¡Cuba Libre!




Il 1° gennaio 1899 venne proclamata a Cuba la "repubblica mediatizada", dipendente dagli Usa, i quali, tra le altre cose, imposero l'emendamento Platt che prevedeva: controllo sulle tariffe doganali; divieto per il governo di Cuba di stipulare trattati internazionali o contrarre prestiti senza l'approvazione Usa; concessioni per gli Stati Uniti di basi militari a Cuba (tra le quali quella di Guantanamo, tuttora occupata!); il potere agli Usa di intervenire militarmente nell'isola.
Inoltre venne imposto un Trattato di reciprocità commerciale per "regolare" il sistema di dazi e tariffe fra i due Paesi, favorendo i grandi Trust nordamericani.
Per obbligare i cubani al rispetto della nuova situazione, i marines intervennero tre volte nel giro di 11 anni: nel 1906, 1912, 1917. Oltre agli interventi repressivi, gli Usa imposero governi fantoccio e, nell'intresse della libera concorrenza fra le varie banche e grandi industrie nordamericane, imposero a Cuba un sottosviluppo cronico ed una esasperata economia basata unicamente su un'unica coltivazione, la canna da zucchero.
Le condizioni di vita arretratissime, l'analfabetismo, le malattie, la sottoalimentazione, la mortalità infantile furono il terreno che dette origine al movimento operaio e rivoluzionario. Nel 1925 nacque il Partito Comunista Cubano, fondato da Julio Antonio Mella che morì in esilio in Messico il 10 gennaio 1929 a soli 29 anni, assassinato da un sicario del dittatore cubano Gerardo Machado, il quale operò una feroce repressione del movimento operaio. A lui si deve la costruzione nell'Isola dei Pini (oggi Isola della Gioventù) del penitenziario-lager per gli oppositori.
Da una parte si susseguono scioperi e manifestazioni di massa e dall'altra una processione di dittatori sanguinari. Nel 1934 si verificò l'ultimo grande sciopero generale, schiacciato con la forza dal governo.
Nel 1940 sale al potere Fulgencio Batista. Nel Paese regna la corruzione e la miseria.
"Cuba: terra della musica, dello zucchero e del rum". A Miami e a New York, i manifesti multicolori di propaganda promettevano delizie al turista statunitense: palme, spiagge, sole, rumba, carnevali, alcool, donne bianche e negre. Con un sorriso di complicità, al visitatore veniva garantito un "sicuro effetto afrodisiaco" quando al tramonto sarebbe giunto a Cuba, la perla dei Caraibi. E tutto questo ben di Dio era in vendita, tutto compreso nel prezzo fissato dalle agenzie turistiche.
Venne un giorno in cui i manifesti multicolori furono violentemente strappati e si potè vedere chiaramente che cosa nascondessero in realtà.
Effetto afrodisiaco... In effetti, più che di un composto magico, si trattava del prodotto finale di un'industria assai redditizia: la prostituzione. All'Avana, erano diecimila le donne che esercitavano quel mestiere; e ogni giorno, puntualmente il capo della polizia incassava ia sua percentuale. Ma questo era solo, a ben guardare, un particolare di un quadro piu ampio, un tempo occultato dai manifesti variopinti.
All'epoca, un cubano su tre era analfabeta; un cubano su due a godeva di un reddito annuo medio di 100-150 dollari. Negli anni '50, stando all'UNESCO, Cuba apparteneva a un gruppo di paesi il cui reddito medio pro capite oscillava tra i 300 e i 499 dollari l'anno. Tuttavia, tra il señor Julio Lobo, re dello zucchero, o il señor Emilio Bacardi, re del rum, situati al vertice della piramide sociale, e la base di questa, costituita dagli strati piu poveri della popolazione, la distanza era piuttosto notevole: al punto che, come si e detto, uno su due cubani "godeva" di un reddito che non superava i 100-150 dollari all'anno.
Ma era non tanto nella capitale dell'isola, L'Avana, quanto nelle zone rurali, che si poteva toccar davvero con mano l'entità della disuguaglianza sociale. Prendiamo a esempio la produzione agricola, fondamentale, la canna da zucchero. Il 41,9% delle piantagioni era proprietà di sei grandi aziende e, secondo un inchiesta condotta nel 1957 dalla Agrupaci & 0graven Catòlica Universitaria, su dieci cubani appartenenti alla popolazione rurale, meno di due consumavano carne.
Latifondo da un lato, miseria dall'altra: quest'era la Cuba che i turisti nordamericani non avevano mai avuto modo di conoscere.
E non era ancora tutto. Uno su quattro cubani appartenenti alla popolazione attiva era soggetto al tiempo muerto, il tempo morto, com'era chiamata la disoccupazione ciclica che, ogni anno, bussava all'uscio del lavoratore. Perché, finito il raccolto della canna da zucchero il problema diventava: che fare? Per tre mesi, tutti avevano da lavorare, l'economia agricola basata sul latifondo richiedeva braccia e ancora braccia; ma il periodo finiva, e quindi cominciava il tiempo muerto.
Alcuni riuscivano a trovare un altro lavoro come addetti alla manutenzione del terreno oppure presso le distillerie. La maggior parte, tuttavia, era costretta ad andarsene. Nelle città era possibile trovare solo occupazioni occasionaIi, e c'era all'epoca chi preferiva rifugiarsi sulle montagne piu vicine, tra cui la Sierra Maestra nella provincia di Oriente.
Qualcuno, ancora, trovava impiego in altre attività di raccolta collettiva, come quella del caffè; altri tentavano di cavare faticosamente di che vivere da un minuscolo appezzamento di terra che poteva permettere al più un'economia di sussistenza. Occupavano terre che non erano di loro proprietà, a volte tollerati dal latifondista o dal contadino ricco, altre espulsi seduta stante.
I più fortunati tra questi riuscivano a volte a trasformarsi in precaristas, vale a dire piccoli coltivatori diretti "precari", senza alcun diritto legale, che zappavano terre marginali, frazioni di ettaro lungo questo o quel pendio montano. Ma anche queste, a conti fatti, davano ben scarso reddito, mentre le bocche da sfamare erano tante.
E c'era chi, in mancanza di altri mezzi di sussistenza, si costruiva un bohìo, la dimora della popolazione rurale precaria, addirittura ai margini delle strade.
Tutti costoro rientravano nel novero dei tipici campesinos, piccolissimi proprietari o fittavoli costretti a rinnovare il contratto di anno in anno. E su tutti, in un modo o nell'altro, si proiettava l'ombra del taglio della canna, e non solo perché era facile incontrare tra loro il bracciante agricolo stagionale che il tiempo muerto aveva costretto a mettere radici su un fazzoletto di terra, ma anche perché, a rigor di termini, i legami con la calia non erano mai sciolti del tutto. E, se non il capofamiglia, almeno i suoi figli (che potevano essere cinque o dieci) spesso erano travolti dal circolo vizioso del tiempo muerto. Erano troppi per poter essere assunti stabilmente in una piccola piantagione di caffè; ma, se le braccia erano in eccesso, non era certo troppo quello che riuscivano a mettere sotto i denti.
Quest'era dunque Cuba: un paese di cui era per lo meno difficile affermare che godesse di buona salute. Ma si trattava di una repubblica, e come tale avrebbe dovuto godere per lo neno dell'indipendenza. E che faceva il governo suppostamente indipendente dell'isola per porre rimedio ai mali di questa?
Sì, era ancora vivo il ricordo del tentativo, compiuto negli anni '30 da un gruppo di civili sotto la guida di Antonio Guiteras, di creare un governo popolare che dopo quattro mesi fu però abbattuto da un golpe militare, organizzato da Fulgencio Battista. Da allora, la maggior parte dei componenti la popolazione civile aveva fatto tesoro della lezione, e anche i borghesi giocavano al colpo di stato. Era insomma il tipico meccanismo politico operante all'epoca nella maggior parte dei paesi centro e sudamericani.
Inutile dire che gli unici a disporre di una forza effettiva erano i militari; ma i governi da essi costituiti avevano un difetto, ed era che, dopo un certo periodo, finivano per irritare e stancare; sicchè i militari si prendevano una vacanza e lasciavano che fossero i civili a occupare le poltrone governative, fino al prossimo colpo di stato.
In attesa di questo, preferivano lasciare che a sbrogliarsela fossero i civili i quali, a parole, possedevano un programma-panacea universale. E quando poi il programma si riduceva a carta straccia, e con esso svanivano le illusioni, i militari tornavano a ristabilire l'ordine, fino al giorno in cui i loro metodi di governo avessero esasperato la gente, e cosi di seguito.
Il processo rivoluzionario mise fine a questo gioco di bussolotti.
Nel 1952 Batista sospende le garanzie costituzionali, assolda gruppi di gangster e, con il riconoscimento ufficiale degli Usa, iniziano vere e proprie esecuzioni di massa. Gli antefatti del movimento insurrezionale che portò Cuba al rovesciamento della dittatura di Fulgencio Batista e all'ascesa al potere di Fidel Castro si ricollegano proprio al clima di violenza e sopraffazione imposto a Cuba da Batista dopo il colpo di stato che lo aveva riportato al potere nel 1952.
Ritenuta impraticabile ogni forma di opposizione legale, il 26 luglio 1953 un gruppo d'insorti, capeggiato dal giovane avvocato progressista Fidel Castro Ruz, seguace del partito Ortodosso, prese d'assalto la caserma Moncada di Santiago di Cuba, capoluogo della provincia di Oriente, con l'intento di dare il via alla ribellione contro il regime di Batista.
Il piano prevedeva la conquista delle armi custodite presso quella caserma (e presso un'altra, piu piccola), per poi consegnarle al popolo e dare il via immediatamente all'insurrezione armata.
Centosettanta giovani, che all'alba di quello stesso giorno si erano raccolti in un finto "allevamento di polli", ascoltarono la allocuzione di Fidel: "Compagni" disse questi, "tra qualche ora sarete vittoriosi o sconfitti. Ma in ogni caso fate bene attenzione a quello che vi dico: Compagni! In ogni caso il nostro movimento finirà per trionfare. Se domani sarete vittoriosi, si potrà realizzare più in fretta quello cui aspirava Martì".
Un istante prima di dare il via all'azione, Fidel evocava dunque quelli che, per un cubano, erano i ricordi più cari. L'eroe della guerra di indipendenza che, per quanto fosse un civile e non un militare, neppure aveva esitato quando s'era trattato di scendere in campo e di affrontare la morte. Le sue idee, tra le più avanzate all'epoca in cui era vissuto, verso la fine del XIX secolo, continuavano a ispirare quei giovani nei quali, oltre all'aspirazione alla libertà, fermentava l'anelito alla piena indipendenza nazionale, il compito che Martì aveva lasciato a mezzo.
Più vicino nel tempo un altro esempio li incitava all'azione, quello di René Eduardo Chibás Rivas, il leader che, nell'intento di impartire dinamismo all'azione sociale, nel 1951 si era suicidato in maniera spettacolare davanti ai microfoni della radio.
Alla corruzione dei governanti e ai maneggi elettorali, Chibas, munito di una simbolica scopa, opponeva una parola d'ordine immutabile: la dignità contro il denaro.
La sua scomparsa non aveva però impedito al suo programma di conservare piena attualità, ed ora esso imponeva ai giovani di riunirsi nelle prime ore di quel 26 luglio e di affrontare altrettanto coraggiosamente la morte, se questa era utile al trionfo delle loro idee.
L'attacco fallì e molti dei combattenti vennero torturati dopo la cattura ed uccisi sommariamente. Malgrado la sconfitta, l'assalto al Moncada dimostrò che a Cuba esisteva un gruppo capace di preparare e compiere un'audace azione di guerriglia, senza che la polizia di Batista, considerata onnipresente ed inattaccabile, si accorgesse di nulla.
Fu comunque un'esplosione sufficiente a innescare un processo rivoluzionario. Benché all'epoca non sussistessero condizioni tali da permettere il passaggio diretto all'insurrezione generale, la giornata del 26 luglio 1953 rivelò chiaramente qual era la via che ad essa avrebbe condotto: la lotta armata.
I superstiti furono condannati a pene detentive nel super carcere dell'Isola dei Pini. In occasione del suo processo Fidel Castro trasformò la sua autodifesa "La storia mi assolverà" in un atto di accusa del regime. Verrà liberato in seguito ad una amnistia nel 1955 e riparerà in Messico, dove assieme al fratello Raul e all'argentino Ernesto Guevara, detto "Che", organizza il Movimento 26 Luglio.
Per i nordamericani, i manifesti policromi; per i cubani, il meccanismo politico dei colpi di stato. Tra questi due estremi, come abbiamo visto, si collocavano i grandi problemi irrisolti dell'isola.
C'era però anche un terzo piano: di là dalla miseria e dal "tiempo muerto", dall'analfabetismo e dalla corruzione, era possibile scorgere qualcosa d'altro, le conseguenze di quel che era avvenuto alla fine del secolo, quando gli Stati Uniti avevano occupato militarmente l'isola obbligando tutta quanta la popolazione a dedicarsi alla produzione dello zucchero di cui i primi avevano bisogno.
Zucchero, sempre zucchero, null'altro che zucchero: e Cuba si trasformò in un paese di monocoltura, senza mai avere il tempo e il modo di industrializzarsi. La conseguenza era che qualsiasi manufatto doveva essere acquistato all'estero. Con quali divise? Quelle ricavate dall'esportazione dello zucchero, quasi completamente indirizzata verso gli Stati Uniti.
Sicché, quanto più era lo zucchero cubano acquistato dagli Stati Uniti, tanto maggiore era la quantità di beni di consumo che a sua volta Cuba poteva acquistare negli Stati Uniti, dalle cadillac agli alimenti in scatola. Per una cinquantina d'anni, il sistema parve funzionare più o meno bene.
Ma negli anni '50 si verificò un intoppo. Il governo cubano decise di limitare la produzione di zucchero, in ragione delle restrizioni poste alle vendite all'estero: il mercato nordamericano preferiva lo zucchero prodotto localmente, dai coltivatori statunitensi di barbabietole.
Tuttavia, se la produzione cubana doveva per forza di cose venire ridotta (e con essa le importazioni, poiché, come si è visto, dipendevano strettamente dal volume delle esportazioni), la sua popolazione continuava a crescere.
La conseguenza era che, restando uguale la quantità dei beni di consumo, questi dovevano essere distribuiti a un numero di individui di anno in anno maggiore; e di pari passo con l'incremento demografico aumentavano i mali tradizionali dell'isola i quali, lungi dal trovar soluzione, peggioravano progressivamente.
Ma v'era chi "vegliava" sui cubani. Gli Stati Uniti, che come si é detto alla fine del secolo scorso avevano costretto l'isola a produrre quasi null'altro che zucchero, ora proponevano una soluzione politica ai suoi problemi economici, e la soluzione aveva un nome proprio, quello di Fulgencio Batista.
In realtà, si trattava di null'altro che di una nuova versione dei colpi di stato in serie, con funzioni preventive, caratteristici dell'America centrale e meridionale.
Se erano inattuali i governi militari, altrettanto lo erano le coalizioni civili classiche, da un lato prive ormai di prestigio, dall'altro incapaci di frenare il malcontento in rapida ascesa, di convincere i cubani che miseria, "tiempo muerto", analfabetismo, prostituzione erano mali inevitabili; che inoltre dovevano rassegnarsi alla riduzione delle proprie entrate e che, infine, la monocoltura e il latifondo, lungi dall'essere anomalie economiche, erano un destino.
Era dunque indubbiamente suonata l'ora di sostituire anche le coalizioni civili con quello che, da quasi due decenni, era l'uomo forte dell'isola, Fulgencio Batista, a proposito del quale Arthur Gardner, per quattro anni ambasciatore degli Stati Uniti a L'Avana, affermava: "non abbiamo mai avuto un amico migliore".
Ma chi era Fulgencio Batista agli occhi dei cubani? Un sergente che, negli anni '30, si era schierato sotto la bandiera del nazionalismo (cosa che, all'epoca, comportava un impegno politico e sociale progressista), per quindi rinnegarlo; e che, negli anni '40, divenuto nel frattempo generale, aveva governato sotto etichetta liberale nella congiuntura della seconda guerra mondiale.
Negli anni '50, senatore, col sostegno dei militari aveva imposto al paese la propria dittatura. Era cresciuto alla scuola di un esercito di carriera, i cui componenti, dal generale all'ultimo soldato, erano uniti, per la vita e per la morte, dallo stesso legame: il salario sicuro, la possibilità di carriera, la pensione, i vantaggi economici di casta.
Fulgencio Batista, il sergente che, nella sua parentesi nazionalista degli anni '30, era riuscito a farsi nominare colonnello, questo singolare self-made man castrense, divenne ben presto il capo di un siffatto esercito. E si trattava d un uomo venuto dal niente: suo padre aveva lavorato alla zafra , il taglio della canna. Un elemento questo che, in terra cubana, dove vivissima era la tradizione delle lotte operaie, di eccezionale vigore rispetto al contesto centroamericano, aveva una certa importanza.
E per soprammercato, figlio di un paese in cui così forte é la minoranza negra, Fulgencio Batista era mulatto. Il personaggio pareva fatto su misura per le necessità storiche degli anni '50.
Il colpo di stato da lui organizzato non urtò contro nessuna resistenza degna di tal nome; e la sua dittatura si iniziò proponendosi come obiettivo quello di indurre i cubani a rassegnarsi ai mali di sempre, di far loro pagare le conseguenza della crisi zuccheriera, di portare Cuba a schierarsi a fianco degli USA sul terreno della guerra fredda.
Non tutti i cubani chinarono il capo. La protesta andò anzi crescendo in vigore; e un bel giorno si verificò l'esplosione rivoluzionaria, l'assalto alla caserma Moncada.
Quale fu la reazione di Fulgencio Batista?
Servendosi dell'esercito, schiacciò i rivoltosi e la maggior parte dei giovani che avevano partecipato all'azione caddero prigionieri. Come detto per parecchi giorni furono torturati e quindi sommariamente giustiziati. La risposta repressiva data dalla dittatura non era soltanto inumana: essa non era neppure in rapporto proporzionale con l'impresa tentata da quei centosettanta giovani armati di doppiette più adatte a uccidere passeri.
Il fatto che, non appena iniziata, l'impresa fosse andata incontro al fallimento, i suoi moventi romanticheggianti, e il fatto ancora che neppure per un istante era stata messa in forse la stabilità del governo, al quale le truppe erano rimaste fedeli, erano tutti elementi che avrebbero dovuto indurre alla clemenza. Ma Fulgencio Batista non era certo andato al potere per mostrarsi clemente.
Alterò i fatti, accusò i giovani di aver assassinato dei soldati, credendo con ciò di avere il pretesto per infliggere un castigo esemplare. E tutti coloro i quali si levavano a protestare, che scendevano in sciopero, che partecipavano a manifestazioni di strada o alla lotta armata, che aspiravano a uscire dall'asfissiante atmosfera economica della monocoltura, sapessero bene a cosa andavano incontro!
E, dal suo punto di vista, il dittatore aveva ragione. Date le condizioni economiche in cui versava l'isola, ulteriormente aggravate dalla guerra fredda, c'era un solo modo di continuare a governare secondo la tradizione: ricorrere al terrore.
Il terrore... Abbagliati dai manifesti multicolori, i turisti nordamericani che affluivano alla terra della musica, dello zucchero e del rum, non si avvedevano della sua esistenza. Ma, come abbiamo detto all'inizio, giunse il giorno in cui i manifesti in questione furono violentemente strappati, e ciò si verifico al momento dell'esplosione rivoluzionaria, l'assalto alla caserma Moncada.
All'epoca, Cuba era anche questo: il massacro di prigionieri inermi.
Fidel Castro, che aveva guidato il fallito assalto, fu sottoposto a processo. Ma a trovarsi sul banco degli imputati non fu lui, bensì la dittatura; e, insieme a questa la miseria, il "tiempo muerto", l'analfabetismo, la corruzione. Perché Fidel ignorò i capi d'accusa e espose invece un programma rivoluzionario, quello contenuto nel testo della sua autodifesa, divenuta in seguito celebre col titolo La storia mi assolverà .
Condannato a sedici anni di detenzione, dopo ventun mesi una memorabile campagna, pacifica e di massa, che segnò una tregua nella lotta armata e una fase di stanca del terrorismo repressivo, lo riportò in libertà. Fidel Castro, il rampollo di una famiglia di agrari, il dirigente universitario di cui era ancora vivo il ricordo, il giovane avvocato più impegnato a far politica che a procurarsi cause, approfittò dei mesi trascorsi dietro le sbarre per completare la sua formazione culturale, leggendo Martì, Marx, Lenin.
Liberato dal carcere, Fidel é costretto all'esilio, ed eccolo in Messico intento a preparare l'invasione di Cuba. Gli sono accanto Camilo Cienfuegos, suo fratello Raul ed Ernesto Guevara, l'argentino soprannominato dai compagni "il Che".
E giunse anche Frank Paìs, capo della resistenza nella provincia di Oriente: non per partecipare alla spedizione, ma per coordinare le azioni da condurre a Cuba in appoggio allo sbarco.
A un certo punto, la polizia messicana trae in arresto Fidel a causa delle sue attività insurrezionali.
Si interessa a lui Teresa Casuso, una cubana che da parecchio tempo vive all estero. "Sono andata a trovarlo in carcere - riferisce Teresa - ...al momento del congedo gli ho offerto la mia casa, aggiungendo la solita frase fatta: "Ricordati che in me hai un'amica". Solo che con Fidel Castro non sono cose che si dicono per semplice cortesia: due giorni dopo era in libertà e, un'ora più tardi, se ne stava seduto sul divano del mio soggiorno. Un sofà che, dopo tre notti, era ormai il suo letto... E come se non bastasse, il piano superiore di casa mia si andava trasformando in un arsenale pieno di armi e munizioni."
Così era fatto Fidel, quest'uomo dotato di una straordinaria capacità di coagulare attorno a sé le volontà, di suscitare la fede in imprese apparentemente impossibili.
Nel 1956 un panfilo, il Granma, salpa dal Messico con a bordo gli uomini che dovranno invadere Cuba.
Sono ottantadue, un numero che supera di parecchio la portata effettiva del panfilo. Un guscio di noce in mezzo al mare: quale impresa potrebbe sembrare più impossibile? Si direbbe che la storia, per raggiungere i propri fini, ricorra all'ironia: il guscio di noce, che nessuno prenderebbe sul serio, trasporta in realtà il detonatore che innescherà la carica destinata a sconvolgere in breve tempo l'isola intera.
E l'astuzia sembra il segno sotto cui si svolge anche il gioco tra Fidel, il rivoluzionario, e Fulgencio Batista, il controrivoluzionario. Necessità demagogiche avevano imposto il governo di quest'ultimo, il mulatto figlio di proletari, le necessità di una rivoluzione che avrebbe avuto luogo a centottanta chilometri dagli Stati Uniti imposero che a esserne il protagonista fosse il rampollo di una famiglia di agrari, gente religiosa, che aveva frequentato l'università dei ricchi.
Stando al copione storico tradizionale, Fidel risultava del tutto insospettabile, date appunto le sue origini. Egli però stava subendo un processo di maturazione ideologica, le cui conseguenze ultime per il momento nessuno avrebbe potuto prevedere. E fu così che, qualche anno dopo Fidel si sentì autorizzato ad afferrare: "E' possibile che, all'epoca, io sia apparso meno radicale di quanto fossi in realtà. Ma é anche possibile che fossi meno radicale di quanto io stesso non credessi".

E' certo comunque che a Cuba, a centottanta chilometri dagli USA, la storia stava per giungere a una svolta.


Fonti: Marcos Vinocour

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