Marcos: kalashnikov e poesia

Hay que endurecerse, pero sin perder la ternura jamás. Ernesto Che Guevara
Bisogna essere duri, senza mai perdere la tenerezza.



Un’india piccolina, col fardello di un bimbo nel rebozo, altri due bimbi per mano, sbuca disperata dalla giungla e si mette a correre per la statale. Non so da cosa fugge o verso cosa corre, ma l’angoscia le distorce il viso fragile di madre bambina.
Mi passa accanto di corsa, trafelata, mi guarda, rallenta, mi mormora un rispettoso “¡Buenas dias, señor!” e riprende a correre a tutta velocità, i piedi scalzi sull’asfalto, con la sua angoscia che non conoscerò mai.
Una fitta di rabbia attanaglia perfino il mio vecchio cuore borghese: penso agli indios timidi e rispettosi, alle Guardias Blancas — le milizie private dei latifondisti — che passano arroganti sui loro pickup, ostentando minacciosamente i fucili a pompa. E ai ganaderos avidi, ai giudici corrotti, ai poliziotti complici, alle ragazzine violentate per cacciare i genitori dalle loro terre.
Penso al saccheggio del Chiapas, che dà al Messico l’81% del petrolio da esportazione, il 55% dell’energia idroelettrica, il 47% del gas naturale, il 31% delle banane, ed è in assoluto il più grosso produttore di caffè del Paese. In cambio, la maggior parte della popolazione indigena vive nella miseria. Ma una miseria nera: giudici corrotti hanno rubato ai contadini indios la terra che era legalmente loro per trasferirla agli allevatori, i ganaderos.
Oggi gli indios sono profughi nella giungla improduttiva del Chiapas. I bambini hanno ottime probabilità di morire prima del quinto anno di malattie curabili: influenza, morbillo, diarrea. E perfino i cani, nei villaggi indigeni, sembrano fantasmi scheletriti che vagano famelici in cerca di cibo.
Però siamo giusti: bisogna riconoscere che il governo messicano investe molto, in Chiapas. 11 milioni di dollari per il nuovo faraonico teatro di San Cristóbal de las Casas, (gli indios non hanno neppure le scarpe per essere ammessi, lasciamo stare i soldi del biglietto).
Ha costruito il nuovo aeroporto di Tuxtla Gutierrez. (In una pianura invasa 200 giorni all’anno dalla nebbia. No problem: i terreni appartenevano a un grosso notabile locale). L’importante è che il denaro giri, e che anche la più piccola briciola di mordida vada a finire nelle mani giuste.
Un governatore, il generale Castellanos, appassionato di pallacanestro, ha fatto costruire 3.700 campi da basket: uno sport da giganti per indigeni alti un metro e sessanta che vivono in villaggi senza scuole, senza ambulatori, senza fognature, senza acqua potabile.
C’è da dire che l’idea del generale era lungimirante: un campo da basket è perfetto per far atterrare un elicottero. E l’esercito qui di elicotteri ne ha trasferiti tanti. Perché il Chiapas è in rivolta. E altri focolai - Guerrero, Oaxaca, Veracruz, la stessa Città del Messico - si stanno accendendo, sotto la spinta della corruzione, della violenza e dell’indigenza di questa grande nazione eternamente in bilico tra Primo e Terzo Mondo.
Tanto per essere chiari: il Messico sta rischiando la guerra civile.
Ma questa rivolta che è nata nel Chiapas non è come le altre. Ha un contenuto di originalità del tutto particolare. E combatte con mezzi finora sconosciuti ai mercanti d’armi: l’ironia, la fantasia, la poesia.
E’ sempre troppo facile, troppo schematico, troppo pigro personalizzare un movimento riferendosi al suo leader. Però è quasi impossibile parlare dell’ Ejercito Zapatista de Liberación Nacional (EZLN) senza riferirsi al suo portavoce e comandante militare: il Subcomandante Insurgente Marcos.
Perché Marcos ha due qualità fondamentali per un leader: carisma e culo.
Il carisma se lo è guadagnato sul campo. Dodici anni fa si bruciò tutti i ponti dietro le spalle e andò nell’Alto del Chiapas con altri quattro compagni. Probabilmente addestrati in Salvador o in Nicaragua, il compito di questi guerriglieri di formazione marxista era quello di sollevare i sottoproletari indigeni secondo lo schema classico della guerriglia cubana, vietnamita o sandinista.
Ma nel frattempo è successo qualcosa. Qualcosa di grosso: la caduta del muro di Berlino, il lento declino di Cuba. E qualcosa di sottile: la vita quotidiana coi discendenti dei Maya, con la loro filosofia, il loro complesso sistema di simboli, la loro magia. Marcos scoprì che i discendenti dei Maya — i Lacandoni, gli Tzotziles, gli Tseltales, i Choles, i Tojolabales — lungi dal formare un Lumpenproletariat abbrutito dall’alcool e dalla miseria, sono gruppi sociali ben organizzati, con una democrazia semplice e molto funzionale, in cui le decisioni della maggioranza vengono fatte rispettare duramente. E che sono dotati di un gran senso dell’umorismo.
All’inizio gli indios prendevano in giro i guerriglieri venuti da Città del Messico che parlavano di marxismo e di rivoluzione. I primi compagni non ce la fecero: alcuni di loro morirono, altri tornarono alla città. Ma Marcos riuscì ad adattarsi alla vita durissima della montagna, lasciandosi pian piano compenetrare dalla cultura Maya e dai suoi simboli. Imparò a conoscere queste montagne sterminate, a sostenere marce durissime, a metter trappole, a sopravvivere mangiando topi e serpenti, a bere l’ orina per evitare la disidratazione. Imparò alla perfezione i quattro dialetti principali della montagna. Dimostrò agli indios che poteva fare tutto quello che facevano loro, e anche meglio.
E, pian piano, fu accettato: cominciò organizzando un gruppo armato di indigeni per proteggersi dalle violenze delle Guardias Blancas e arrivò ad essere il comandante militare della guerriglia indigena.
Queste montagne conservano una grande carica di magia. Sono ancora vivi i riti che nacquero nella notte dei tempi, quando i Maya regnavano in pace sul Chiapas, sul Nicaragua, sullo Yucatan, occupandosi di medicina e di astronomia, inventando lo zero, costruendo monumenti di straordinaria potenza che ancor oggi ci guardano muti e inquietanti.
Probabilmente Marcos, il sociologo che analizzava le rivendicazioni indigene secondo l’ottica rigorosa della lotta di classe, ha anche affrontato e superato (ma su questo lui non commenta) riti iniziatici e sciamanici.
Ed ecco che il suo linguaggio si trasforma, si ammorbidisce, diventa meno scientifico e più denso di contenuti tratti dal ricco immaginario collettivo dei Maya: “…qui, nelle montagne del Sureste messicano, vivono i nostri morti. Molte cose sanno i nostri morti che vivono nelle montagne. La loro morte ci parlò e noi ascoltammo… ascoltammo le parole delle cajitas parlanti …” E così via, passando per i mostri delle leggende Maya e i fantastici uomini-animale che corrono la notte nelle selve del Chiapas.
Così è nato l’EZLN: dopo aver fatto - sette anni prima di Lenin, nel 1910 - la prima rivoluzione del XX secolo con Pancho Villa ed Emiliano Zapata, il Messico ha dato vita al primo movimento rivoluzionario del terzo millennio.
Certo, gli zapatisti sono inquadrati militarmente, usano con molta decisione il Cuerno de Chivo (il “corno di capro”, il kalashnikov), hanno occupato alcune città del Chiapas, sparato e ucciso.
Ma, dopo un numero minimo di morti, si sono ritirati: con una serie di iniziative di grande intelligenza politica, di azioni altamente etiche e dimostrando una straordinaria capacità di comunicazione, hanno guadagnato un’autorità morale assolutamente sproporzionata alla loro reale forza militare.
Ma tutto questo non sarebbe stato possibile senza la seconda grande qualità di Marcos: il culo. La notte del 1° gennaio 1994 l’esercito zapatista, sotto il comando militare di Marcos, attaccò con le armi San Cristóbal de Las Casas, ex capitale del Chiapas, e altre cinque città, conquistandole dopo combattimenti sanguinosi. L’attacco era stato pianificato per il 1° gennaio del ‘93, ma qualcosa era andato storto e, con pazienza tutta india, Marcos aveva rimandato tutto di un anno. Ancora culo: il 1° gennaio ‘94 entrava in vigore il NAFTA, il trattato di commercio nordamericano: quale migliore data simbolica? Nel municipio di San Cristóbal crivellato di proiettili, con le carte degli archivi sparpagliate sulla piazza, i bossoli e l’odore degli spari ancora nell’aria, il portavoce designato dall’EZLN a parlare con i giornalisti era un comandante indigeno sulla cinquantina, un certo Felipe, che però parlava a malapena lo spagnolo.
La strategia era che il levantamiento doveva essere considerato un moto puramente indigeno. Ma alcuni turisti americani che avevano avuto la pessima idea di passare Capodanno a San Cristóbal, ansiosi e spaventati, avevano chiesto spiegazioni. Per sbaglio Marcos era lì in piazza (stava trasportando le armi sequestrate al comando di polizia). I compagni gli dissero: “Sup, senti un po’ che carajo vogliono questi, non ci capiamo una chingada.”
Lui, sornione dietro il passamontagna nero, cominciò a tranquillizzare i gringos in ottimo inglese, sbuffando lunghe boccate dalla pipa tra l’una e l’altra delle sue battute.
I giornalisti messicani e stranieri lo sentirono e si accodarono al gruppo. Ben presto nessuno si calcolò più il povero Felipe (che peraltro morì in azione un paio di mesi dopo): tutti erano affascinati dall’ottimo inglese e dal ricco castigliano del seduttore in passamontagna nero.
Erano le 8 del mattino. Stava nascendo — come spesso succede, per caso e senza alcuna premeditazione — una leggenda.
Chi l’avrebbe mai detto?”, dice Marcos, “Prima del 1° gennaio ‘94 per andare sulla stampa bisognava almeno rapire qualcuno di importante […] non avremmo mai sperato che la stampa o la televisione, nazionale e tanto meno internazionale, fosse tanto aperta a ricevere un messaggio come il nostro. Tutto ciò ci ha colto ti sorpresa.”
Sempre sotto le righe, sempre autoironico: ha charme, il Subcomandante. Anzi, il Sup, come lo chiamano i suoi uomini, i comandanti indios che lo trattano con un misto di affetto e sfottò. E’ un verdadero grande encantador .
Quando ti guarda dritto in faccia con quegli occhi color miele, quando ti parla con quella voce armoniosa e profonda, quando cammina con quell’andatura da orsacchiotto, capisci perché le donne di mezzo mondo gli salterebbero addosso. Ma soprattutto perché è riuscito a conquistarsi l’affetto e il supporto della società civile messicana.
Cosa che, per ora, non sembra essere riuscito a fare l’ altro gruppo rivoluzionario, l’ERP (Ejercito Revolucionario Popular), che sta sollevando altre zone del Messico. Il suo comandante o portavoce, Francisco, non sembra avere l’intelligenza politica di Marcos, anche se cerca di copiarne i modi, dal farsi fotografare col volto mascherato all’indire conferenze stampa in mezzo alle montagne di Oaxaca.
Il fatto è che l’ ERP mantiene - almeno per ora - il vecchio obiettivo di prendere il potere, e a Huatulco ha ucciso sparando di sorpresa a poliziotti che dormivano. Nessuno dei beaux gestes che colpiscono tanto l’ immaginazione del Messico - e del mondo intero. Marcos ha tutto un’altro stile.
Perché porto il passamontagna? Perché ho il naso grosso, e così le donne mi credono bello” dichiara ribaldo, buttandoti un’occhiata in tralice, ironica e beffarda. Ha il carisma dell’antieroe. Ma è quando parla seriamente, quando si appassiona su un mondo di eguali nelle reciproche differenze, un mondo in cui i bambini indios non muoiano più di malattie curabili, di una rivoluzione che non è interessata a prendere il potere, che gli occhi color miele mandano lampi. E allora capisci perché ha affascinato e convinto della sua buona fede indigeni ed europei, capitribù ed arcivescovi, sciamani e politici di Città del Messico.
Un nuovo Che Guevara? Forse. Ma, più ancora, un Lawrence d’Arabia: il bianco colto che si è fatto indigeno e — con le proprie doti personali e una passione che travalica qualsiasi riguardo per la propria persona — conquista una massa di disperati in gran parte analfabeti che oggi sono pronti a morire per lui.
Parliamoci chiaro: in questo momento, nel mondo, dalle Filippine al Brasile, dal Sahara alla Cina, dal Burundi a Timor, ci sono milioni di oppressi e di guerriglieri che si ribellano, che vengono incarcerati, torturati e uccisi.
Perché solo Marcos è riuscito ad imporsi così tanto all’opinione pubblica mondiale? Prima di tutto perché è un poeta. Ha l’istinto della comunicazione, della parola, del simbolo. Poi, come si diceva, perché ha un gran culo. Un esempio? La favola della “Guerriglia via Internet”, che tanti titoloni ha offerto ai giornali. Linus è il primo - almeno qui in Europa - ad essere in grado di sfatarla.
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Una sera fredda e piovosa, al campo zapatista di Oventic, facendo la fila per lavare il mio piatto e le posate, con gli stivali nel fango fino alla caviglia, mi metto a chiacchierare con uno studente dell’ Oregon, un biondino con gli occhialetti di metallo e la faccia da nerd: Justin Paulson.
Scoprendo ben presto una comune passione per i computer, gli ripeto il solito bla bla sul genio di Marcos per la comunicazione, e di come sia stata grande la sua idea di comunicare col mondo via Internet.
Justin fa un sorriso timido e mi dice: “Mah… veramente… Marcos non sa niente di Internet. Sono stato io a mettere i suoi comunicati sulla Rete.”
La verità? Justin, nei primissimi giorni del ‘94, fu affascinato dalla novità del movimento zapatista, dai suoi comunicati intrisi di ironia e di poesia, da gesti cavallereschi come la liberazione del Generale Castellanos.
Riconoscendo in questa rivoluzione qualcosa di fortemente innovativo anche dal punto di vista della comunicazione, cominciò a pubblicare su Internet i comunicati che uscivano ogni giorno su “La Jornada”. Ben presto, nel modo non lineare, misterioso e incontrollabile in cui funzionano i nuovi mezzi di comunicazione, le nuove idee zapatiste si sparsero come un virus, a una velocità possibile solo sulle rotte elettroniche.
In Inghilterra, in Germania, in Italia nacquero nuovi siti che rilanciavano i comunicati. Si mobilitarono i gruppi politici, sorsero comitati spontanei, si organizzarono manifestazioni di fronte alle ambasciate messicane di Parigi, Londra, New York. L’interesse per il levantamiento fece scoprire Zapanet. I giornalisti, che agli inizi del 94 erano in piena foia internettiana (la maggioranza di noi non ne capiva nulla, tendeva a sopravvalutare la Rete, e comunque la sola parola “Internet” faceva notizia) , lanciarono grandi titoli: “La rivoluzione via Internet”, “Il nuovo Che Guevara combatte sulla rete” e via sciocchezzando.
L’interesse per Internet, a sua volta, rilanciò e amplificò l’interesse per il movimento zapatista, producendo nuovi articoli. Un bellissimo esempio di giornalismo autoalimentante.
Il risultato fu una pressione internazionale che il governo non poteva ignorare, e che lo costrinse a venire a patti con quel pugno di straccioni armati di Cuernos de Chivo e di poesia. Così il Subcomandante col passamontagna e la pipa divenne famoso in tutto il mondo grazie alla Rete senza sapere nulla della Rete.
Certo: Marcos usa un personal computer per scrivere i suoi comunicati. Ma come potrebbe collegarsi a Internet? Nell’Alto del Chiapas non arrivano linee telefoniche. Potrebbe usare un telefono satellitare. Ma diventerebbe un bersaglio perfetto per i satelliti spia che girano sul Messico. Un missile lo incenerirebbe in trenta secondi, come è già successo in Cecenia.
Beh” dico a Justin “sarai diventato molto amico di Marcos. Gli hai fatto un servizio della madonna”. Il giovane nerd abbassa la testa. Nella luce incerta della candela mi pare di vederlo arrossire: “Non l’ho mai incontrato di persona… ma spero che almeno stavolta me la dia un’intervista per il sito zapatista…”
Vai, Justin, cerca di mettergli il sale sulla coda.”
Misteriosa complessità dei rapporti umani per via elettronica.
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Ovvio, non è tutto culo. Se i comunicati di Marcos hanno avuto tanto successo è perché erano scritti col cuore e coi cojones, , e parlavano direttamente al cuore ed ai cojones della gente.
Sentite come descrive la condizione indigena: “Eravamo come pietre, come piante che si incontrano per la strada. Non avevamo parola. Non avevamo volto. Non avevamo nome. Non avevamo domani.”
Oppure: “… noi non contavamo. Non producevamo. Non compravamo, non vendevamo. Eravamo un numero inutile nei conti del grande capitale…”
Questo linguaggio è a una distanza siderale dalla retorica populista dei movimenti rivoluzionari del XX secolo. E basta ricordare il linguaggio burocratico e funereo d e i comunicati delle Brigate Rosse per rendersi conto che siamo già nel Terzo Millennio.
I vecchi rivoluzionari cercavano di conquistare il potere abbattendo la classe borghese. Marcos e i suoi indigeni offrono un sogno. Il sogno di una rivoluzione che non vuole il potere. Che vuole vivere in pace, in una democrazia vera.
Chi comanda può essere nero o bianco, però deve essere onesto […] gli indigeni non vogliono che il governatore del Chiapas sia necessariamente un indigeno, perché potrebbe essere lo stesso un figlio di puttana, un corrotto, un bastardo…può essere un meticcio, un bianco, un universitario, un professore, basta che risponda ai nostri interessi…” (“Yo, Marcos”)
Io presidente del Messico? Lei è matto! Io sono un dirigente guerrigliero, un poeta, un sognatore! Ma se l’immagina? Sarei un disastro!” ha detto Marcos ad Andreas Oppenheimer (Premio Pulitzer, autore del fondamentale “Mexico - Bordering on Chaos”).
Un’altra grande abilità di Marcos è nell’uso dei simboli. Forse è vero che il passamontagna è nato solo per proteggersi dal freddo o per proteggere la propria identità. Però è anche vero che, nelle antiche cerimonie di guerra, i Maya si tingevano il viso di nero, lasciando scoperti solo gli occhi. E che se ne fa un comandante guerrigliero che usa un mitra M-15 [Ndr l'arma usata dal Subcomandante Marcos non è - come detto nell'articolo - un M-15, bensì un Colt assault rifle M4A1] di una cartuccera per fucile a pompa? Assolutamente superflua, finché non si pensa che le cartuccere a tracolla ricordano immediatamente a ogni messicano i suoi padri fondatori, Villa e Zapata.
E attenzione: sul campo zapatista della Realidad non sventola la stella rossa in campo nero dell’EZLN: i Pilatus che passano a volo radente per intimorirci sorvolano il tri- colore messicano con l’aquila e il serpente. E, alla cerimonia di apertura, il primo inno non è “Ya se mira el horizonte, combatiente zapatista”. Il guerrigliero incappucciato sul palco intona“ Mexicanos al grito de guerra”, l’inno nazionale che l’esercito suona all’alzabandiera, e che TV Azteca, la Tv progovernativa (beh, quale non lo è?) diffonde alla fine della trasmissioni.
Ma anche l’inno di Villa e Zapata, scippato - come la bandiera - al popolo dalla nuova classe dominante. L’inno e la bandiera che l’EZLN vuole riconquistare a tutto il popolo messicano.
E’ con questo spirito aperto, non settario, che Marcos e i suoi comandantes indigeni si sono guadagnati la fiducia della società civile messicana.
E anche con gesti lungimiranti. Come il processo al Generale Castellanos: quello dei campi da pallacanestro, ex governatore del Chiapas, responsabile di estesi furti di terre, di violenze e uccisioni di contadini.
Il vecchio generale viene catturato nei giorni dell’insurrezione, processato e condannato all’ergastolo in un villaggio indigeno. Ma, immediatamente, la condanna viene commutata: “…nella vergogna di continuare a vivere con il peso del perdono di quelle stesse genti che aveva violentato, derubato, tradito e ucciso…”
Castellanos viene riconsegnato alla Croce Rossa e dichiara: “Mi hanno trattato benissimo … mi pareva di essere nella mia caserma.”
Un gesto cavalleresco, che ha guadagnato al Subcomandante il rispetto di quegli stessi militari che gli stanno dando la caccia nella giungla.
Ultimo in ordine di tempo, l’emozionante gesto del 12 ottobre scorso: Marcos viene invitato al Congresso Nazionale Indigeno di Città del Messico. Apparire nella capitale col passamontagna sarebbe una grande vittoria politica. Ma costringerebbe il presidente Zedillo a farlo catturare o a perdere la faccia: una scelta comunque rovinosa per il dialogo. Marcos dimostra il suo grande fiuto politico e sceglie la flessibilità. Ma non rinuncia al beau geste: invia Ramona, la comandante di 37 anni consumata dal cancro.
E Ramona, con gli occhi gonfi e cerchiati che spuntano – sofferenti e luminosissimi – dietro il passamontagna, parla al Congresso con voce tremante e piena d’ emozione, stringendo il tricolore messicano.
Roba da far sciogliere il cuore anche ai giganti di pietra dei toltechi. Se aggiungete il fatto che, per la fantasia popolare, Ramona è la donna di Marcos (le bamboline chamula vendute dagli indios per le strade di San Cristóbal sono sempre in coppia: Marcos e Ramona), potete valutare da soli l’ enorme carica simbolica di questo ennesimo successo di comunicazione.
Anche per questo stile, per questi gesti carichi di emozione e di pathos, Marcos ha un seguito enorme tra la società civile messicana, e i suoi figli: splendidi questi ragazzi, queste ragazze. Svegli, pepati, preparati. Lavorano per l’EZLN ma preparano l’FZLN, il Fronte zapatista, l’ala politica e pubblica del movimento.
Hanno capito da un pezzo che è caduto il muro di Berlino. Rispettano Fidel Castro ma non la sua “…rivoluzione ormai ingessata, la sua cultura intollerante e pietrificata, figlia di militari coi paraocchi, che non lascia alcuno spazio all’immaginazione” si infuoca Shazam, 17 anni, occhi da pantera e una cultura che spazia dai Toltechi a Noam Chomsky.
Ragazzi generosi, pieni di energie belle, di entusiasmo, di rigore morale. Passo una notte con una decina di loro in un appartamento sicuro, sperduto in un barrio periferico dell’infinita Città del Messico, a bere birra Sol, a cantare corridos revolucionarios e a parlare fino all’alba di politica, di guerriglia, di speranze, di futuro. E molto, moltissimo di poesia.
Trasportato dal loro entusiasmo, li guardo con struggimento. Penso ai “federali” con le loro uniformi stirate, i loro elmetti da nazisti, le loro faccette toste e feroci: indios addestrati a cacciare altri indios, l’eterna storia dei sottoproletari che si ammazzano tra di loro.
Certo, in questo momento, a Fort Bragg le unità speciali americane addestrate per le guerre a bassa intensità stanno studiando mappe del Chiapas, rilevamenti aerei e foto di
Marcos. Certo, in questo momento, i ganaderos e i poliziotti stanno organizzando nuove squadracce di Guardias Blancas a San Cristóbal, a Veracruz, a Oaxaca. Quanti di questi ragazzi verranno imprigionati, torturati, uccisi se il debole presidente Zedillo cederà alle pressioni dei falchi? Che ne sarà di Shazam, di Gloria dai larghi sorrisi, di Teresa detta ”Chica loca”, di Abraham detto “El Guero”, di Nadia dalla pelle scura e dagli occhi malinconici da india?
Speriamo di cuore che il Messico di domani sia il loro Messico. E sosteniamoli con ogni mezzo, perché ci fanno un regalo prezioso: questo mondo sempre più piatto e omologato ha un gran bisogno di lieviti. Ha un gran bisogno di ribelli. (Enzo G. Baldoni)

Es necesaria una cierta dosis de ternura para quitar de enmedio a tanto hijo de puta que anda por ahi. Pero a veces no basta con una cierta dosis de ternura y es necesario agregar... una cierta dosis de plomo!

E’ necessaria una certa dose di tenerezza per togliere di mezzo tanti figli di puttana che se ne vanno in giro. Però a volte non basta una certa dose di tenerezza ed è necessario aggiungere... una certa dose di piombo!

Subcomandante Insurgente Marcos


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