò l’arresto del generale, il quale fuggito nella regione di Sonora radunò attorno a lui un gran numero di uomini armati.
Carranza alla fine fuggirà a Veracruz, dove verrà assassinato in circostanze misteriose il 21 maggio del 1920.

Villa
Pancho Villa si ritirò a vita privata in un hacienda presso Chihuahua e i suoi “reati” e le sue insubordinazioni gli vennero amnistiati a patto che non si occupasse più di politica. Villa accettò.
Il mattino del 20 luglio 1923 a Parral, dove si era recato per redigere testamento, verrà ucciso in un'imboscata insieme al suo autista.

Obregon
Obrègon, succeduto alla presidenza in seguito alla morte di Carranza, accantonò la riforma agraria e indennizzò le compagnie straniere per i danni loro causati dalla rivoluzione, guadagnandosi così quell’appogio statunitense che gli venne utile quando, nel 1924, scoppiò un altra rivolta contro il governo centrale.
Ma il 17 luglio del 1928 cadde anch’egli ucciso durante un banchetto organizzato in un ristorante della capitale per festeggiare il suo secondo mandato presidenziale.

Moriva così l’ultimo protagonista della rivoluzione messicana, la prima rivoluzione del '900. Tutti i suoi protagonisti erano morti nel giro di una quindicina d'anni: Abraham Gonzalez, Madero, Villa, Zapata...
Furono quest’ultimi a fare la storia del paese, erano peones incazzati e confusi dalla povertà, dalle condizioni che avevano subito per molto tempo, ma cercarono in un qualche modo di mettere in atto un cambiamento.
[Appunti sulla Rivoluzione Messicana, Edoardo Scaranello]

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